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31 agosto 2015
Vita (e morte?) di un “giornalismo difficile”
Vita (e morte?) di un “giornalismo
difficile”
L’intera essenza del libro di
Mimmo Càndito si esplicita già nel binomio titolo-sottotitolo; quest’ultimo in
particolare costituisce un vero e proprio manifesto programmatico con il quale,
consciamente o meno, l’autore sembra voler eliminare ab initio ogni possibile fraintendimento o ambiguità circa la
struttura, la natura e la stessa ragion d’essere del suo raccontare. Fin dalle
prime pagine però la storia rivela evidenti sintomi di autobiografia, quasi a
voler fare da eco alle celeberrime parole di Plutarco οὔτε ἱστορίας γράφομεν, ἀλλὰ βίους,
non scrivo storie ma vite.[1]
I reporter di guerra è un racconto di vite, è il racconto di una storia molto più che di Storia.
Càndito non rivendica mai, infatti, dimostrando grande onestà intellettuale, il
ruolo di giudice super partes poiché
si rivela fin dal principio come ingranaggio della complessa macchina che si
accinge a ritrarre. A tal proposito mi torna alla mente un commento di
Wilamowitz che, ancora relativamente a Plutarco, scrisse “sarebbe ora di
cercare Plutarco nelle Vite parallele
invece di […] rimproverarlo per non essere stato uno storico, cosa che appunto
non voleva essere.”[2] E lo stesso
può essere detto di Mimmo Càndito che, non svestiti bensì mai indossati i panni
dello storico, rimane felicemente stretto nel suo gilet da reporter per
rivelare i segreti di un mestiere di cui teme la forzata estinzione. Il libro,
denso di esperienza, dà voce a tutti coloro che, in centocinquant’anni o poco
più di esistenza, hanno praticato quel rischioso e spesso scomodo mestiere di
raccontare la guerra, confrontandosi con un mondo che cambia insieme ai suoi
volti e alle sue armi. Càndito esplora con occhio attento l’eterno campo di
battaglia, sul quale Verità e propaganda sono perpetuamente destinate a
scontrarsi. Quando un giornalista decide
di scambiare la comodità della scrivania con i pericoli, le notti insonni e i
digiuni dell’indagine sul campo, si rende presto conto che il nemico non è solo
quello che spara. C’è un nemico più infido e strisciante, che con scaltrezza
imbavaglia la stampa e gioca con l’opinione pubblica. “Quando si dichiara
guerra” scriveva Arthur Ponsonby “la prima vittima è sempre la verità.”
La storia ricostruita in questo
volume non ha dunque pretese storiografiche o metodologiche, come si può
agevolmente evincere dalla struttura della narrazione. Gli eventi non trovano
infatti un ordine cronologico bensì tematico, in un groviglio di nomi e
lotte che affascina l’Uomo, ma non
Gibbons o Hobsbawn che ancorati al loro storicistico rigore arriccerebbero il
naso e si allontanerebbero impettiti. Ma se non si ragiona di Storia, il volume
di Càndito è davvero un’autentica gemma, ricchissima di testimonianze personali
attinte direttamente dal vissuto, non solo professionale, di uno dei grandi
reporter del nostro tempo.
Questo “giornalismo difficile” –
difficile nella migliore delle ipotesi, impossibile nella peggiore - ha inizio
molto prima di Hemingway (ma il citarlo era d’obbligo...) e continua con l’
“instant news” regalataci dalla Rete. Sicuramente “instant”, ma autenticamente
“news”? Il libro restituisce, per quanto disseminata nelle sue pagine, la
Storia del giornalismo di guerra, la cui fonte battesimale sembra essere stata
la guerra di Crimea, di cui dà testimonianza l’inviato del Times William Russell. Era il 1854 e Russell poté narrare l’ultimo
galoppo dei soldati inglesi, con il quale tramontava l’era delle sciabole e
nasceva la guerra moderna. Ernie Pyle, che raccontò tra il buio e la polvere
dei campi di battaglia la Seconda Guerra Mondiale e morì tragicamente in
un’isola del Pacifico colpito da un cecchino, è solo uno dei tanti tasselli con
i quali Càndito compone il proprio puzzle. C’è Luigi Barzini, che investe con i
suoi scoop la stampa italiana quando nel nostro paese “i giornali sono ancora
ben povere creature”,
il suo omonimo figlio, il celebre Hemingway, che sa raccontare magistralmente
le notizie vere e ancor meglio quelle false. E, in anni più recenti, Peter
Arnett, voce e viso dell’Occidente durante la prima guerra del Golfo.
Nominati – e come poteva essere
altrimenti? – anche se quasi di sfuggita due Grandi del giornalismo italiano:
Indro Montanelli, penna elegante e pungente, e la forse ancor più scomoda Oriana Fallaci.
Come si accennava poc’anzi, il
conflitto, ineliminabile e apparso fin da subito, fra informazione e potere
militare e politico che nel 1896 in Sudan fece esclamare al solitamente
compassatissimo Lord Kitchener “toglietemi dai piedi quei rompiballe!”
all’indirizzo dei reporter, si era in qualche misura sopito durante le due
guerre mondiali: le esigenze di una lotta universalmente percepita come fra
Bene e Male aveva fatto nascere un “giornalismo patriottico” che, senza
rinnegare la verità, accettava di piegarsi alle esigenze della sicurezza; come
insinua Càndito, creando grandi storie che, però, forse non erano vero
giornalismo. Basti pensare all’eroico intervento di Hemingway in Normandia il 6
giugno del ’44: tutti attendono in silenzio, avvolti nelle loro uniformi e
nella loro paura, tutti tranne il vecchio scrittore che con la morte ormai
sembra essere in discreta confidenza. “Sotto questa furia i soldati, l’elmetto
in testa, se ne stavano impacchettati spalla contro spalla in quell’atmosfera
di tragico sconfortante e solitario cameratismo che hanno gli uomini che vanno
in battaglia” scrive Hemingway come se avesse visto davvero quei giovani volti
consunti dalla guerra. Tuttavia non li vide e quel 6 giugno non mise mai piede
a terra in Normandia. “Anche se le sparava grosse quando si trattava di
raccontare le proprie gesta militari”, rivela lo stesso Càndito nel suo volume,
“le raccontava tanto bene che, alla fine, gli perdonavano di essere un
ballista.” A ben vedere però non di patriottismo si può parlare in questo caso,
bensì di vecchio e semplice egocentrismo.
Con il Vietnam, dove i comandi
militari lasciarono la massima libertà ai reporter per far cessare le sempre
più pressanti accuse di censura urlate da un’intera società sempre più
mediatizzata e pesantemente condizionata dalla “guerra in salotto” portata
dalla tv, la questione si fece dirompente. Terminato il conflitto, nel quale
indubbiamente gli Stati Uniti si erano fatti trascinare controvoglia dalla
sciagurata teoria del containment, l’inevitabile “processo alla sconfitta”
risultò in un verdetto inappellabile: la guerra era stata perduta sul terreno
politico e mediatico e non militare (vero); e la maggior colpa ricadeva su
un’informazione “disfattista” (falso). L’establishment politico-militare giurò
a sé stesso che ciò non avrebbe dovuto ripetersi in futuro, mai più. La Verità doveva
ormai scegliere tra il bavaglio e la sedia elettrica. Così, il ricco racconto
che Càndito fa delle svariate “dirty wars” successive il Libano, la Somalia, la
Bosnia, la prima Guerra del Golfo, l’Afghanistan... è la cronaca della crescita
di una censura strisciante e vischiosa, ma non per questo meno efficace, di un
filtro a maglie sempre più strette che tiene i giornalisti a distanza di
sicurezza dalle cannonate e dalla verità. Il monito è chiaro: racconta la
nostra storia o taci. La superiorità tecnologica degli eserciti occidentali dà
vita alla battaglia in remoto, dove, almeno fino alle ultime fasi, sono solo
occhi elettronici a vedere (e colpire) il nemico; oppure, come in Afghanistan
contro i talebani, fa fare il lavoro sporco, sul terreno, ad “alleati” locali
preceduti dalla mortale cortina di fuoco della stand-off battle delle bombe intelligenti. Perché un’altra lezione
del Vietnam è ormai entrata nel DNA dei militari occidentali: per evitare il
crollo del fronte interno, di opinioni pubbliche non più disposte a sopportare
lo strazio di giovani vite falciate da guerre tanto remote quanto
incomprensibili, non basta il bavaglio mediatico che evita di mostrare le
stragi ma, queste stragi, le si deve proprio evitare: l’elettronica rende
l’opzione-zero una realtà ottenibile, pazienza se al prezzo di qualche “danno
collaterale”. Questo è il dilemma che Càndito pone, e si pone, in conclusione:
in guerre sempre più combattute “in remoto”, dove il nemico neanche si vede se
non “prima” (in filmati di repertorio) o “dopo” (cadavere) o, più spesso, per
ragioni di buon gusto non si vede affatto; dove il requisito fondamentale è
evitare o limitare al massimo le perdite fra gli our brave boys e, in ogni caso, non fare arrivare mai immagini sgradevoli nelle case degli
spettatori; dove la verità, dunque, resta invisibile anche al reporter più
abile e volenteroso, lontano dal fronte, accecato, manipolato dai briefing e
tenuto a digiuno (oppure sommerso, che è lo stesso) di materiale accuratamente
selezionato e “lavato”; in questo contesto, ha senso oggi tentare di fare
informazione? O meglio si può ancora parlare di informazione o spettacolo ne
diviene tragicamente il più calzante sinonimo?
L’avvento della tv appare, nelle
pagine di Càndito, come il colpo di grazia inferto a una stampa che non può
competere con la forza dirompente dell’immagine, con la sua immediata
percezione. E che la guerra messa in scena dallo schermo sia vera o falsa poco
importa, l’importante è che qualcosa si faccia vedere. “La storia dei corrispondenti
di guerra oggi pare vicina al capolinea” conclude amaramente “vero e verosimile
sono divenuti una cosa unica”. Il racconto di Mimmo Càndito potrebbe davvero
essere una lapide al giornalismo di guerra, un sipario calato su una breve
eppure intensissima stagione dell’informazione. Ma non muore ancora la speranza
che qualcosa possa cambiare, che le coscienze non siano poi così assopite come
spesso si finge di credere. In fondo nessuno avrebbe mai pensato che l’uomo
potesse mettere piede sulla luna o che le glorie dell’impero romano,
sprofondate nel buio del Medioevo, potessero poi rinascere dalle loro stesse
ceneri. Insomma fin dagli albori della nostra storia siamo stati capaci di
compiere l’impossibile, alzandoci, cadendo e di nuovo alzandoci. Che il sipario
si riapra dunque.
G. Camilla Severino
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