Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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10 febbraio 2016

Ieri e oggi: viaggio nel giornalismo di guerra


“Il giornalismo di guerra fa parte della logica delle cose, è nella natura dell’uomo, non sta a noi giudicare se le guerre sono giuste o sbagliate, l’importante è raccontarle e dare ai nostri lettori le ragioni delle due parti”. 

Queste sono le parole dell’inviato speciale del Corriere della Sera Lorenzo Cremonesi da cui Letizia Magnani avvia la sua riflessione sul giornalismo di guerra, in particolare sul cambiamento che lo ha permeato negli ultimi venti anni. Le volontà dell’autrice sono chiare fin dall’inizio: da un lato, vuole capire chi è e che cosa fa il corrispondente di guerra, com’é il giornalismo visto con gli occhi di fa questo lavoro. Dall’altro, vuole tentare di comprendere le ultime guerre in relazione dei diversi media e delle diverse risorse impiegate, e il rapporto fra media e potere sul tema dell’informazione, della censura e della propaganda. Per farlo, si avvale delle conversazioni avute con trentatré giornalisti inviati in giro per l’Italia e del confronto con molti altri giornalisti incontrati nelle redazioni di testate nazionali e locali. Come è cambiato il loro mestiere? Come sono cambiate le guerre? Come la società? Dai dati raccolti si desume che si possa parlare di una specificità del giornalismo di guerra in Italia dai primi anni Ottanta, quando le redazioni dei giornali iniziano a mandare gli inviati nei luoghi dove si consumano le crisi internazionali, ad oggi. Questo lasso di tempo si può suddividere in tre periodi:
·       -  dal 1979 (guerra in Afghanistan) o dal 1982 (guerra in Libano): nasce la vera e propria categoria dei giornalisti di guerra;
·       - dal 1989 o dal 1991, con il crollo del muro di Berlino e la guerra del Golfo: in questo periodo la televisione assume un ruolo preponderante, e il giornalismo classico è costretto a ripensarsi in forme nuove, prima sotto la pressione del piccolo schermo e poi sotto quella dei nuovi media, cambiando anche il rapporto fra poteri;
·       - dall’11 settembre 2001 a oggi, dove non ci sono più campi di battaglia o dichiarazioni di guerra, adesso il nemico è il “terrorismo internazionale” in nome del quale vengono meno gli accordi internazionali,  per cui anche il rapporto tra potere e media cambia. Gli inviati, secondo la definizione di Ennio Remondino (RAI) durante un’intervista, “sono sempre più spesso conduttori prestati alla guerra e sempre meno giornalisti che esercitano il giornalismo del dubbio”, i cosiddetti embedded che seguono le truppe.
 Tra i giornalisti intervistati da Magnani ce ne sono alcuni più anziani, che si occupavano dei fatti del mondo durante gli anni Ottanta: Bernardo Valli, Ettore Mo, Mimmo Candito e Roberto Fabiani, Alfredo Passarelli e Ulderico Piernoli. Altri più giovani, come Claudio Monici, Alberto Negri, Lorenzo Bianchi, Toni Fontana, Gabriel Bertinetto, Franco di Mare, Ferdinando Pellegrini, Antonio Ferrari, Lorenzo Cremonesi, Giovanni Botteri, Gian Micalessin, Gabriella Simoni, Pietro Veronese, Renato Caprile, Franco Maria Piddu, Alberto Bobbio, Maria Cuffaro, Tiziano Ferrario, Francesco Battistini e Luca Geronico: quasi tutti hanno iniziato la loro esperienza di inviati di guerra nei primi anni Ottanta o nel Libano nel 1982 o in Medio Oriente. Altri giornalisti qui intervistati sono a capo delle redazioni estere, come Gianni Perrelli, Nicola Lombardozzi e Gianfranco D’Anna. Altri ancora sono anche teorici del mestiere, come Marco Guidi, Ennio Remondino, Sandro Petrone.
Chi è il corrispondente di guerra e come lo diventa? Cosa fa il giornalista proiettato in uno scenario bellico? E ancora: come è cambiato il mestiere dell'inviato di guerra? E le guerre? Cosa sappiamo davvero dei fronti di guerra? Quanto e come agisce la censura? Letizia Magnani inizia il suo lavoro con una premessa metodologica dove espone i metodi, gli strumenti e gli scopi della ricerca svolta, compresa una bozza di domande di cui si serve come traccia per condurre le interviste-conversazioni con gli inviati, che verranno poi declinate in base all’interlocutore. Si passa poi all’esposizione dei temi oggetto del suo studio attraverso le interviste agli inviati, in primo luogo l’argomento di chi sia e cosa faccia il giornalista di guerra. Attraverso le testimonianze riportate emerge una sorta di identikit del giornalista di guerra: egli registra i fatti del mondo, è il testimone di ciò che accade e riporta i fatti come notizie, magari “sul tamburo” (Ettore Mo) sceglie le fonti e ne determina l’attendibilità. Deve essere mosso da curiosità e passione, spirito critico e consapevolezza dei rischi della professione. Il giornalista di guerra è un “curioso giramondo, con un pizzico di gusto per l’avventura, una dose di egocentrismo e una passione per la politica internazionale, mosso dall’insana ambizione di raccontare storie tristi raggiungendo luoghi da cui la gente normale preferisce scappare” (Gian Micalessin) che “va là dove le cose accadono davvero” (Roberto Fabiani) per “capire e per far capire” (Marco Guidi). Il giornalista racconta ciò che vive, cioè la guerra vera, in maniera più diretta rispetto a tutto il resto del mondo.
Nel terzo capitolo viene analizzato il rapporto fra poteri: quello dei media da un lato e quello della politica e militare dall’altro, con una riflessione su come agiscono censura e autocensura. Mimmo Candito afferma che si instaura un rapporto triangolare “fra il giornalista di guerra e la guerra (meglio fra il giornalismo e la guerra), mettendo come terzo elemento di questo triangolo il potere, cioè la gestione e il controllo dell’informazione che poi diventa la notizia nelle mani del giornalista”.
Nel quarto capitolo l’autrice affronta il problema del modo di fare giornalismo, quello nuovo e quello vecchio, e il suo rapporto con la storia. Giornalista e storico, infatti, sono mestieri affini ma al tempo stesso diversi: al centro del loro lavoro ci sono la comprensione e la narrazione delle storie umane. Ma lo storico raramente vive la guerra: in genere egli la studia a distanza di tempo, mentre il giornalista inviato è incollato alla guerra, la segue da vicino, vive ogni sua vicenda, dunque è parte integrante della storia stessa. Lavora quando le cose avvengono, mentre avvengono, addirittura a volte muore in esse, lo storico no; eppure entrambi tentano di comprendere.
Negli ultimi capitoli, Letizia Magnani analizza altri elementi del nuovo giornalismo, come i conflitti dimenticati e le donne giornaliste, per poi lasciare spazio alle esperienze personali dei giornalisti inviati, la cui collezione dà una visione d’insieme della categoria in Italia. Questi giornalisti non sono “eroi” né “villani” (Alberto Negri), ma persone curiose, aperte al confronto e alla ricerca costante.
Il lavoro di Laura Magnani si conclude riassumendo il concetto preponderante della sua ricerca: il giornalista di guerra, l’inviato speciale, che si fa testimone della realtà, indaga, vuole comprendere, non esiste più. Questa figura è cambiata così come sono cambiate le guerre e la società in generale: il giornalista non è più da solo a seguire le guerre da vicino, i sistemi mediatici hanno assunto n ruolo sempre più importante rispetto al singolo; ciononostante la voce del corrispondente di guerra è vista dall’autrice come una figura indispensabile per una società democratica, perché può fornire un racconto soggettivo e preciso. Egli ha un ruolo civile, etico, che è fondamentale nella società dell’informazione odierna.
Silvia Marcenaro


Magnani Letizia 
C'era una volta la guerra... e chi la raccontava: da Iraq a Iraq. 
Storia di un giornalismo difficile 
Edizioni Associate, Roma, 2008, 570 pp.
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