Da quasi un secolo la memoria collettiva si organizza intorno ad eventi mediati dalle comunicazioni di massa (es. Twin Towers, rapimento Moro), si dà per scontato che la notizia sia giunta a tutti in breve tempo, la curiosità è in come quell’evento abbia interrotto il corso normale della vita di ognuno. I media sono quindi in grado di coinvolgere, condizionare, focalizzare l’attenzione della totalità degli utenti di quel media su un determinato fatto; ciò assume dimensioni sproporzionate nell’epoca in cui siamo connessi l’intera giornata tramite smart phone. I grandi eventi sono programmati e costruiti attraverso i media, di fatto se un evento non ha risonanza mediatica è come se non fosse mai accaduto. Sono privilegiati quei fatti che si crede possano maggiormente appassionare l’opinione pubblica, suscitare emozioni forti (meglio se negative) e imbastire un dibattito; soprattutto gli avvenimenti imprevisti causati dall’uomo hanno forti possibilità di essere comunicati e manipolati. Nelle crisis reporting il giornalista non è neutro (come in ogni azione giornalistica), influenza i dati “osservati” e normalmente nella pluralità mediale vi sono più narrazioni in competizione tra loro, non giungendo ad un consenso generale.
In un certo senso si può affermare che un fatto, non passando attraverso il filtro dei media, è come se non esistesse; McNair afferma che il terrorismo può avere un significato come atto comunicativo solo se è trasmesso dai mass media. Fino a quando non è raccontato l’atto terroristico non ha significato sociale. Esempio emblematico è stato il rapimento di Aldo Moro dove si manifestò la lotta per il controllo dell’informazione e della comunicazione politica. Poiché l’azione politica illegale esige contemporaneamente una massima segretezza e una massima pubblicità, vi fu il massimo controllo politico dell’informazione per arginare l’operazione spettacolare e mediatica delle Brigate Rosse. McLuhan addirittura affermò: “La situazione più valida e giusta è di ridurre al minimo la copertura giornalistica, sino a giungere, se necessario, al black-out totale delle notizie: proprio perché i terroristi mirano ad usare la stampa e la tv come cassa di risonanza per la loro immagine e per i loro programmi, occorre negargli il raggiungimento di tale obiettivo”. Di fatto la misura del black-out non venne adottata perché l’attenzione del paese era troppo forte ed un filtro troppo stretto si sarebbe rotto con notizie diffuse senza controllo; la comunicazione non andava silenziata, ma controllata.
L’effetto che possono avere le notizie risulta amplificato nella nostra epoca, poiché le nuove tecnologie ci permettono di mantenerci informati in tempo reale. Oggi il terrorismo ha programmato la propria strategia di comunicazione su uno spettatore che vede e teme in diretta, chi viene a conoscenza delle notizie sente il crollo tra interno ed esterno, da spettatore a potenziale vittima (emblematica è la propaganda dell’ Isis in internet). La caduta di queste barriere tra persone e fatti, persone e persone, concretizzatasi nel web 2.0 comporta anche che il pubblico possa diventare parzialmente giornalista su blog o social network; ognuno dispone delle tecnologie che permettono di produrre e diffondere istantaneamente foto, video, audio, testi. Un numero crescente di persone si informa attraverso il cellulare o altri dispositivi connessi ad internet e spesso acquisiscono le notizie attraverso piattaforme sociali (Facebook, Twitter) Quella che appare come un’inezia, poiché molto spesso i post riportano articoli di siti ufficiali e quindi informazioni vere e verificate da professionisti, rappresenta una deriva dell’informazione: i social network prevedono una fruizione personalizzata e tendono a mostrarci notizie “personalizzate”. Van Dijck afferma: “ le tecnologie per l’informazione e la comunicazione sono diventate forze ambientali, antropologiche, sociali e interpretative. Creano e modellano le nostre realtà, cambiano la nostra auto-comprensione, modificano il modo in cui ci relazioniamo, potenziano il modo in cui interpretiamo il mondo: tutto ciò in modo pervasivo, profondo e ininterrotto”. Anche il giornale politicamente più schierato rappresenta un punto di vista organico, condivisibile o meno; le piattaforme sociali invece offrono notizie confezionate per noi come abiti su misura che consolidano le nostre concezioni e inaridiscono il nostro pensiero critico.
Il fatto grave è che coloro che gestiscono i social network li descrivono come semplici piattaforme asettiche, contenitori riempiti dagli utenti, che risultano utili o dannosi in base all’uso che se ne faccia. Questa fuga dalle responsabilità, tipica della maggior parte delle società della Silicon Valley, risulta sempre più difficile. In occasione dell’omicidio di James Foley, Twitter per la prima volta è andata contro la sua auto definizione di “semplice piattaforma per la diffusione di contenuti” ed ha cancellato account e propaganda dell’Isis oltre a foto e video dell’esecuzione diffusi da altri utenti. Anche Facebook sta adottando un comportamento dichiaratamente editoriale con il sistema di fact-checking che segnala agli utenti eventuali fake news presenti.
Facebook, Twitter, Google hanno un controllo incredibile e preoccupante su quali informazioni noi, utente o impresa dei media, possiamo vedere e condividere. Gli abbiamo dato un’enorme fiducia che deve essere guadagnata e confermata con regolarità. Se prendono decisioni editoriali, è fondamentale che i criteri siano esposti in anticipo in modo chiaro e aperto, e che siano applicati in modo coerente e corretto. Lo spazio pubblico operato dal settore privato, la sorveglianza digitale, l’assoluta asimmetria nel potere e nella conoscenza tra utente e piattaforma, sono il lato oscuro della connessione universale e della capacità di comunicare liberamente. Pensare che internet, rendendoci creatori oltre che fruitori di contenuti, permetta una comunicazione senza filtro è un’illusione.
Giacomo Rizzi
Alessandro Gazoia
Senza Filtro. Chi controlla l’informazione
Minimum Fax, Roma, 2016, 404 pp.
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