L’autrice più volte ricorda ai lettori la vera missione del giornalismo, quasi come se lei stessa sentisse il bisogno di farlo, di insistere su questo punto, così spesso dimenticato.
Siamo nell’era delle contraddizioni. Da una parte l’esplosione dei produttori di informazione moltiplica le notizie in modo esponenziale, dall’altra la profonda crisi del settore ne muta profondamente le caratteristiche. L’autrice la chiama age of giants, in riferimento ai grandi colossi che dominano sempre più inevitabilmente la scena mondiale dell’editoria. Ma questi giganti comportano anche un basso livello della produzione finale, in una contrapposizione quasi fisica tra qualità e quantità. L’informazione è sempre più standardizzata, le agenzie di stampa hanno il compito di ridurre i costi di produzione delle notizie. E l’avvento del digitale non ha portato a un adeguato impiego delle nuove possibilità tecnologiche.
Proprio il digitale, che in un primo momento sembrava l’ancora di salvezza di questa nave in tempesta, oggi dimostra la sua inconsistenza e la sua incapacità a risollevare le sorti del giornalismo. I lettori online sono aumentati, si dice. Ma con precise analisi economiche, Cagé dimostra come le entrate derivanti dall’online non siano in grado di compensare le perdite del cartaceo. E, dato ancora più sconvolgente, questi lettori online non sono nemmeno così tanti. Occorre infatti distinguere tra accessi unici e lettori mensili. Per Le Monde i primi sono 8 milioni, che si riducono a 1,5 milioni di accessi al mese. Non va meglio per il New York Times, che passa dai 54 milioni di utenti unici a 7 milioni di lettori mensili. Se confrontati con le vendite dei quotidiani cartacei moltiplicate per i valori di diffusione, i lettori analogici quasi equivalgono quelli digitali. Per non parlare dei tempi di lettura: per un giornale web non si superano i 5 minuti di media.
E tutto questo ha ripercussioni sul valore della pubblicità, che appare sempre meno in grado di tenere in vita i mezzi di informazione.
Julia Cagé sfata un altro mito relativo alla stampa, quello dei sussidi statali. Attraverso dati e comparazioni tra paesi e tra settori dell’economia, l’autrice dimostra l’inadeguatezza degli aiuti statali alla stampa, e, in riferimento alla Francia – ma con suggestioni estendibili ad altri paesi – afferma la necessità di ripensare il sistema di intervento statale, in modo che sia proporzionale al volume d’affari e alla diffusione del giornale e che valga solo per testate politiche o di informazione generale, che producano contenuti originali.
Se l’industria dei media è sul baratro, l’unica soluzione sembra essere l’affidarsi a miliardari che investano milioni di dollari nel settore. Il fondatore di E-bay, il proprietario dei Red Sox, il padre di Amazon, sono solo alcuni dei ricchi donatori che hanno salvato imprese editoriali dal fallimento (e non imprese qualunque, si parla di Boston Globe e Washington Post). Ma questo rende fragile il funzionamento delle nostre democrazie. Se anche le intenzioni di questi facoltosi fossero lodevoli, un giorno verranno sostituiti e nessuno può garantire che i loro successori non utilizzeranno le loro aziende per interessi privati.
Dopo qualsiasi pars destruens che si rispetti, anche in Salvare i media arriva la pars costruens. L’autrice propone un nuovo modello di gestione dei media, una sorta di associazionismo fondato sulla partecipazione al capitale e sulla condivisione del potere. Dopo un’analisi economico-giuridica sulle diverse modalità di gestione, dalla società per azioni alle fondazioni, viene proposto in dettaglio il nuovo, rivoluzionario, modello di associazione non profit per le aziende editoriali. Tale modello ha i vantaggi della fondazione, senza averne i rischi di accentramento del potere. Permette infatti di favorire la dotazione di capitali (attraverso misure fiscali vantaggiose) e di mettere in sicurezza i capitali investiti e, nello stesso tempo, disciplina il potere decisionale, dando nuovo ruolo ad associazioni di lettori e dipendenti. In proporzione, inoltre, varrebbero di più i diritti di voto dei piccoli azionisti.
In conclusione, si può dire che il modello proposto riesca veramente a offrire una luce in fondo al tunnel, grazie alla combinazione di capitalismo (vantaggi economici per chi investe) e democrazia (controllo del potere e divisione dello stesso), rilanciando inoltre un nuovo ruolo, sempre più attivo, per dipendenti e lettori, in un tentativo di riavvicinamento tra il pubblico e la carta stampata, che appare sempre più urgente nella società contemporanea, vittima della crisi che ha colpito il mondo editoriale e di conseguenza il pieno funzionamento della democrazia.
Virginia Carnacina
Julia Cagé
Salvare i media. Capitalismo, crowdfunding e democrazia
Bompiani, Milano, 2016
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