Immagini significative che raccontano di guerre, di uomini e donne rassegnati, disperati, che pregano.. Immagini che rivelano come la civiltà dei media cerchi di imporre gli standard di massa (Jeans, Coca-Cola..) ai quali le culture, rimaste fedeli ai loro valori nazional-religiosi si oppongono.
D’altro canto, Ryszard Kapuscinski ha trascorso la sua vita professionale ad osservare il “divenire” della storia della seconda metà del XX secolo, chiedendosi fino a che punto i nostri strumenti siano in grado di rispecchiare questo “fluire”; fino a che punto si riesca a comprenderne l’intero corso e fino a che punto sia possibile farne poi una sintesi.
Le foto fanno riflettere, così come colpisce la narrazione.
L’autore parte da molto lontano, evoca Erodoto su una domanda fondamentale: vuole scoprire le cause della guerra. Si chiede come mai gli avversari si combattano tra loro.
Considera molto importante la memoria personale che differenzia ognuno di noi, sulla quale ha una sua tesi molto singolare: sostiene, infatti, che l’uomo cominci ad essere “uomo”, in quanto essere umano, partendo dal suo ricordo più remoto, definendolo una parte essenziale della coscienza umana.
Nel secondo capitolo del libro analizza il fenomeno della cosiddetta decolonizzazione. All’inizio del XX secolo il piccolo ma importante gruppo di Stati che governavano il pianeta erano i padroni delle colonie d’oltremare, territori a loro assoggettati e da loro dipendenti nel Sud del mondo, oggi, a distanza poco più di cento anni queste colonie sono comparse.
Circa 200 Stati profondamente diversi tra loro, formalmente indipendenti, sono nati attraverso il processo della cosiddetta decolonizzazione che si è svolta quasi ovunque secondo un medesimo schema, ossia: forze politiche che al termine della seconda guerra mondiale si sono raggruppate, quasi sempre attorno ad un fronte unitario composto in maggioranza da intellettuali.
La divisione dei “tre mondi” risale alla metà del secolo scorso e la denominazione “Terzo Mondo” proviene dal demografo francese Alfred Sauvy.
Nel capitolo l’autore si trova ad analizzare l’epoca coloniale, nello specifico valuta l’Africa occidentale ove la conquista si è compiuta sotto forma di graduale penetrazione economica.
L’autore descrive l’Africa come la più preziosa di tutte le sue esperienze. Sostiene che la parola “Africa” sia un modo molto riduttivo per definirne il continente, mentre, in realtà si tratterebbe di un mondo quanto mai variegato.
Negli anni della Guerra Fredda nel continente si intromisero subito le grandi potenze, che favorirono personaggi di infimo grado, magari non troppo perspicaci ma obbedienti: Mobuto, Bokassa, Idi Amin, Menghistu, Hailè Mariam solo cinici opportunisti, disposti a tutto e dotati di astuzia animalesca.
Gli anni 60 furono il decennio dei colpi di stato militari. Durante le guerre etniche gli intellettuali divennero “selvaggina cui dare la caccia”. Massacri sanguinosi e lontani dalla nostra “Europa” spesso dimenticati dal resto del Mondo.
È anche una denuncia ai paesi occidentali che quando non erano direttamente coinvolti in un conflitto, vi mantenevano comunque i loro interessi economici, e stavano ben attenti alla loro immagine “pulita” nei confronti dell’opinione pubblica.
Il comportamento delle nazioni si riflette in quello dell’informazione.
I corrispondenti spesso vengono inviati sul posto solo dopo lo scoppio dei conflitti e una volta sul posto fanno solo il conto dei morti e feriti per poi andarsene. Il giornalista è cosi sballottato da una zona di guerra all’altra, strumentalizzato dalle forze politiche. Kapuscinski cercava di scoprire e di andare oltre la facciata e le scarne informazioni che gli arrivavano dalle fonti istituzionalizzate.
Nel terzo capitolo Kapuscinski racconta di quando arrivò nel Congo (1960) con la stampa mondiale che traboccava di articoli sull’estrema pericolosità del conflitto in atto. Si temeva il peggio, l’Africa era sempre associata a qualcosa di molto pericoloso e di incerto.
Anche se le nazioni occidentali si facevano promotrici dei diritti umani e della tutela della libertà di ogni persona nel mondo, nei casi di genocidio e di conflitto nei paesi Africani e nel Medioriente, la popolazione civile era spesso dimenticata, riducendo il tutto a scontri tribali, brutali e privi di senso. Kapuscinski descrive le difficoltà che il corrispondente estero si trovava ad affrontare una volta arrivato sul posto.
I capi della Pap proposero a Kapuscinski di diventare il loro corrispondente fisso dall’America Latina. Partito nell’autunno del 1967 vi trascorse quattro anni fino al 1972. Vi giunse per la prima volta due mesi dopo la morte, a 39 anni, di Ernesto Che Guevara e la brutale liquidazione del suo reparto partigiano in Bolivia. Tuttavia la figura del Che continua a sopravvivere nelle memorie e nelle coscienze. La sua morte chiudeva la fase del cruento e violentissimo scontro impersonato dalla lotta armata e dai moti partigiani dei contadini contro le élite al governo quasi sempre dominate dai militari.
Per trovare informazioni e scoop bisognava sapersi destreggiare tra pratiche burocratiche molto severe e segreti militari che non ammettevano l’uscita di alcun tipo di notizia. Ci sono rigide regole a cui il giornalista deve attenersi se non vuole incorrere a gravi conseguenze o esporsi ai rischi che un’area di guerra può dare.
In America latina la scena politica era divisa in due partiti: quello dei militari e quello dei civili. La storia di questi paesi si riduceva alla continua lotta tra i due gruppi diventando una delle caratteristiche distintive dei regimi dell’America Latina: l’alternarsi di governi militari e civili.
Kapuscinski incontra l’islam nel 1956 durante il suo primo viaggio in India, Pakistan e Afghanistan. Nel capitolo quinto narra di questa sua nuova esperienza. Islam è una delle grandi religioni planetarie che penetra i continenti, culture e lingue quanto mai diversi tra loro. Rilevava il profondo senso religioso della vita dei mussulmani che conferisce loro un sentimento straordinariamente forte di identità, di comunione, di unità.
Intorno all’islam, oggi, vi è in corso un grande gioco politico, i media cercano di creare nell’inconscio dello spettatore di massa un associazione islam-terrorismo anche se in realtà i movimenti terroristici non costituiscono che una minima parte del mondo islamico.
Nel capitolo sesto Kapuscinski racconta di quando visita la Russia e ne analizza la storia. La descrive come un immenso paese situato in una posizione molto importante del nostro pianeta. La storia della Russi è stata per secoli la storia di un’incessante espansione, improntata per centinai di anni allo spirito di scoperta di nuove zone del mondo. Ma le sue dimensioni, all’inizio del XX secolo sono diventate una sorta di trappola. Nessuno è riuscito a prevedere il momento della caduta dell’impero sovietico, la caduta è da ricollegare a vari motivi, il principale, secondo Kapuscinski, era l’enorme dispendio di risorse per tenere testa alla corsa al potenziamento dell’arsenale nucleare messo in atto dall’amministrazione americana nell’era Regan. La peculiarità è che la Russia pur non essendo mai stata sconfitta sul campo, è crollata per la sua stessa incapacità di adeguarsi ai cambiamenti. Il crollo della struttura statale e di quella ideologica innescarono un inevitabilmente periodo di crisi profonda.
Oggi la Russia si trova ad un bivio ove si trovano a scontrarsi due forze: quella degli slavofili che vorrebbero mantenere la Russia come un mondo a parte e quella degli occidentalisti che vorrebbero annettere la Russia all’Occidente.
Nel settimo capitolo Kapuscinski afferma di essersi occupato per interi decenni del Terzo Mondo convinto che solo li si svolgesse la vera storia. Riportando però il suo interesse sull’Europa, si accorse la presenza di “due Europe”: quella occidentale “sviluppata” e quella orientale “sottosviluppata”. Sostiene inoltre, che in seguito ai suoi viaggi tra i Paesi dell’ex Unione Sovietica e in Russia la divisione in due Europe non solo permane ma si è addirittura approfondita. L’emigrato russo Heller sostiene che il comunismo è stato sconfitto su tutti i fronti tranne che su quello dell’educazione dell’uomo. Si tratta di un sistema che lascia tracce durature nella mentalità, nel modo di vedere il mondo, nella valutazione della realtà.
Nel 1989 subito dopo la caduta del muro ci fu un grande momento di euforia, presto seguito dalla delusione. Quello che ha colpito Kapuscinscki è stata la mancanza da entrambe le parti dell’Europa, di un tentativo di avvicinamento, del desiderio di conoscersi a vicenda e di cercare una piattaforma comune. In realtà, sostiene Kapuscinski l’Europa occidentale: “parla molto della creazione di un’unica Europa, ma in realtà non la vuole”. La nuova configurazione si traduce in sempre più società e sempre meno stato. Oggi che non esiste più il mondo bipolare le questioni sono diventate molto più complicate e complesse.
Negli ultimi 5 secoli, ossia dal tempo delle spedizioni di Colombo la cultura dominante del nostro pianeta era quella europea i cui modelli, i cui simboli hanno rappresentato un criterio universalmente accettato.
Visitare il mondo, oggi, riferisce l’autore, significa partire per zone contrassegnate da caratteristiche molto più specifiche di una volta. Un tempo la dominazione europea ci faceva sentire a casa nostra più o meno in tutto il mondo. Oggi la presenza europea si va sempre più restringendo. È iniziata la detronizzazione dell’Europa. Una volta erano solo gli europei a viaggiare per il mondo ora si assiste al processo inverso: gli europei si ritirano in Europa.
L’esclusività dell’Europa occidentale è finita, la tanto sognata Europa non esiste più. Il processo di creazione di un’Europa multiculturale si svolgerà ad un ritmo sempre più veloce. Le trasformazioni demografiche in atto nel mondo assumono proporzioni delle quali nemmeno ci rendiamo conto.
L’Europa sta perdendo la sua identità tradizionale: è sempre meno un continente di cristiani bianchi e sempre più una zona multiculturale e multireligiosa. Il rapporto con l’islam sta diventando un problema interno del mondo europeo. Gli americani rimproverano gli europei occidentali di essersi chiusi in sé stessi, una chiusura che oggi è il punto più debole della cultura del Vecchio continente. L’Europa deve trovarsi un nuova collocazione sulla mappa del Mondo, l’autore è convinto che stiamo passando dall’ “Europa-Mondo” all’ “Europa nel Mondo”, questa, è la grande svolta davanti alla quale si trova il nostro continente.
Nell’ottavo capitolo Kapuscinski apre una profonda riflessione sul mondo attuale sopravvissuto a tutti gli sconvolgimenti del XX secolo: un mondo multiforme una sorte di variegato collage.
Kapuscinski non esista a ritornare su Erodoto: “ci si rende conto dell’impossibilità di conoscere la propria cultura senza conoscere quella degli altri”, si tratta della “teoria degli specchi”, secondo la quale la nostra cultura si specchia nelle altre, solo a quel punto inizia a diventare comprensibile. Le altre culture sono specchi nei quali ci riflettiamo e nei quali riusciamo realmente a vederci come siamo. Quello che dobbiamo chiederci è se, vivendo in culture, civiltà e religioni diverse, vogliamo cercarvi gli aspetti peggiori per rafforzare i nostri stereotipi, oppure sforzarci di scoprirvi dei punti di contatto.
Siamo 6 miliardi di individui che vivono in decine di culture, religioni e lingue diverse, con migliaia di interessi e bisogni diversi.
Diffondere oggi il conflitto di civiltà è pericoloso. Il problema sta nel vedere che cosa finirà per dominare il mondo.
L’autore pone il focus della questione sulla tragedia dell’11 settembre che in ultima analisi considera una conseguenza del prevalere dell’economia sulla politica.
In tutto il mondo si nota un progressivo indebolimento dello Stato, in effetti lo Stato ha perso i suoi principali attributi di governo e di controllo, a causa dell’odierno stratosferico sviluppo dei mezzi di comunicazione e di collegamento globale. L’economia del mondo sfugge al controllo statale, essendo la Stato una forza di tipo prettamente territoriale. Tutto ciò accade perché dalla fine del XX secolo è avvenuto un forte processo di eliminazione del controllo sociale sul potere. Conseguentemente tutti i meccanismi di controllo, di pressione e di correzione, una volta potenti, sono stati completamente esautorati, le sedi in cui vengono prese le decisioni si sono liberate da ogni controllo sociale. In base a questa consapevolezza molte persone non va più nemmeno a votare. Il voto è considerato un gesto puramente formale, tale atteggiamento esprime la totale indifferenza della società verso il potere, dovuta ad un senso di impotenza.
Affrontando il contemporaneo problema del terrorismo Kapuscinski rileva come i grandi Stati tentino di reagire al fenomeno con metodi puramente militari, dimenticando in tal modo che lo si può limitare, spiare, indebolire.. ma non liquidare. Qui l’autore giunge al nucleo centrale della riflessione: il terrorismo in prospettiva richiederà una guerra lunga di fronte alla quale non ci saranno né effetti immediati, né soluzioni spettacolari.
Ritornando sulla questione della globalizzazione Kapuscinski ci avvisa di tutta una serie di minacce incombenti sul mondo: il modo ricco non riuscirà più a isolarsi e a starsene per proprio conto, le riserve mondiali sono troppo esigue e i meccanismi della loro distribuzione o redistribuzione troppo imperfetti.
Secondo la propaganda semplificante dei grandi media la globalizzazione rappresenterebbe la via del benessere per tutti, ma non è proprio così, a guadagnarci, di fatto, sono solo i più potenti: banche, corporazioni che tengono al libero mercato. Esiste una teoria secondo la quale la globalizzazione sarebbe una diversa forma di colonizzazione.
Queste riflessioni ci consentono d’interpretare in maniera diversa gli avvenimenti dell’11 settembre, in quanto ci dimostrano che abbiamo a che fare con forze che nessuno realmente controlla e che in futuro saranno ancora più difficili da dominare. Kapuscinski afferma che si potrebbe identificare l’11 settembre come un sintomo delle malattie che pesano sul Mondo e, di conseguenza, si dovrebbe aprire un dibattito su quelle forze che, accumulatesi per anni, hanno finito poi per manifestarsi in modo così atroce.
Il libro non finisce senza una nota di speranza. Nel nono capitolo Kapuscinski individua nell’Asia centro-orientale, definita “la civiltà del Pacifico” la nuova nascente civiltà del XXI secolo, ove attualmente si concentra la maggior parte del capitale. È lì che si sposta il cuore pulsante dell’economia mondiale, il capitale vi affluisce non solo per motivi economici, ma anche culturali. Esiste una condizione particolarmente favorevole proprio nell’ambito delle culture asiatiche, che offrono la possibilità di coniugare tre importanti elementi della cultura asiatica tradizionale: il lavoro, il risparmio e la disciplina.
Nella storia dell’umanità esistono dei momenti in cui il mondo sboccia producendo una meravigliosa esplosione del pensiero umano. Purtroppo finora nessuno ha mai pensato di accomunare, in modo concreto, le culture gravitanti sulle diverse sponde del Pacifico. Oggi, grazie alla rivoluzione elettronica e tecnologica questa civiltà, si auspica, potrà finalmente organizzarsi.
La Cina è lo Stato demograficamente più vasto del mondo e in continua crescita. Come l’islam, la civiltà cinese si dimostra refrattaria agli influssi della civiltà americana. La Cina, molto ambiziosa, aspira a svolgere un ruolo egemone nella cosiddetta “Civiltà del Pacifico”.
Su questa riflessione Kapuscinski innesta il fenomeno delle migrazioni. Oggi gli immigrati stanno fisicamente in un luogo, ma attingono altrove la loro aspirazione culturale. L’emigrazione è un’unione tra la speranza ed il movimento. La speranza si avvera grazie al movimento. La gente cerca di migliorare le proprie condizioni di vita attraverso il movimento spostandosi da un luogo che considera “cattivo” ad un luogo che considera “buono”. Kapuscinski afferma che si tratta di un processo irreversibile, profondamente connaturato al pensiero dell’uomo. L’emigrazione è un processo che esiste da sempre, ma la scala su cui attualmente si svolge è immensa e finora mai riscontrata nella storia.
La storia tradizionale è stata una “storia di popoli”. Oggi per la prima volta dai tempi dell’Impero romano esiste la possibilità di creare una “storia delle civiltà”.
Questa nascente civiltà del Pacifico, rivela Kapuscinski con grande suggestione, rappresenterà un nuovo tipo di rapporto tra il mondo sviluppato e quello sottosviluppato, un rapporto basato sull’apertura, sulla speranza, sulla pluri-nazionalità.
Kapuscinski ci lascia con l’auspicio di un mondo trasformato dove i rapporti saranno improntati più alla collaborazione e costruttività, che allo sfruttamento e alla distruzione.
Giuseppe Angelini
Kyszard Kapuscinski
Nel turbine della storia. Riflessioni sul XXI secolo
Feltrinelli, Milano 2015, pp. 191 (Prima edizione 2009)
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