Se c'è una cosa che si può certamente affermare su John Steinbeck, tra
gli autori più prolifici della cosiddetta lost generation americana, è
che non sia mai stato un narratore scontato. Lo si può intuire soltanto
pensando ad una delle sue ultime opere, Le gesta di Re Artù e dei suoi
nobili cavalieri, uscita postuma nel 1976, così diversa per contenuti e
stile dallo Steinbeck lucido, ottimista ed ermetico che tutti conoscevano.
Ebbene, anche questa raccolta di lettere che il letterato americano
raccolse per il quotidiano "Newsday" come inviato sul campo durante il lungo
conflitto vietnamita, dal dicembre 1966 al maggio 1967, presentano un aspetto
tutt'altro che banale.
L'impressione però è che questa volta lo stesso autore / narratore
fosse particolarmente confuso riguardo alla guerra in Vietnam, un conflitto
unico nella storia per geografia e andamento, come lo stesso Steinbeck non
mancò di notare a pochi giorni dal suo sbarco nel Sud Est asiatico.
Se infatti nei primi dispacci, e per gran parte dell'intera opera, lo
scrittore, pur nella sua analisi estremamente lucida, fa tutto il possibile per
supportare e giustificare l'intervento militare statunitense (a differenza
della quasi totalità della letteratura a lui contemporanea e/o futura), nelle
ultime lettere, ed in particolare dopo il ritorno in patria, Steinbeck sembra
nutrire profondi dubbi sulla bontà di un conflitto tanto lungo quanto
dispendioso.
D'altronde, come nota l'autore, a differenza del secondo conflitto
mondiale (di cui Steinbeck fu giornalista inviato in Europa), la guerra del
Vietnam è una guerra senza confini ed eserciti precisi, "una guerra di
sensi, senza fronti e senza retrovie", dove il discrimine tra libertà e
occupazione, tra omicidio e missione militare, è davvero più labile che ma.
In un racconto tanto indecifrabile sia per lo stesso narratore che per
i lettori, pochi aspetti mantengono una propria persistenza e continuità: la
critica spietata di Steinbeck per i metodi e per le subdole strategie attuati
dai Vietcong alle spese della popolazione rurale del Sud (con buona pace delle
tante critiche che spesso hanno bollato Steinbeck come un "simpatizzante
dei rossi"), tuttavia non fomentate da una pura contrapposizione
ideologica (vedasi la brillante critica alla diplomazia americana
nell'insistere a definire Taiwan "la vera Cina" pur di non riconoscere
Mao), ma al limite velate da quel patriottismo quasi connaturato che nasce sul
campo di battaglia (a tale proposito, vedasi la spietata denuncia all'uso da
parte dei comunisti di bambini nelle missioni di guerra, salvo poi proporre
subito dopo allo stesso Vietnam di fare lo stesso a parti invertite).
Un'altra costante del racconto è la curiosità mostrata da Steinbeck in
ogni pagina di questa nuova avventura ("Non guarirò mai da questa
curiosità esagitata. Mi sento ancora come quando da bambino andavo da Salinas a
San Francisco, addirittura a cento miglia di distanza!"), una
curiosità ancor più ammirabile se consideriamo che quando Steinbeck scrisse le
lettere aveva sulle spalle già 64 anni di vita, di cui sei mesi in Europa
durante la Seconda Guerra Mondiale, decine di romanzi pluri-premiati, e perfino
un Nobel per la letteratura.
L'atteggiamento mostrato dall'autore, che tanto gradevolmente traspare
dalla sue parole, è a mio parere un vero e proprio manifesto del giornalismo.
Una cronaca lucida, sincera, ma allo stesso tempo appassionata, che non manca
di aneddoti personali e talvolta ridicoli, alternati a riflessioni geopolitiche
assolutamente non scontate.
A tratti lo Steineck giornalista di guerra appare tale e quale a
quello conosciuto nel 1943, incanalato tra il New Deal rooseveltiano e il
nazionalismo, esaltato dalla descrizione delle armi e dei mezzi militari,
critico verso il pacifismo ipocrita e fine a se stesso, abile nel definire in
modo spietato e incorruttibile il "nemico".
In altri tratti invece prevale lo Steinbeck romanziere, quello
difensore dei contadini vietnamiti e thailandesi (così simili per certi versi
agli okies, protagonisti di Furore), e capace di regalare al
pubblico del Newsday personaggi che sembrano davvero resuscitati dalle pagine
di un romanzo, come il Venerabile Giac, il maestro di judo pacifista che
insegna la quiete interiore ai bambini di Saigon, o il generale di polizia
thailandese che non riesce a capire come Playboy sia diventato "la
bibbia dei giovani americani".
In particolare nelle ultime lettere, dedicate alla sua permanenza in
Laos ed in Giappone prima del rimpatrio, l'autore riesce davvero a fondere
questi due mestieri, il giornalista ed il romanziere, in un connubio di
entusiasmo, capacità comprensiva, esperienza e persino romanticismo, che per un
poco fanno vedere anche gli aspetti più umani di un conflitto definito disumano
da tutta la critica del tempo, da Bob Dylan a Norman Mailer, passando per John
Lennon e Noam Chomsky.
A prescindere dall'aspetto contenutistico, l'opera, uscita postuma
(Steinbeck morirà nel 1968, appena un anno dopo l'esperienza vietnamita), può
essere vista come un lascito testuale del romanziere. La storia ci ha
consegnato tanti John Steinbeck: lo Steinbeck sognatore californiano, lo Steinbeck
socialista dopo la crisi di Wall Street, lo Steinbeck pacifista, lo Steinbeck
ospite di Roosevelt alla Casa Bianca, inviato di guerra, nazionalista,
comunista e anti-comunista. In fin dei conti John Steinbeck ebbe la grande
capacità di vedere e interpretare la realtà dei suoi tempi, una realtà mai
univoca e che quindi mai può essere letta in bianco e nero.
Proprio per questo motivo mi piacerebbe chiudere questa scheda di
lettura con la piccola digressione che l'autore si concede nella lettera del 3
febbraio 1967, dove scrive la sua interpretazione sull'effettivo valore della
guerra:
"Per me tutte le guerre sono cattive. Non esistono buone guerre e non
credo che esista un soldato pronto a darmi torto. Però non riesco a capire
quelli che credono di essere innocenti solo perché distolgono lo sguardo e
girano le spalle: quelli che distolgono lo sguardo hanno forse scoperto che una
guerra è buona e una è cattiva? Masterson, il soldato semplice di marina che
guada le paludi pullulanti di sanguisughe, la famiglia di contadini delle
risaie che si rintana terrorizzata nella sua capanna minata all'estremità di un
sentiero pieno di trappole esplosive, io che ho visto questa guerra da vicino:
tutti saremmo d'accordo nel dire che è tutto cattivo. Ma tutto il male va eliminato
in una volta sola, altrimenti continuerà ad esistere come è sempre esistito".
Francesco Massardo
John Steinbeck
Vietnam in guerra: dispacci dal fronte
a cura di T.E. Barden
Libreria editrice goriziana, Gorizia, 2017.
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