Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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29 agosto 2008

Fotogiornalismo

A Perpignan (Francia) dal 30 agosto al 14 settembre 2008 si svolgerà il Festival internazionale di fotogiornalismo "Visa pour l'Image" .
Per altre informazioni consultare il sito dedicato all'evento
http://www.visapourlimage.com/index.do

Il sito di Affariitaliani.it presenta una Galleria di fotografie esposte al Festival di Perpignan.


*segnalato da C.P.

28 agosto 2008

5° edizione del Festival europeo della creatività


29 - 31 Agosto 2008

*Link al sito del festival e al Programma dei numerosi eventi previsti.

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*segnalato da A.R.

L'era della cronaca

Antonio Scurati
Un uomo senza storia
Col nuovo secolo siamo entrati nell’era della cronaca conosciamo soltanto la dimensione del momento
“La Stampa”, 26 agosto 2008

Non cercate un collegamento tra quest’articolo e un fatto di cronaca: non lo ha. Non lo ha per coerenza con la sua tesi di fondo. Il suo tema è, infatti, quella sensazione di vivere in un Paese sfinito che si è impossessata di molti italiani (soprattutto a sinistra) e la sua tesi è la seguente: quando l’orizzonte della storia si riduce a quello della cronaca, allora la vita pubblica si riduce a una patologia inguaribile di lungo decorso. Questa la sindrome da sfinimento civile che ci affligge: alla cronacalizzazione della pubblica opinione corrisponde la cronicizzazione della vita sociale.
Di recente Veltroni ha lamentato la «frenetica bulimia del presente» che cancellerebbe il passato e con esso lo spirito pubblico. Rimpiangendo la «grande storia», ha denunciato la perdita di memoria storica come «grande epidemia del nostro tempo». Ma lo ha fatto con un articolo di giornale impaginato nella cronaca politica. Come dire: roba che dura un giorno (massimo una settimana). La sua eco muore in questo istante, fucilata al muro di un tempo senza tempo (nel senso che ne ha poco, non che ne è fuori). Le sue parole, al pari delle mie (o di quelle di chiunque altro si aggiri da queste parti), rimarranno senza storia. Non sono prognosi, e nemmeno diagnosi. Sono parte del problema, non la sua soluzione.
Il problema è che la cronaca non passa alla storia. Cronaca e storia non sono lo stesso fatto osservato con due ottiche diverse, in campo lungo o in campo corto. Storia e cronaca sono, invece, due diverse direttrici del tempo. La sensazione è che al giro del secolo scorso si sia entrati in una nuova era: l’era della cronaca. Quest’era non coincide con una nuova partizione del tempo ma con una sua nuova forma, non con una diversa porzione di storia ma con un nuovo modo di battere il tempo, diverso dal tempo della storia. Chiunque non segua questo nuovo ritmo, si sentirà un uomo sfinito. Dopo l’11 settembre si è rigettata la profezia della «fine della storia»: gli eventi luttuosi della guerra al terrorismo avevano rimesso in moto quella storia che si credeva finita. Ma forse non erano i contenuti fatidici, gli accadimenti epocali a mancare, forse erano le forme del nostro racconto a mutare. Il modo in cui raccontiamo la realtà sociale tende, infatti, a modificarla: da sempre gli uomini agiscono in forme consone al modo in cui immaginano che la loro storia verrà poi narrata. Gli eroi entrano nella leggenda molto prima di compiere le gesta che li eterneranno. Vivono in vista del memorabile fin dalla nascita. Il tempo del mito è il loro amnio. Ma anche il tempo della storia portava sempre con sé un’aspirazione al compimento, a superare il momento presente verso una fine che ne fosse anche il fine, verso il momento conclusivo e riepilogativo nel quale il protagonista del romanzo, voltandosi indietro, potesse dire: «Dunque è andata così, proprio così. Ecco la mia vita, la mia storia. La storia di tutti».
Una fine che completasse, un fine che compisse, questo è stato il segreto tormento, l’aspirazione violenta, la paura e il desiderio degli uomini al tempo della storia. Con il tempo della cronaca, però, le cose vanno diversamente. La cronaca non conosce compimento, non ne sente la mancanza, la cronaca insiste nel momento. Non ha problemi di consecutio temporum la cronaca. L’unico modo che conosce per umanizzare il tempo facendolo entrare in un racconto è di declinarlo a presente. Quel presente che è nuovissimo con l’ultimo delitto fresco di stampa sul giornale del mattino e già vecchissimo all’ora del crepuscolo mediatico con i programmi delle undici di sera. Per questo la cronaca, gira e rigira, è sempre cronaca nera: un delitto al giorno e ogni giorno un delitto. Cronaca nera o cronaca rosa. Orrore senza fine o banalità ininterrotta. Questa l’alternativa secca.
La cronaca, nera o rosa che sia, non fa romanzo, sebbene il romanzo sempre più si faccia con la materia della cronaca. Mentre la storia colloca ogni singolo accadimento, per quanto apparentemente insignificante, dentro il quadro di un processo più ampio che lo accoglie, lo spiega e lo giustifica, la cronaca lo abbandona a se stesso proibendo che la sua insulsa particolarità venga riscattata da un racconto più grande e, magari, anche da un futuro migliore. I rapporti tra la cronaca e quella forma riparatrice della narrazione umana che è il romanzo sono gli stessi che si potrebbero stabilire tra lo sciocco e l’uomo di genio: il secondo può comprendere il primo ma non vale l’inverso. Proprio per questo, però, il tempo della cronaca prevale su quello della storia. È più elementare, più diretto, più disperato. In una parola, più forte. Mentre il romanziere, il prete, lo statista si affannano a raccattare i frantumi della cronaca per incollarli in un mosaico d’impossibile redenzione, questa non si dà pensiero di essi. Non attende nessuna rivelazione in fondo alla calla nera della ferocia - o al pisciatoio della futilità - l’uomo della cronaca, non alza lo sguardo all’orizzonte. Non gli importa del mondo che verrà. E non si attende nessuna maturità dei tempi.
Il paesaggio che, al tempo della cronaca, si apre dinnanzi all’uomo vissuto nella storia e per la storia è un paesaggio di rovine. Di rovine e di abusi edilizi (che sono poi le rovine del presente). Pensiamo a uno di quei tanti meravigliosi paesaggi storici di cui era fatta l’Italia, quei paesaggi viventi, scolpiti nei secoli dal lavoro dell’uomo. Prima li abbiamo sottoposti a rigidi vincoli conservativi, dichiarati patrimonio dell’umanità e poi abbandonati alla quotidiana erosione dall’assenza di un piano regolatore, di un progetto di sviluppo, di un’idea di futuro e di mondo. Ecco allora che, giorno dopo giorno, scandito dal tempo della cronaca, si svolge il lavoro della decomposizione: qualcuno dipinge di rosso acrilico la sua casetta accanto all’antico campanile, qualcun altro estirpa la vite per piantare una chicas, i più audaci impiegano i teli neri che in inverno proteggevano i limoneti per occultare un bilocale costruito nottetempo. Di questo passo, presto o tardi, tutti ci risvegliamo in una qualunque periferia fatta di squallide scatolette di cemento.
Oppure, non se ne esce. Al tempo della cronaca l’opinione pubblica c’è ma vive di emergenze: il suo è, dunque, un parere del tutto incidentale. In questo tempo d’epocale sconfitta la sinistra dovrebbe intraprendere una «lunga marcia», ma le lunghe marce hanno di necessità il passo della storia. E nessuno riesce più a sostenerlo. In questi tempi di silenziosa erosione non si ode nemmeno più il «lamento della scavatrice» che afflisse l’orecchio di Pasolini nell’Italia del boom economico e della prima, massiccia speculazione edilizia. Non sono più tempi questi di lamentazioni tragiche. La cronaca le ha sostituite con il ronzio di un termitaio in espansione. Un rumore sordo di basso continuo. Questa la colonna sonora delle vite di quelli che, come noi, vivono abusivi nel presente.
*estratto dal sito del quotidiano "La Stampa" di Torino.
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22 agosto 2008

Il blog di George Orwell

Un'iniziativa dell'Orwell Prize porta online i diari e le lettere dell'autore di 1984
"Corriere della sera", 4 agosto 2008


L'universo blog guadagna un nuovo protagonista d'eccezione: George Orwell. A cominciare dal 9 agosto, i diari dello scrittore inglese saranno riversati in rete, all'interno di un blog, appunto.
DIARIO E BLOG – Si tratta di un'iniziativa dell'Orwell Prize – il premio letterario per la scrittura politica dedicato all'autore britannico – che ha scelto proprio la forma del diario elettronico per ridare voce a Orwell a più di 50 anni dalla sua scomparsa. La data di apertura del blog non è casuale. L'autore di «Animal Farm»(La fattoria degli animali) iniziò infatti a tenere il suo diario (cartaceo, ovviamente) il 9 agosto del 1938, e da allora non smise mai di appuntare impressioni e pensieri, nemmeno durante il ricovero presso il sanatorio del Gloucestershire in cui trascorse otto mesi del 1949, un anno prima di morire.
POSTUMO – E così, a partire da sabato prossimo, il blog postumo di Orwell si arricchirà via via di contenuti: ogni giorno, fino al 2012, sarà pubblicato un nuovo messaggio: gli internauti potranno così leggere i suoi scritti sulla seconda guerra mondiale, quelli sul viaggio in Marocco e sulle sue disavventure in Catalogna, durante la guerra di Spagna. E ancora: riflessioni politiche sul comunismo, sul fascismo, sulla disoccupazione e – in generale – sulla situazione politico-sociale degli anni '30. Queste pagine non sono sconosciute (pubblicate una prima volta nel 1998 all'interno del volume di Peter Davison «Orwell: The Complete Works» e successivamente nel 2000), ma ora grazie alla rete saranno finalmente a disposizione del vasto pubblico integralmente, consultabili da chiunque e ovunque nel mondo. E intanto c'è già chi si domanda se un blog postumo possa davvero essere considerato un blog.
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* George Orwell (1903-1950) è stato un importante scrittore, autore di romanzi considerati profetici (es. 1984 in cui delineava con lucidità la società dominata dal "Grande Fratello") ma è stato anche uno straordinario corrispondente di guerra. (cfr. Omaggio alla Catalogna, Milano, 1948).
Sito dell'Orwell Prize
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14 agosto 2008

Genova e il Sessantotto

1968-2008. A quarant’anni di distanza non sono mancate le pubblicazioni che si sono occupate di ricostruire il percorso e i valori delle lotte sociali di quegli anni; in ambito strettamente cittadino, l’editore Frilli ha pubblicato un saggio scritto a quattro mani da Luca Borzani, storico e già assessore alla cultura del Comune di Genova e da Donatella Alfonso, giornalista del Lavoro-Repubblica dal titolo esemplificativo: Genova, il ’68. Una città negli anni della contestazione.
Il libro è costruito secondo sezioni ben definite che si occupano di approfondire i differenti ambiti sociali (la scuola e l’università, l’industria e il porto, il panorama culturale, il contesto politico, il mondo cattolico, i gruppi di destra…) in cui anche a Genova si registrò una stagione di estrema conflittualità sociale ma di altrettanto viva discussione politica. Tuttavia la volontà non è quella di fotografare solamente una città in un preciso momento della sua storia sociale, quanto piuttosto di coglierne i sommovimenti, le tensioni interne al mondo principalmente operaio e studentesco laddove si aprivano inaspettatamente gli spazi per una critica complessiva alla società capitalista. Da qui la scelta di dare spazio alle testimonianze dirette di “quelli che c’erano” (purtroppo non alle fotografie) ma soprattutto ai documenti interni e ai fogli che scandivano queste nuove forme di partecipazione. Dal racconto dei protagonisti emerge una città ambivalente e un’eredità di quegli anni ad oggi più distante, non sorpassata ma certamente più offuscata - per il peso e il clamore delle vicende - dalla cappa pesante di violenze degli anni Settanta e dall’esperienza eversiva. Come viene specificato nella premessa, “l’immagine di Genova ‘capitale delle Brigate Rosse’ si è dilatata azzerando non solo la complessità degli anni Settanta ma, appunto, anche il Sessantotto, a cui viene assegnato il ruolo di incubazione, di spazio politico e sociale destinato, senza soluzione di continuità a confluire nella stagione della lotta armata”.
La lettura è comunque ricca di spunti e va consigliata perché si muove su più livelli: attraverso i documenti penetra nel vivo delle difficoltà delle diverse forze tradizionali della sinistra - PCI, FGCI, CGIL - di comprendere e fare proprie le istanze che provenivano dal movimento giovanile (egualitarismo, antiautoritarismo, rifiuto dei modelli capitalisti di segmentazione della società, assemblearismo) superandosi come soggetti burocratici delegati; ricostruisce gli sforzi per creare realtà di base fra operai e studenti, analizza il ruolo e la composizione della classe operaia genovese di quegli anni, del mondo portuale e del suo peso specifico nelle mobilitazioni di piazza.
Ma cita anche nomi, episodi (gli sgomberi, le occupazioni, i fatti drammatici, come l’incendio all’Istituto di Storia dell’arte mentre la facoltà di Balbi è occupata) che videro protagonisti giovani universitari le cui prima rivendicazioni “sindacali” per le condizioni fisiche e umane in cui versava quell’università che stava diventando di massa, si erano trasformate in una più ampia scelta di critica ai modelli sociali vigenti.
Ne emerge una città sfaccettata, multiforme, certamente viva pur in un momento di criticità per l’inizio del processo di deindustrializzazione e per le scelte politiche che ne segnarono la definitiva crisi negli anni successivi.
A marcare poi questa vivacità, in ambito prettamente giornalistico, è la quantità di fogli, organi di partito, riviste di gruppo, dalla vita spesso breve che costellano quegli anni, anche a Genova; ma la tendenza a invadere lo spazio pubblico attraverso il giornale come strumento principale di propaganda da parte dei gruppi studenteschi e dalle diverse organizzazioni di lotta, coinvolge anche altri ambiti, a cui s’estende questa voglia di partecipazione attiva. Una curiosità su tutte, che sarebbe interessante (ri)scoprire: un nuovo associazionismo, una nuova cultura dell’assistenza, nasce in quegli anni in cui, fra le altre cose, si ridiscute sul ruolo dei manicomi e si aprono le prime comunità per disabili. A Genova, per volontà di Rosanna Benzi, ragazza simbolo di questa nuova lotta degli ultimi, chiusa in un polmone d’acciaio all’Ospedale San Martino, nasce la rivista “Gli altri”, vero e proprio organo di informazione destinato a dare voce agli emarginati, a quelli che il nuovo vivere urbano dimentica e mette da parte: disabili, invalidi, anziani, malati…

07 agosto 2008

Reportage da Genova

Alessandra Fava
"Manifesto", 6 agosto 2008

La comunità musulmana vuole un centro di culto nel centro storico della città, la destra, da An a Forza Nuova, si scatena e chiede il referendum. E il sindaco Marta Vincenzi (Pd) propone: ok ma senza il minareto. Ma gli islamici non ci stanno

GENOVA - Caricare tutti quelli che dicono no alla moschea su un pullman direzione Casablanca o una nave per Tunisi «per capire di che cosa stiamo parlando»: l'idea è di Silvio, dipendente pubblico, uno dei genovesi fermati a caso nei vicoli, tra la Commenda dove il sindaco vorrebbe far incontrare musulmani, cristiani ed ebrei, la Darsena dove nel Medioevo c'era una moschea e piazza Banchi, insomma l'area del centro storico che, secondo gli ultimi boatos, potrebbe ospitare un luogo di culto ufficiale per gli islamici. Della moschea si parla senza costrutto da dieci anni, ma è tornata sulle pagine dei giornali con la firma di un patto tra il sindaco di centrosinistra Marta Vincenzi e l'Associazione islamica d'integrazione culturale in cui questi ultimi prendono le distanze dall'Ucoii, promettono di non fare sermoni ad alto contenuto terrorista e di promuovere il dialogo con la città.La questione è annosa: la comunità ha acquistato nel 2002 un'industria in disuso a Cornigliano e ha proposto un progetto approvato dalla commissione edilizia privata comunale e poi «bocciato« da quattro preti e decine di persone del Ponente post-siderurgico, mobilitate prima dalla Lega e poi da Forza Nuova. Cercando una via d'uscita, la comunità islamica ha cercato di fare una permuta per un immobile a Campi e poi ha persino trovato un accordo con un convento di francescani, sempre in Valpolcevera, ma tutto senza successo. Silvio pensa che «qui il problema è il razzismo, altro che questioni urbanistiche»; che «se si andasse a vedere il rispetto dei parametri sulla sicurezza chiuderemmo quasi tutte le chiese del centro storico» e che quanto a delinquenti non siamo secondi a nessuno «visto che in chiesa a pregare ci andavano anche Riina e Provenzano e alla fine con i musulmani non sono le differenze ma le similitudini che ci dividono, per esempio viviamo tutti e due uno stato teocratico». Di una cosa è convinto: «Se fanno il referendum lo vinceranno. C'è un clima d'intolleranza». Obiettivo il referendumIl referendum è la nuova croce del sindaco. Non bastavano i banchetti della Lega, un rosario notturno di Forza nuova con prete lefevriano seguito da incontro in locali connessi a una chiesa cattolica del centro, ed ecco che alcuni consiglieri regionali, Gianni Plinio (An) in testa, raccolgono 1600 firme per chiedere una consultazione cittadina, mentre la Lega promette mobilitazioni in autunno, come assicura il segretario provinciale Edoardo Rixi (il cui padre è nato nel quartiere di Galata a Istanbul). E così, mentre il sindaco avanza dubbi di incostituzionalità sul referendum «moschea sì, moschea no», la questione trova sponda nel governo col ministro per le politiche comunitarie Andrea Ronchi, prima portavoce di An, che osserva: «Il messaggio della cittadinanza è chiarissimo: i genovesi vogliono pronunciarsi in prima persona sulla possibile costruzione di una moschea nella loro città. Lo dimostrano quelle 1600 firme raccolte venerdì scorso in sole due ore dai consiglieri regionali del Pdl». Che con la consultazione cittadina possa finire male ne è convinto anche Arcadio Nacini, consigliere comunale del Ponente di Rifondazione, seduto sotto la fontana a piazza De Ferrari: «Il referendum lo perdiamo. Altro che moschea, qui sta venendo fuori una città di destra». Le voci della stradaContinuando il sondaggio a caso nei vicoli pare di vivere altrove: «Mi sembra strano che la gente faccia tanto rumore - commenta Flavia, educatrice e buddista - noi abbiamo i nostri luoghi di preghiera e come essere umano m'irriterebbe se qualcuno limitasse la mia libertà di culto». A Fossatello passa un ambulante marocchino che vive a Genova dal '77: «Vengo dal centro storico di Casablanca dove ho sempre vissuto con cristiani ed ebrei». Nella sua agenda c'è anche Braham, numero di telefono e stella di Davide. Due carpentieri in ferro, Corrado ed Emiliano in via San Luca, pensano che «se non danno fastidio e lavorano c'è libertà di religione, basta che non diventi Al Qaeda, insomma bisogna entrare in contatto senza picchiarsi, la globalizzazione è anche questo». Anche Marina Pupo, pensionata, scesa a vivere nel centro storico dalla circonvallazione a monte, della moschea pensa «tutto il bene possibile. Dovrebbe essere normale. E' più facile cavalcare la paura della gente che creare una cultura in cui il diverso non venga vissuto come un pericolo. Sarebbe un gran bene dare alla comunità degli spazi del centro storico come la loggia dei Banchi o i silos inutilizzati dietro al museo Galata». A parte Paul, ecuadoriano a Genova da sei anni, cameriere, cattolico non praticante, che dice «la moschea non va costruita» e un ateo comunista che raderebbe al suolo tutte le chiese, le sinagoghe e le moschee e per il quale «si svia l'attenzione dal fatto che mancano programmi sociali per gli uni e gli altri», persino un avvocato che vota centrodestra dice di «non essere contrario. Se vivono qui hanno diritto a professare la loro fede, anche nel centro storico». Alla domanda su come mai nessuno dica apertamente no alla moschea come succede in consiglio comunale, l'avvocato argomenta che il politically correct impera. Passando però a un sondaggio promosso dal sito del Secolo XIX si scopre che 1669 cittadini hanno votato contro la moschea perché è meglio investire risorse in altre questioni (45,7 per cento), «non so se in Medio Oriente siano così aperti ai cristiani» (37,6 per cento) e poi c'è il rischio di cattive frequentazioni (16,6). I sì sono 712 e il 78 per cento pensa che il primo motivo sia il diritto al culto. Il sito precisa che non c'è nessun intento statistico. Eppure... Islamici pronti al dialogo «In questi anni avrei potuto raccogliere migliaia di firme o scendere in piazza con centinaia di persone, ma ho sempre scelto, abbiamo scelto, il dialogo e mai lo scontro, anche se questo mi è costato discussioni anche all'interno della mia comunità e accuse di eccessiva cautela». Finita la preghiera pomeridiana dell'Asr, Salah Hussein trova un po' di tempo per parlare al piano superiore di un'ex officina nel cuore di Sampierdarena, nei locali sottotetto dove pregano donne e bambine mentre gli uomini si raccolgono al piano terra. Presidente dell'Associazione di integrazione culturale nata cinque anni fa e portavoce storico della comunità islamica a partire dal primo luogo di preghiera nel '78, in via Venezia a monte dei moli dei traghetti, Hussein, palestinese di Nablus, a Genova da 27 anni, ingegnere, mediatore culturale e non sempre imam («lo facciamo a turno e siamo eletti dal consiglio della comunità»), non ha mai smesso di credere che prima o poi la sua gente avrà una moschea come si deve, un punto di riferimento per 9 mila immigrati di fede musulmana e un luogo di culto degno per le grandi feste che ora si è costretti a celebrare nel parco dell'Acquasola o nella Sala Chiamata del porto. Sul tavolo le bollette della luce, un computer, la masbaha appesa al muro, alla finestra una macchia di verde tra la ferrovia e il monte. «Va bene il centro storico, va bene la Darsena, va bene qualsiasi luogo accessibile anche in auto e dove non diamo fastidio ai vicini, come dice anche Maometto - spiega Hussein - ma se non si arriva a uno sbocco noi torniamo a Coronata». Coronata sarebbe lo stabile industriale a Cornigliano, «acquistato con i soldi di una comunità povera che non ha dietro nessun paese ricco». Per combattere pregiudizi e stereotipi negli ultimi mesi la Comunità ha incontrato il cardinale e presidente della Cei Angelo Bagnasco, il sindaco Marta Vincenzi, il rabbino, un sikh, decine di associazioni, per spiegare che via Sasso e gli altri quattro luoghi di preghiera sono aperti al dialogo interconfessionale, alle scuole, che nessuno vuole convertire nessuno, che esistono in città cinque luoghi di preghiera in perfetta convivenza con i quartieri. Ripetono a destra e manca che ci sono chiese in Marocco, Tunisia e che ne hanno aperta una anche in Qatar, che si sentono musulmani genovesi più che marocchini, tunisini o giordani e che non c'è alcun saudita. Tant'è, statisticamente «ogni volta che si tira fuori la moschea Plinio raccoglie firme contro di noi - riflette il portavoce - E' successo nel '97 quando il petroliere Garrone disse che gli sarebbe piaciuta una moschea nel centro storico. Così quando due studenti di architettura nel '99 fecero una tesi ipotizzando una moschea a piazza Sopranis e poi Coronata, Campi, Perrone e ora con la storia del referendum, un precedente che sarebbe gravissimo». Insomma, «alcuni esponenti politici ne fanno una questione ideologica e mi dispiace. Fomentano una paura che non si controlla perché è una questione di pancia». Così la discussione si protrae. Il sindaco nei giorni scorsi ha proposto di fare della Commenda di Prè un luogo d'incontro per le tre religioni monoteiste, nonostante da lì partissero i crociati. Hussein sorride: «Vuol dire che i tempi sono cambiati. Prima si partiva per la guerra, ora ci s'incontra nella pace». Ma i Cavalieri di Malta, proprietari dell'immobile, hanno replicato che avevano altri progetti e dell'idea del sindaco non ne sapevano niente. La questione minareto Passando alla Darsena, alla Facoltà di economia e commercio dietro il Museo del mare, Lorenzo Caselli, presidente della Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo, docente di Etica economica e responsabilità sociale delle imprese e sostenitore della prima ora del centro studi sull'immigrazione Medì, sostiene che «la Commenda è un modo per inserire una pausa di riflessione. Lasciamo passare agosto e a settembre vedremo. Certo il referendum è incostituzionale e se il discorso è che nei paesi arabi non ci sono chiese cattoliche, allora bisogna riflettere che nelle relazioni internazionali in un mondo globale la generosità è un investimento. Bisogna ripartire dai sogni, dalle aspettative di centinaia di bambini che sono nati in Italia pur avendo genitori stranieri, insomma costruire una buona società in cui vivere, come dice Amartya Sen». Certo dopo aver fatto i conti anche con la questione minareto. Il sindaco vorrebbe una moschea che ne fosse priva. Caselli suggerisce «misura, costruiamo intanto un luogo di culto». Don Andrea Gallo insorge: «Tutte le chiese hanno un campanile». Hussein allarga le braccia: «Il progetto di Coronata approvato dalla commissione edilizia del Comune ha un minareto non agibile. Per noi è un simbolo. In cima c'è la mezzaluna, ma niente muezzin», assicura. Anche nel Corano Giobbe è il paziente per eccellenza.

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