Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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29 marzo 2010

Femminismo e sindacato

Giovanna Cereseto - Anna Frisone - Laura Varlese
Non é un gioco da ragazze. Femminismo e sindacato: i Coordinamenti donne FLM

Presentazione di Anna Giacobbe
Prefazione di: Anna Rossi-Doria
Roma, Ediesse, 2009,  420 pp.
Cosa è stato il femminismo sindacale in Italia? Come è nato? Quali erano i temi che premevano in una società in trasformazione? Ma soprattutto: come lo hanno vissuto e interpretato le protagoniste dell’epoca? Il volume, che attinge a fonti documentarie e orali, offre un approfondimento di quell’importante momento storico e civile, per riproporre alla riflessione e alla discussione dell’oggi una stagione che ha dato un apporto decisivo all’evoluzione di una grande «organizzazione di donne e di uomini», la CGIL.
Come ben sintetizza Anna Rossi-Doria, «...i Coordinamenti donne della FLM conducono una lotta per un obiettivo così arduo da rivelarsi alla fine irraggiungibile: affermare autonomamente i bisogni delle donne, trasformandoli in diritti, dentro al sindacato e allo stesso tempo trasformare quest’ultimo sulla base della nuova idea della politica che dalle assemblee e dai gruppi di sole donne era nata. Anche se si dimostrerà impossibile, quella sfida, come questi lavori dimostrano, consentirà, proprio per la sua altezza e carica utopica, lo sviluppo di idee ed esperienze ricche di insegnamenti per il futuro».
Il libro, che raccoglie le tesi di laurea di tre giovani autrici, costituisce un significativo contributo offerto alla conoscenza della storia sindacale e della memoria del paese. [leggi tutto sul sito dell'editore].
Il libro sarà presentato a Genova  nell'ambito della Rassegna "Ragazze di fabbrica. Voci e volti di donne, un secolo di lavoro femminile nel ponente genovese", con la partecipazione delle autrici e di Monica Lanfranco.
Palazzo Ducale - Sottoporticato, 31 marzo 2010, h. 17.30.
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24 marzo 2010

In libreria

Maurizio Maggiani
Meccanica celeste
Milano, Feltrinelli, 2010, 320 pp.
Presentazione


"Da una casa accanto a un noce all’apice di una vallata tanto più fantastica quanto più vera, una voce riempie il tempo dell’attesa di un figlio per cantare le storie di un popolo libero, di uomini e di donne che perseverano nelle generazioni a vivere con fermezza e a difendere con ferocia, amore e dignità." Maurizio Maggiani arriva in un luogo, l’anonimo ma vividamente familiare “distretto”, dove confluiscono, da lontananze geografiche e temporali spesso leggendarie, uomini e donne depositari di vite e gesta memorabili. Siamo in una comunità raccolta fra picchi e valichi di monti che s’aprono a ovest all’azzurrità del mare, e valli strette e segrete che nascondono, proteggono e conservano. Siamo in una comunità che è esistita e ancora prospera nella continuità epica degli uomini liberi. Uomini e donne che partono e tornano, che appaiono e dileguano o azzittiscono, portatori di doni, di “buone notizie”, consapevoli che quelle valli, quei picchi, quei boschi li fanno diversi, li educano e li contengono. Maggiani trova una strada nella memoria di eventi che dall’inizio del secolo arrivano alla Seconda guerra mondiale e da lì all’oggi senza che mai venga meno il sentore leggendario di quel suo “distretto”, il vessillo di grazia, rabbia e amore che il Narratore consegnerà a chi sta per nascere. Forse al di là del “distretto” nomi come la Duse, la Santarellina, l’Omo Nudo non sarebbero mai andati, ma come accade nelle contee immaginarie di Faulkner o negli oceani fantastici di Stevenson, la gloria del racconto redime e reinventa, e fa del passato uno dei futuri possibili.
Leggi altre notizie sull'autore e un estratto del suo nuovo romanzo sul sito dell'editore Feltrinelli.

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22 marzo 2010

Genova città polifonica delle culture

La città di Genova, per la sua storia e le sue caratteristiche peculiari, ben si presta a un discorso di confronto culturale. Molti sono gli eventi promossi, a vario titolo e da diverse associazioni, sulla diversità culturale. Merita una segnalazione particolare il progetto “Parole per la città” coordinato dalla Scuola di ricerca civile Don Antonio Balletto, dal Comune di Genova, dalla Fondazione per la cultura- Genova Palazzo Ducale e dal Centro Studi Antonio Balletto.
Per il 2009-2010 a Palazzo Ducale è stato organizzato un ciclo di incontri su Le religioni e la salvezza a cura di Gerardo Cunico, dell’Università di Genova con un calendario fitto di appuntamenti e relatori di tutto prestigio: Benedetto Carucci Viterbi, del Collegio Rabbinico di Roma (sull’Ebraismo); Giangiorgio Pasqualotto, dell’Università di Padova (sul Buddismo); Stefano Piano, dell’Università degli studi di Torino (sull’Induismo); Mauro Pesce dell’Università di Bologna (sul Cristianesimo); Angelo Scarabel, dell’Università Cà Foscari di Venezia (sull’Islam); Roberta De Monticelli, dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano (sulla Filosofia).
E’ l’epoca moderna e contemporanea che segnala la necessità di riconsiderare i rapporti tra indagine filosofica, scienza e fede al fine di superare le difficoltà che si presentano nel contesto della civiltà presente, soprattutto a proposito del dialogo tra diverse culture e appartenenze religiose.
Questo é l'oggetto degli incontri a Palazzo Ducale, tra l’altro a distanza di un anno dall’incontro del 23 gennaio 2009, sempre a Genova, con Carlos Thiebaut sul tema della tolleranza e dell’ospitalità.
Affrontando il tema dell’interculturalità il filosofo spagnolo ritiene che parlare di tolleranza ed ospitalità, oggi, sembra una mera dichiarazione di intenti che stride in questo presente che stiamo vivendo: non si tratta di immaginare un altro mondo, bensì di pensare questo mondo. Questa riflessione è difficile e dolorosa perché ci spinge a pensarci contro noi stessi. Egli cita Montaigne, i suoi studi sulla diversità dei costumi culturali ed il concetto dell’auto-estraniarsi: mettere in dubbio il nostro pensiero per poterci aprire all’altro e rimetterci in discussione. Secondo Thiebaut “che l’altro esista e che in lui ci si riconosca, introduce un seme di altrità in noi stessi. Di fronte all’altro che riusciamo ad accettare, a riconoscere, noi stessi diventiamo, in parte, altri rispetto a noi stessi”.
D’altra parte, citando Wittgenstein, egli ritiene che occorre valutare volta per volta le situazioni di conflitto tra culture e interpretare quando sono semplici differenze che possiamo ragionevolmente accettare, oppure quando queste risultano delle vere e proprie invasioni che bloccano il principio all’ospitalità. Infine Thiebaut si riferisce a Kant ed esprime la convinzione che il destino dell’Umanità sia quello di progredire verso la cittadinanza cosmopolita e un diritto pubblico dell’Umanità.
Una prospettiva d’analisi differente, ma ugualmente orientata a una visione di correlazione polifonica delle diversità, riguarda la citazione di Carlo Galli nel suo libro L’Umanità multiculturale (Il Mulino, Bologna 2006, pp. 30-31):
“La patria o cultura (a definire la quale noi oggi aggiungeremmo certamente la religione) è un universale concreto e determinato, così che l’interazione fra culture rende l’umanità universale un insieme di particolari (…) un’unità complessa in sé differenziata e articolata, appunto quel fiorire collettivo delle molteplici differenze consonanti alle quali Schiller poteva rivolgere l’invito ad abbracciarsi – “seid umschlungen, Millionen” -, che Beethoven rendeva protagoniste della sinfonia corale, che Hegel (nella Fenomenologia) valorizzava come indispensabili articolazioni dell’infinita ricchezza dello Spirito”.
Rossella Spinaci, nel suo articolo Un nuovo illuminismo? pubblicato in I filosofi e l’Europa Atti del XXXVI Congresso Nazionale di Filosofia della Società Filosofica Italiana a cura di R. Pozzo e M. Sgarbi (Mimesis, Milano-Udine 2009, pp. 317-328), affronta un altro aspetto del confronto interculturale: il dibattito tra J. Habermas e H. Putnam sulla relazione tra valori e norme e quello tra J. Habermas e J. Ratzinger sui presupposti pre-politici dello Stato liberale.
Nell’articolo emerge la posizione di Putnam secondo cui i valori hanno validità universale mentre per il filosofo tedesco tale universalità compete solo alle norme. Quest’ultimo sottolinea che la pretesa del filosofo americano, ad affermare l’oggettività dei valori, mette in pericolo il carattere universalistico dell’etica e la possibilità stessa di una concezione democratica pluralistica.
La verità non è un bene, del quale si possa prendere più o meno possesso, ma un concetto di validità, quindi non si deve cercare di ricondurre ad unità il dissenso che può esistere circa le diverse visioni del mondo: il vero pluralismo deve prevedere la possibilità di un dissenso ragionevole. Infine la riposta alle domande etico-esistenziali (chi sono io, cosa ritengo essere bene e giusto, ecc.) è sempre legata a particolari condizioni culturali e storiche senza poter avanzare, al loro riguardo, nessuna pretesa di validità universale.
In proposito anche Thiebaut, citando Wittgenstein e la metafora della pala, aveva affermato che ciò che accettiamo o rifiutiamo, la stessa categoria di danno, è provvisorio e circostanziato:
“Non si può dire nulla di più a livello teorico, sebbene si possa e si debba dire sempre molto di più per ogni caso concreto – che dobbiamo evitare la presunzione di porre un limite assoluto e fisso a ciò che si può tollerare; ci ricorda solo che non ci sono limiti assoluti ai nostri auto-straniamenti, bensì contingenti, che dipendono dalle nostre ragioni, dalle nostre pratiche”.
La metafora della pala che, scavando nella terra sempre più in profondità, a un certo punto arriva alla roccia e non riesce ad andare oltre, è propedeutica alla domanda: qual è quel punto che segna il limite al nucleo duro della nostra identità, delle nostre certezze e della necessità di ciò che è chiaro e distinto? La risposta è che non è possibile andare oltre a ciò che siamo ed a ciò che facciamo. In altre parole il nostro tessuto sociale: la nostra identità è costituita, secondo il filosofo spagnolo, dalle nostre pratiche sociali. In quanto tale la tolleranza è un prodotto sociale e una contingenza storica.
Habermas, durante il dibattito interculturale Dialogues on Civilization, organizzato da "Reset" nel giugno 2008 presso l’Università Bilgi di Instanbul, si interroga sull’assetto ideale di una società aperta. Rita Baldi, nell’articolo Laicismo e fede: nella tolleranza la ricetta per convivere ("Gazzetta di Parma", 8.11.2008), riprende i temi trattati dal filosofo tedesco: il rapporto tra cultura e religione nella sfera pubblica come problema politico urgente per le nostre società sempre più ideologicamente plurali. La sfida è rintracciare quelle condizioni che permettano alle nostre società di diventare inclusorie equilibrando due diverse esigenze: l’eguaglianza politica e la differenza culturale. E la strada maestra è senza dubbio segnata dalla tolleranza che non è e non può essere solo questione di produzione e applicazione di leggi ma soprattutto una pratica quotidiana.
Su questo tema Carlo Galli ritiene che la cultura debba essere sinonimo di spazio comune, di uno spazio politico non universale né uniforme. Thiebaut, partendo dalla considerazione che la tolleranza debba concretizzarsi in un insieme di diritti e doveri condivisi che ha al centro la libertà di coscienza, riflette sul suo carattere di categoria storica specifica e di insegnamento: percorso ideale a cui tendere in un processo di continuo perfezionamento. In questo senso i dibattiti pubblici e i contrasti culturali dipendono dal grado di consapevolezza socialmente diffuso e dalla pratica quotidiana individuale.
Habermas parla della società post-secolare come di una società in cui avviene una sorta di trasformazione della coscienza pubblica perché “la convinzione laicistica di una prevedibile scomparsa della religione” deve fare i conti con “il persistere di comunità religiose entro un orizzonte sempre più secolarizzato”. Egli ritiene che laicisti e religiosi dovrebbero porsi in ascolto reciproco negli spazi in comune della discussione pubblica:
“Io mi chiedo se un’ipotetica mentalità laicistica della gran massa dei cittadini non finirebbe per essere altrettanto poco desiderabile quanto una deriva fondamentalistica dei cittadini credenti”.
Il filosofo tedesco sottolinea la minaccia di una “modernizzazione aberrante della società presa nel suo complesso” che tende a distruggere il concetto di solidarietà dello Stato democratico. La soluzione non è abbracciare un orientamento religioso ma semmai un confronto con esso. La persistenza della religione rappresenta una sfida cognitiva che la filosofia deve prendere sul serio a patto che, alle convinzioni religiose, venga applicato uno status epistemico non irrazionale. Lo Stato, che riconosce a tutti i cittadini eguali libertà etiche, non può contestare ai cittadini credenti il diritto di esprimersi in lingua religiosa, ma semmai deve esortare questi ultimi a tradurre il contenuto religioso in un linguaggio comprensibile a tutti.
A rappresentare le ragioni del cristianesimo, il Cardinale Ratzinger propone un rapporto correlativo tra ragione e fede nel contesto interculturale della contemporaneità. Infatti il dibattito sui rapporti fra laicità e religione, nelle società occidentali, è reso più vivace dall’intensificarsi del processo migratorio e dalla presenza di una realtà religiosa multiforme. In un articolo de “Il Sole 24 Ore” apparso il 16 maggio 2004 egli riflette proprio sull'interculturalità. Questa è diventata il nuovo spazio pubblico, la dimensione indispensabile, per la discussione intorno alle questioni fondamentali sull'essere uomo che non può più essere condotta né solo all'interno del cristianesimo né solo nell'ambito della tradizione occidentale della ragione. Affinché si possa crescere in un processo di purificazione universale, globale, in cui in ultima istanza i valori e le norme essenziali, conosciuti o riconosciuti da tutti gli uomini, possano conseguire nuova forza d'illuminazione per tenere unito il mondo.
Il concetto di correlazione polifonica delle culture sembra chiarire vecchi dilemmi. Robert Paul Wolff, nel libro Critica della tolleranza (Einaudi, Torino 1968), espone la teoria della funzione indispensabile del gruppo per la formazione della personalità secondo cui l’esistenza di una molteplicità di gruppi di appartenenza è essenziale per l’armonico sviluppo dell’individuo. Il legame emotivo che unisce gli individui appartenenti al gruppo crea processi di immedesimazione ma origina anche l’odio campanilistico, cioè l’intolleranza verso gli altri gruppi. Tuttavia l’alternativa sarebbe “l’uomo-massa: l’atomo senza volto e senza legami della folla solitaria”. La tolleranza è l’alternativa, dunque, all’indiscriminato livellamento di tutte le differenze incoraggiando gli uomini a credere che per la società rappresenti un bene contenere, al proprio interno, molte fedi, razze e culture.
Il fenomeno religioso, con gli incontri organizzati a Genova nel ricordo di Don Antonio Balletto come esempio concreto e tangibile, acquista nuova visibilità pubblica. Il laico deve prendere atto della presenza dell’elemento religioso nel discorso pubblico mentre il religioso deve inevitabilmente misurarsi con le regole laiche della democrazia e con i problemi della tolleranza e convivenza, posti dalla pluralità delle religioni e delle culture. “Il potere arresti il potere” - affermazione di Montesquieu in Esprit des lois (libro XI, cap. IV) - sembra ben esprimere tali preoccupazioni reciproche, dell’uomo di religione e del cittadino razionale.
Credo, riprendendo un articolo di Vannino Chiti Le innovazioni di Ratzinger ("l’Unità", 3.11.2006), che la cultura laica non debba rinunciare a confrontarsi con il pensiero religioso poiché questo escluderebbe la possibilità di affrontare temi e aspetti sul senso della vita di cui, nel nostro tempo, riscopriamo l’importanza. Il concetto di correlazione polifonica delle culture ci ricorda, secondo Rita Baldi nell’articolo Fra Cesare e Dio ("Gazzetta di Parma", 26.10.2005), che ragione secolare e ragione credente non sono le sole voci del mondo: né la religione cristiana né la razionalità occidentale sono esperienze universali. Entrambe si considerano universali ed aspirano ad esserlo anche de iure ma de facto sono accettate solo da una parte dell’umanità.
Infine una riflessione sui concetti di maggioranza e verità poiché non esiste equivalenza tra questi termini e le “maggioranze possono essere cieche o ingiuste. La storia lo dimostra in modo più che evidente è […] il principio di maggioranza lascia pertanto sempre aperta la questione dei fondamenti etici della legge”.
Questo il tema di un altro incontro “Libertà e verità”, tenutosi a Genova il 20 gennaio 2010 presso la Cattedrale di San Lorenzo, nella logica di un’indispensabile dialogo tra ragione credente e presupposti morali dello Stato democratico. In particolare Sergio Belardinelli, Ordinario di Sociologia dei processi culturali dell’Università di Bologna, ha fortemente sottolineato il ragionamento secondo cui, in un ordinamento democratico, la maggioranza decide ma la discussione non può limitarsi all’aspetto procedurale di come questo avvenga o al tema della persuasione e della comunicazione del messaggio per influenzare la maggioranza. La maggioranza decide ma la decisione può essere giusta o sbagliata: ecco l’importanza della verità che non deve ledere la libertà, quindi la verità non può e non deve essere imposta con la forza, pur tuttavia deve essere cercata e proposta nella discussione pubblica.

*link al Centro studi Antonio Balletto (Albenga).
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19 marzo 2010

In libreria

Alessandra E. Cascino
Giornalismo e ambiente. Elementi interpretativi sul caso «pet-coke» di Gela Roma, Aracne , 2009, 144 pp.

Questo libro presenta l’analisi della copertura giornalistica compiuta sulla città di Gela nel corso della vicenda pet coke del 2002. In quell’anno parte degli impianti dello stabilimento petrolchimico cittadino furono chiusi perché funzionanti tramite pet coke, “scarto” della lavorazione del greggio. Tutta la città di Gela protestò contro la chiusura dello stabilimento ENI, fonte di lavoro per gran parte della popolazione. A partire dalle riflessioni sul Conflict Consensus e sulla Consensus Communication, che presentano gli effetti della società sul prodotto giornalistico, è stata operata un’analisi del contenuto come “inchiesta” su un corpus di articoli scelti da giornali nazionali, regionali e locali che si sono occupati della vicenda. Attraverso la presentazione dei dati emersi nell’indagine si è cercato di far luce sulla cronaca dei fatti evidenziando i metodi di scelta della notizia, le diverse facce e sfumature messe in luce dai media e le informazioni rimaste celate per non essere rientrate nei criteri di notiziabilità degli organi di informazione studiati. Poiché i conflitti sociali evidenziati dall’informazione non sono che il risultato di più convergenze, questo libro dimostra che quanto è accaduto a Gela non è che il risultato dell’errato comportamento di più attori sociali.
Leggi tutto sul sito dell'editore Aracne

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Quer pasticciaccio brutto de via Teulada

Diario di un naufragio
L’esclusione televisiva è la nuova forma di censura politica e scomunica ecclesiastica.
Mercoledì. Sto costruendo una zattera in questo momento. In mente ho quella di Géricault, Le Radeau de la Méduse, perché? Dispongo le assi e stringo le corde. Il mare è agitato, lo sono anch’io: sto partendo per il mondo nuovo, quello del nuovo millennio. Sulla zattera di Géricault la televisione non c’era, era il 1819, oggi io la devo portare per forza. Sulla terra c’erano due censori: il Principe col suo privilegio di stampa e il Papa col suo Indice dei libri. Oggi, da questa terra dalla quale salperò, c’è sopra-a-tutto la televisione con la sua voce, la visione e la revisione, l’esposizione e l’esclusione. Sto costruendo una zattera e, disposte le assi e strette le corde, cerco una posizione per lei: la metto qui al centro, l’accendo. C’è L’Isola dei Famosi e c’è Aldo Busi, ha deciso di abbandonare il programma: «I cameramen se la danno a gambe levate quando parlo di politica e letteratura. Non interessa qui nulla a nessuno dell’Alfieri e del Beccaria. Io non le posso dire queste cose, nessuno è interessato, il filtro è tale che so che mi sono prestato a una pantomima di me e dell’intellettuale». Ma perché le telecamere dell’isola scappano? Perché le orecchie della terra ferma non sentano. Ma è un pasticciaccio brutto, prima lo cercano e cedono («Una clausola mi imponeva di non parlare di politica e di religione. Ho preteso che venisse tolta. Altrimenti cosa dovrei dire tutto il giorno? Cip-cip?»), prima lo invitano e poi lo evitano? Beh, forse è perché è tutto il giorno che lavoro alla zattera, forse è perché ho sonno, sono stanco: non capisco.
Giovedì. Dormire sul legno non è comodo, pensare tutta la notte è ancora più scomodo. C’erano le nuvole e quindi non potevo chiedere alle stelle, mi sono addormentato e ho chiesto alla mia mente. Ho sognato il naufragio della Medusa, un incubo: la francese Méduse, stava navigando verso il Senegal, quando si incagliò forse perché il comandante sbagliò. Imbarcò quindi ben 250 notabili e 139 addetti su una zattera di 20x10m, legata alle scialuppe da una cima, in viaggio per la costa. La corda si stracciò (qualcuno la tagliò?) e la zattera naufragò. Già la prima notte morirono in venti, un’altra metà cadde in mare perché non smettevano di litigare, sul finire dalle mani passarono alle bocche e dall’egoismo al cannibalismo. Dopo tredici giorni vennero salvati i sopravvissuti, una dozzina o una ventina (cinque morirono la notte seguente). Tre anni dopo, nel 1819, Géricault dipinse la tragedia su tela: il naufragio della Medusa era quello dell’Impero Napoleonico. Un regime senza libertà d’espressione, corrotto senza un cerotto. Accendo la televisione: Aldo Busi è stato escluso da tutte le trasmissioni Rai! Ieri ha parlato male di Berlusconi (che non abbassa le tasse) e di Ratzinger (che non accetta gli omosessuali), è stato volgare per il volgo: «La forma è il linguaggio. La mia sostanza sta nella mia forma. Il fatto che la mia forma sia sbagliata per lei, Ventura, e per la maggior parte degli italiani vuol dire a maggior ragione che io la forma non la cambio. Questa nazione è indietreggiata di 15 anni anche per colpa vostra. Voi dovete essere ricoverati. Sentite quelli che avete mandato sull’Isola con me. Non è una novità per me non essere capito. Purtroppo sono tutti come Federico Mastrostefano (un ex tronista). Non c’è più cultura. Il Paese è morto».
Venerdì. Ho sciolto l’ultimo nodo, ho deciso: non parto. Io nel mondo nuovo, nel nuovo millennio non ci voglio andare. Prima c’era il privilegio di stampa e l’Indice dei libri ok, c’erano i principi e i papi, poi i nuovi imperatori col cavallo bianco. Le gazzette poi i giornali. Ora c’è la televisione. L’esclusione televisiva è la nuova forma di censura politica e scomunica ecclesiastica. Ho paura, io non parto. Sento che lì sarà peggio. Laggiù ci sarà solo la televisione, perché già qui si comincia e finisce da lei, si comunica e si nasconde con lei. Lì ci sarà solo quell’apparecchio, un solo apparato. Immagino degli uomini con la testa da tele, dei grandi monitor sopra le spalle. Immagino che tutti abbiano giacca e cravatta, senza che si veda la pelle. Immagino che ognuno sbatta, che nessuno abbia la faccia. Anche il telegiornale mente, anche il direttore è un dittatore. Immagino che si parli di tutto e non si parli di nulla, immagino tanti fumetti da quelle teste quadrate e tanto fumo. Immagino che il volume sia alto ma lo spessore no, che i canali siano tanti ma gli scenari no. No! Rimango qui, qui dove rimangono tutti gli esclusi come Busi. Rimango qui a scrivere queste cose, sul mio diario. Perché non voglio vivere in un mondo in cui ci sia solo la televisione, che se non vai in sovraimpressione non sei. Perché non voglio cedere in nessun modo ai dirigenti, ai direttori, ai dittatori della televisione, che pensano che la sovraesposizione sia essere, escludere sia uccidere. Laggiù comanderanno loro. Alla ricerca del loro oro: il bollo, il protocollo e il controllo. In via Teulada. «Se avete bisogno di me, mi trovate in libreria. La mia pantomima della cultura è durata fin troppo. Da un momento all’altro questa telecamera diventerà buia e io sparirò. Non adduco pretesti di salute, anche se ho un’infezione, non è una malattia diplomatica la mia. Senza di me, che ho fatto il capro espiatorio, potranno scagliarsi l’uno contro l’altro. E vedremo la vera ipocrisia».
Che pasticciaccio brutto però.
Alessandro Ferraro

14 marzo 2010

In libreria

Gisella Bochicchio e Rosanna De Longis
La stampa periodica femminile in Italia. Repertorio 1861-2009
Roma, Biblink, 2010, 220 pp.

Questo repertorio censisce e descrive oltre 1600 periodici italiani diretti alle donne editi tra il 1861 e il 2009. Rappresenta così l’intero spettro dell’esperienza unitaria, senza trascurare quei titoli che, nati in anni precedenti, attraversano il 1861 e proseguono oltre.

Scorrendo le testate censite, ci si rende facilmente conto che dall'Unità a oggi le donne sono state oggetto e destinatarie di una grande quantità di pubblicazioni periodiche, dalle forme e dai contenuti più vari. Si spazia dalla letteratura educativa di fine Ottocento rivolta alla formazione delle «buone italiane», ai coevi giornali emancipazionisti; dai fogli, a dimensione nazionale e locale, che hanno accompagnato le successive tappe organizzative del movimento cattolico, alle riviste sindacali e professionali dirette agli ambiti lavorativi tradizionalmente femminili (ostetriche, infermiere, maestre) ai fogli di ordini e congregazioni religiose femminili molto attive nel corso del XX secolo; dai bollettini dedicati all'attività femminile durante la Prima guerra mondiale alle riviste fasciste di propaganda; dai giornali clandestini delle formazioni partigiane alla stampa di consumo e ai ‘femminili’ per eccellenza del secondo dopoguerra; dalle riviste delle organizzazioni femminili dei partiti ai fogli sorti nell'ambito del neofemminismo o dietro la sua onda.
Risulta così una ‘lista’ che racconta e suggerisce molte storie, offrendo uno spaccato significativo sui processi di formazione dell’opinione pubblica in Italia e in particolare su quella ‘sfera pubblica femminile’ messa a tema dalla storia di genere come un’area di confine nella quale si delinea la presenza attiva e originale delle donne.

*link al sito del'editore biblink

10 marzo 2010

In libreria

Fiducia e paura / Fear and trust
A cura di: Paola De Cuzzani - Mirella Pasini
Novi Ligure, Città del silenzio edizioni, 2009, 148 pp.
Edizione italiana e inglese
Presentazione 

Fiducia o paura. Un'alternativa che domina le cronache del nostro tempo e che, ogni giorno, più o meno consapevolmente, viene sperimentata da ciascuno di noi sulla scena del vivere sociale. Ci chiediamo, però, se - proprio oggi, proprio in questa fase radicale della modernità - l'alternativa fra fiducia e paura sia davvero così netta. I saggi raccolti in questo libro, frutto delle ricerche condotte da un gruppo di studiosi europei da tempo impegnati nella riflessione sui mutamenti degli atteggiamenti culturali, delle filosofie sociali e delle etiche pubbliche in epoca moderna e contemporanea, rispondono all'interrogativo avanzando la stimolante ipotesi che fiducia e paura rappresentino, in realtà, linee interpretative, idee ed emozioni ambiguamente connesse. Dalla fiducia alla paura e dalla paura alla fiducia: frammenti di un dialogo tra lingue, società e culture, pensati e scritti per costruire un nuovo percorso teorico, che possa diventare proposta socialmente operativa, nel segno dell'inclusione, dell'integrazione, del dialogo.
Link al sito della casa editrice Cittadelsilenzio .

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Il giornale utile

Corso di Laurea magistrale interfacoltà in Informazione ed Editoria
Facoltà di Lettere e Filosofia – Facoltà di Scienze Politiche
Il giornale utile
Incontro con
Umberto La Rocca
Direttore del quotidiano “Il Secolo XIX”

Mercoledì 10 marzo 2010 - ore 10
Aula Mazzini – Via Balbi 5 (3° piano) Genova
  *link al sito del quotidiano "Il Secolo XIX"

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08 marzo 2010

Nuovi modelli di redazione

Nell'evoluzione vorticosa del giornalismo di oggi, in piena fase di convergenza delle tecnologie di comunicazione, fioccano dalle migliori scuole di giornalismo modelli che consentono una migliore configurazione della redazione in conformità con le nuove esigenze d'informazione. L'apertura verso un flusso di notizie dal basso potenzialmente innumerevole, la possibilità di essere presente ad un evento particolare, di raccontare la propria realtà quotidiana semplicemente digitando a tastiera i propri pensieri, rende probabile una commistione futura tra il mondo dei giornalisti professionisti e quello dei non-professionisti, i cittadini comuni.
Per poter gestire una mole spropositata di input occorre sì selezionare ciò che offre la rete, ma non bisogna altrettanto trascurare l'importanza ormai evidente dei contenuti user generated.
Faticano a cedere alla nuova era della virtualità i cari ssotenitori della carta stampata, ma si deve considerare l'effetto ambiguo e confuso creato dall'attenzione per il vecchio e per il nuovo.
Benoit Raphael non esita a tracciare una nuova concezione della redazione giornalistica, sulla base dei nuovi cambiamenti in atto. Una redazione definita "Google Newsroom" per le somiglianze e, ancor meglio simbiosi operative con il motore di ricerca più famoso del mondo. Un modo di fare informazione principalmente legato all'abilità dei nuovi professionisti di scovare la notizia meglio raccontata, l'evento sfuggito ai media tradizionali, l'appoggio sempre più vasto e competente di cittadini-giornalisti, blogger, individui curiosi e attenti a ciò che ruota vicino a loro. Tecnicamente, in questa visione futurista, l'80% dei nuovi operatori dell'informazione si occupano di un giornalismo che "crea valore" mentre il restante 20% di mettere in scena le notizie raccolte dai loro colleghi.
Tra i nuovi portatori di valore, suddivisi in unità operative, c'è spazio per coloro che, rifacendoci ai vecchi termini del mestiere, possiamo tranquillamente chiamare "cronisti". Si buttano alla caccia di articoli presenti in social network (facebook o twitter), video, chat, e altri siti dove possono nascere nuove notizie. Per continuare con quelli che fungono da "link", selezionano, mandano al setaccio tutto ciò che proviene dalla rete e ne fanno una summa organica. Last but not least la presenza dei cosiddetti "storici", ovvero con il compito di fornire un approfondimento personale agli avvenimenti accaduti.
Non si pensi che possa sparire del tutto la segreteria di redazione, anzi, dato che il compito di presentazione, messa in forma chiara e attrattiva deve sintetizzare e valorizzare un corpo ancora più grande di argomenti. Non da meno i "community manager", con una maggiore propensione al coinvolgimento dei lettori nei fatti trattati dal giornale. Sotto questo aspetto, il New York Times ha pubblicato un interessante database frutto dell'incontro tra i dati manifestati dal dipartimento di polizia, con i fatti di cronaca segnalati dal giornale in determinate aree geografiche.
Una maggiore specializzazione, unita alla rigenerazione del ruolo di mediazione che richiede una migliore capacità di capire le dinamiche della realtà e suoi movimenti più bruschi e repentini.
Lorenzo Carrega

Fonte: festival del giornalismo

In libreria

Marcela Iacub
Dal buco della serratura. Una storia del pudore pubblico dal XIX al XXI secolo
Bari, Dedalo, 2010, 328 pp.

Dove finisce lo spazio pubblico e dove comincia quello privato? Cosa dobbiamo nascondere e cosa, invece, possiamo mostrare? La definizione dei confini tra individuo, società e Stato è una delle questioni problematiche che la società globale ha ereditato dalla modernità. Il sistematico sconfinamento del potere pubblico negli spazi privati è il frutto di una logica di potere attraverso cui il diritto ha diviso il mondo visibile da quello invisibile, il lecito dall’illecito. Lo spazio «fisico» è stato progressivamente delimitato da linee artificialmente tracciate. Queste frontiere, però, mobili e reversibili, sono state importanti zone di contestazione e di lotte e hanno condizionato e «normato» non solo gli spazi ma anche i corpi, i comportamenti, le pratiche fino a definire talune condotte anormali, devianti e malate. Su questo territorio Marcela Iacub rintraccia e analizza le politiche di definizione e produzione degli spazi e delle condotte sessuali – dal pudore pubblico al nudo artistico, dai reati di esibizione sessuale, alle pratiche omosessuali – invitandoci a riflettere sul legame tra sessualità e spazio pubblico.
*segnalato da C.S.

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06 marzo 2010

In libreria

Alberto Papuzzi
Professione giornalista. Le tecniche, i media, le regole

Roma, Donzelli, 2010, 358 pp.

scheda
Come si diventa giornalisti nell’epoca del progresso tecnologico e dei nuovi media, dell’espansione del giornalismo e dei fenomeni della globalizzazione? Le chiavi del successo sono la capacità di rispondere alle nuove esigenze di conoscenza e di informazione e la consapevolezza delle nuove tecniche e regole che oggi caratterizzano il «mestiere più bello del mondo». Con tali trasformazioni e tali interrogativi, cui corrispondono inedite figure professionali e impreviste responsabilità per i giornalisti, fa i conti la nuova edizione di Professione giornalista, manuale sui fondamenti teorici e tecnici, dalla stampa alla radio, alla televisione, all’online. Del pianeta dell’informazione, italiano e internazionale, inquadrato in una prospettiva storica, esplorato con esempi dal vivo, si mettono a nudo i meccanismi e le procedure che fanno sì che un avvenimento diventi una notizia, grazie al ruolo specifico del giornalista, testimone privilegiato. Questa quinta edizione, oltre agli aggiornamenti e agli accrescimenti dell’edizione precedente, contiene due capitoli inediti: il primo analizza la nuova figura del giornalista che opera attraverso il web, e si sofferma sugli strumenti multimediali e ipertestuali, con particolare attenzione alla realtà americana: forum, sondaggi, link, archivi, blog. Il secondo affronta gli aspetti specifici del giornalismo italiano in fatto di informazione politica. La pervasività di quest’ultima, spiega Papuzzi, ha indotto la nascita di un modello di giornalismo basato sul commento e sull’opinione, con una capacità a leggere e a interpretare in chiave politica anche i fatti che appartengono alle notizie e alle cronache quotidiane, dalla nera agli spettacoli, dalla cultura all’intrattenimento. Come dire che dal vecchio motto: «I fatti separati dalle opinioni» si passa al nuovo: «I fatti al servizio delle opinioni».

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04 marzo 2010

Ancora Gutenberg

Con il riguardo dovuto a uno scrittore come Maurizio Maggiani e agli insegnanti che stanno vivendo tempi sociali e politici faticosi, gli "asini gutenberghiani", quelli cioè che non sanno chi ha inventato i caratteri mobili, hanno qualche attenuante oggettiva e dovrebbero essere assolti per insufficienza di prove.
Il terreno è insidioso, ma bisogna ammettere che non si sa con certezza chi ha inventato i piccoli parallelepipedi di piombo.
Guy Bechtel, stimato storico gutenberghiano, dichiara che non vi è alcuna prova certa che Gutenberg avesse mai impresso un libro o fuso un solo carattere.
Di sicuro nella sua tipografia magontina si stampò la Bibbia delle quarantadue linee (B42), così battezzata perché in ogni pagina dei due ingombranti volumi sono impresse quarantadue righe di testo. La memorabile impresa avvenne intorno al 1455. Ma per comprendere quanto è controversa l’origine della tecnica usata, rivoluzionaria è la tesi di Bruno Fabbiani, ricercatore del Politecnico di Torino, il quale sostiene che non furono usati caratteri mobili, ancora sconosciuti a Gutenberg, ma la stereotipia, ovvero una matrice in piombo punzonata, in uno stile gotico di ispirazione calligrafica.
La premiata Fabbrica del Libro cercò verosimilmente di taroccare un modello manoscritto, preferito dal mercato rispetto al protolibro meccanico che usciva dai torchi.
La mutazione tipografica vera e propria del libro la troveremo invece nella B49, stampata a Strasburgo intorno al 1460 da Giovanni Mentelin e qui tutti sono concordi: si usarono i caratteri mobili. Ispirati al lapidario romano, più piccoli e leggibili del gotico gutenberghiano, essi ebbero il vantaggio di ridurre il numero delle pagine, rendendo più competitiva l’edizione, sempre in due volumi.
Un esemplare di entrambe le opere, B42 e B49, è custodito nella Città del Vaticano.
Evitando di infilarsi in sottigliezze professorali, ma restando nella sostanza come suggerisce Maggiani, possiamo affermare solo che Giovanni Gutenberg diede vita a un’impresa di produzione libresca tanto innovativa da decimare le botteghe dei copisti, grazie al suo prototipo di libro tipografico. Certo è anche che questo gli costò un processo e una condanna (tutto documentato) per non aver pagato il dovuto al suo socio e finanziatore Giovanni Fust.
C’è da chiedersi quindi se il mondo della scuola possa continuare a pretendere che venga recitata la lezione della storia e cioè che sia stato Gutenberg a inventare i caratteri mobili e, ignorando l’obiettività delle indagini finora svolte, si continui a glorificarlo piuttosto che per meriti imprenditoriali, per un’invenzione attribuitagli da un’eco che inizierà solo un secolo dopo la sua morte.
Forse lui sta più a Bill Gates (accomunati dall’iniziale del cognome, non certo dalla fortuna) che alla figura dell’inventore ascetico, mito difficilmente ridimensionabile sul suo piedistallo.
Cosa deve l’umanità al tipografo tedesco?
Molto, per la sua intraprendenza, questa volta un valore, anche se di natura affaristica. Ricordando McLuhan, mentre ormai stiamo guardando la Galassia Gutenberg con lo specchietto retrovisore, le domande potrebbero essere altre: cosa è stata la tipografia (stampa per i più) per l’umanità? che relazioni ha con il linguaggio digitale, con i giornali, con i libri e i loro avatar?
Gli asini gutenberghiani potrebbero sorprenderci positivamente, questa volta.
Francesco Pirella

Per gentile concessione dell'autore, già pubblicato sul "Secolo XIX" (27.2.2010) a commento dell'articolo di Maurizio Maggiani, Gutenberg, gli studenti asini e quest'Italia che assolve, "Il Secolo XIX", 22.2.2010 [leggi ]. Francesco Pirella é conservatore di Armus-Archivio Museo della Stampa di Genova.
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