Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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30 gennaio 2013

Una storia d'inchiostro


Il volume Storia del giornalismo americano firmato da Sofia Basso e Paolo Vercesi  è  fonte inesauribile di episodi e vicende stupefacenti intorno a quel mare magnum che è il giornalismo americano. Quello che subito si evince sin dalla presentazione e dall’introduzione è che non si potrebbe avere un’idea veramente chiara dell’intera storia della Nazione Stati Uniti d’America senza leggerla, filtrarla e “declinarla” attraverso le pagine dei suoi giornali, l’evoluzione della carta stampata e senza seguire inoltre le figure dei giornalisti: più o meno importanti, più o meno collusi con i poteri forti, più o meno “grandi firme” più o meno fanfaroni che siano. America e U.S.A. in particolare vogliono dire insomma Giornalismo. E’ come se gli autori ci volessero dire che in quella terra nuova si fosse operata una mutazione di tipo cultural-genetico, cioè la nascita di un homo giornalisticus, che si nutre della carta stampata e vive fra le pieghe delle pagine: egli non muove un dito senza prima vagliarlo sulle varie gazzette o quotidiani che riesce a trovare. Il libro è scandito in ordine cronologico: si parte dalle celeberrime tredici colonie e si arriva all’esplosione (o forse sarebbe meglio dire implosione) della stampa digitale. Il primo giornale americano a tutti gli effetti, nato per gemmazione da una pubblicazione precedente inglese, è il Pubblick Occurences, Both Forreign and Domestick e corre l’anno domini 1631. Questa è la data da cui si fa partire non l’analisi del libro, ma la storia dei giornali d’America. Gli autori, con una scelta certamente arbitraria ma che non si può dire errata o poco funzionale ai termini dell’idea generale che guida il loro lavoro, si concentrano sulle prime schermaglie di quei movimenti di protesta che poi sfoceranno nella rivoluzione d’indipendenza del 1776. Si può affermare che i giornali non solo accompagnarono le proteste nelle città della costa orientale ma “spinsero” letteralmente i coloni a rivoltarsi contro l’odioso padrone inglese. Sono i giornali, dai nomi come Massachussetes Spy o Common Sense (e già qui si ravvisano le linee guida del giornalismo d’oltreoceano: giornalismo d’investigazione e forte attenzione per le tematiche populistiche/popolari) a denunciare gli sbagli, le dimenticanze, l’eccessiva tassazione del regime di sua Maestà. Le riviste del nord-est, è proprio il caso di dire, “fanno” la rivoluzione.
Il ritmo del libro è incalzante, scritto in maniera cristallina, con uno stile anglosassone: pochi quindi i fronzoli, molti fatti, una miriade di date e concetti chiari. I grandi momenti della Costituente americana sono scanditi dagli appelli che i principali leader fanno su rivista. Uno su tutti Thomas Jefferson, forse il primo “grande uomo americano” ad aver compreso l’importanza della carta stampata. È di quegli anni il primo quotidiano americano, nato nel 1775 (un anno prima della rivoluzione), ad opera di Benjamin Towne, chiamato Pensylvania Evening Post. A grandi passi si susseguono i momenti cardini della storia statunitense e si può vedere come Lincoln (salito agli onori della cronaca recentemente per il biopic cinematografico) e Edgar Hoover prestarono grandissima attenzione al controllo dei media.
Ma il capitolo centrale, quello che maggiormente cattura l’interesse, è quello dedicato al giornalismo degli anni Cinquanta e Settanta. Queste due decadi sono prese come esempio di un modo di fare perfettamente speculare: da un lato l’America vincitrice della Seconda Guerra Mondiale, votata compattamente alla cosiddetta “caccia alle streghe”, ovvero un’opinione pubblica fermamente schierata su posizioni anticomuniste (con talvolta pericolosi eccessi ultraconservatori); dall’altro i ribollenti Stati Uniti dei 70’s con un giornalismo d’inchiesta feroce contro il potere come testimonia, caso unico nel suo genere, l’affaire Watergate (e della successiva coda con la mitologica intervista Frost/Nixon). La caccia alle streghe quindi come esempio di ferreo imbavagliamento dei media da parte del potere politico ed economico ma anche come emblema di un presidente democraticamente eletto che è costretto (unico caso per ora nella plurisecolare storia a stelle e strisce) a dimettersi a causa dell’impeachment: sono i due poli, opposti e diametralmente speculari, tra i quali si muove il giornalismo americano. Un tipo di giornalismo entrato biologicamente nella società, dove a tutt’ora il giornalista ha forte peso e notevole influenza sulla scacchiera nazionale e che non ha mai del tutto reciso i rapporti con i grandi poteri.
In chiusura vorrei ricordare come in una graphic novel degli anni’80, Watchmen, si immagina cosa sarebbe successo se, per una serie di vicende, i due giornalisti del Washington Post fossero stati assassinati prima di poter denunciare lo scandalo: Nixon avrebbe trionfato nuovamente alle elezioni, sarebbe riuscito a modificare la costituzione dando la possibilità di ricandidarsi per un numero imprecisato di volte alla presidenza. Il mondo, in quel 1985 alternativo e futuribile, sarebbe stato “a soli cinque minuti dall’Apocalisse nucleare”. Che dire, ben venga allora il giornalismo americano.
Valeria Spina
Sofia Basso e Pierluigi Vercesi
Storia del giornalismo americano
Milano, Mondadori, Milano, 2011, pp. 224.

28 gennaio 2013

In libreria

Varian Fry
Consegna su richiesta. Marsiglia 1940-1941.

Artisti, dissidenti ed ebrei in fuga dai nazisti
A cura di Valentina Parlato
Palermo, Sellerio, 2013, 316 pp.

disponibile anche in formato e-book
Descrizione
Agosto 1940. Varian Fry, giovane giornalista americano, viene mandato a Marsiglia da una organizzazione americana (l’Emergency Rescue Committee, ERC) con l’incarico di fare espatriare gli esuli europei che avevano trovato rifugio in Francia e che sono minacciati dalla clausola contenuta nell’armistizio con la Germania nazista che ammetteva la «consegna su richiesta» dei rifugiati segnalati dal Reich. In tredici mesi, prima che la polizia di Vichy espella Varian Fry, l’ERC riuscirà, con mezzi legali e illegali, a salvare migliaia di persone. Una testimonianza diretta e insieme un racconto di grande commozione. Varian Fry (New York, 1907-Redding, 1967), giornalista e editore, è stato insignito della Legion d’onore francese, primo cittadino americano a comparire nella lista dei Giusti tra le nazioni, ha ricevuto la cittadinanza onoraria dello Stato di Israele; a Marsiglia e a Berlino una strada porta il suo nome. Dalla vicenda, narrata in questo libro, ma conosciuta largamente solo dopo la sua morte, è stato tratto un film, Varian’s War, con William Hurt e Julia Ormond.
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25 gennaio 2013

Tesi di Storia del giornalismo (laurea triennale)

Isabella Coppola, Stampa e opinione pubblica a Genova tra Risorgimento ed Unificazione (1859-1861), Facoltà di Scienze politiche, Università degli studi di Genova, rel. M. Milan, a.a. 2011-2012.
Emanuele Lince, Stampa e opinione pubblica in Piemonte tra Risorgimento ed Unificazione. Il caso di Alessandria. Facoltà di Scienze politiche, Università degli studi di Genova, rel. M. Milan, a.a. 2010-2011.
Deborah Tolomeo, La stampa rossa a Genova (1945-1953). Le carte Adamoli, Facoltà di Scienze politiche, Università degli studi di Genova, rel. M. Milan, a.a. 2010-2011
Alessandra Torre, Percorsi del giornalismo aziendale: Leonardo Sinisgalli e "Civiltà delle macchine", Facoltà di Scienze Politiche Università degli studi di Genova, rel. M. Milan, a.a. 2009-2010.
Edoardo Buganza, La rinascita del "Corriere mercantile" di Genova (1948-1954), Facoltà di Scienze Politiche Università degli studi di Genova, rel. M. Milan, a.a. 2008-2009.
Luca Lovelli, Giornali e giornalisti a Novi ligure tra Prima e Seconda Repubblica, Facoltà di Scienze Politiche Università degli studi di Genova, rel. M. Milan, a.a. 2008-2009.
Martina Russano, Percorsi del giornalismo radiofonico in Liguria, Facoltà di Scienze Politiche, Università degli studi di Genova, rel. M. Milan, a.a. 2008-2009. (tesi consultabile sul sito di tesionline.it)
Ilaria Ugolini, I giornali di quartiere a Genova. Una proposta di cittadinanza attiva, Facoltà di Scienze Politiche Università degli studi di Genova, rel. M. Milan, a.a. 2007-2008. (tesi consultabile sul sito di tesionline.it)
Simone D'Ambrosio, Dall'Albero di Cracovia ai blog. Pregi ed insidie del giornalismo partecipativo , a.a. 2006-2007
Daniele Boasi, I quotidiani regionali nella società "glocal". Il caso del "Secolo XIX" di Genova, Facoltà di Scienze Politiche Università degli studi di Genova, rel. M. Milan, a.a. 2005-2006
Francesco Bottino, Genova in prima pagina. Criteri di notiziabilità e contenuti ("Il Secolo XIX" e "La Repubblica-Il Lavoro")
Giovanna Cereseto, Percorsi del giornalismo sindacale. I "SEGNAstampa" del Coordinamento Donne FLM Genova(1976-1984).
Francesca Cipriani,
Gli inserti di "Repubblica" tra politica di marketing e progetto culturale
Giorgio Silvestri, L’informazione utile. Percorsi della comunicazione interculturale in Italia, Facoltà di Scienze Politiche Università degli studi di Genova, rel. M. Milan, a.a. 2005-2006.
*tesi consultabile nel sito
mm2 Media e interculturalità (link sul titolo).
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22 gennaio 2013

Lo spazio cibernetico conquista il potere


Festeggiano tutti coloro che propongono la rete come strumento con cui affrontare le complesse questioni internazionali. Lo spazio cibernetico assurge al rango di fonte d’informazione, a tutti gli effetti, tanto che il Congresso appronta una sezione di ricerca adibita alla diplomazia digitale per studiare come cambiano i rapporti tra Stati attraverso l’uso dei social media.
L’inaugurazione della prima ambasciata solo su web risale al 2011 e batte bandiera americana.
Le motivazioni di questa scelta affondano le radici anche da un caso internazionale che aveva visti coinvolti, nel 1979, un gruppo di studenti rivoluzionari iraniani e l’ambasciata USA a Teheran.
Il 4 novembre 1979 inizia il calvario di una cinquantina di funzionari americani presi in ostaggio per più di un anno suscitando lo scandalo e il successivo raffreddamento dei rapporti bilaterali tra i due Paesi.
Un altro caso significativo riguarda la visita del Presidente Obama in Indonesia e le reazioni raccolte su Facebook dell’Ambasciata americana (dati dicembre 2011): 1500 messaggi di benvenuto, più di 500 partecipanti ai quiz sugli Stati americani, 470.000 fan.
Così Deruda, in Diplomazia digitale. La politica estera e i social media, ci presenta uno degli esempi più riusciti di social network come strumento di politica estera.
A colpire non sono solo i dati quantitativa ma il feedback della popolazione, soprattutto giovanile, su temi d’intrattenimento e/o culturali come sport, musica, cultura e istruzione.
Altri fattori hanno concorso a giocare un esito positivo, si parla anche del “fattore Obama”, ma la centralità dell’aspetto comunicativo dei diplomatici, oltre che il procedere di dinamiche comunicative e l’evoluzione dei processi decisionali, si compenetrano certamente con gli elementi di partecipazione e condivisione tipici del web 2.0 aumentando il gap positivo registrato in termini di successo.
Il caso indonesiano è emblematico ed è preso ad esempio tra quanti pensano che il futuro sviluppo della diplomazia digitale vada nel senso della valorizzazione delle idee che, partendo dal basso, diventano materiale su cui le istituzioni organizzative elaborano nuove strategie d’interesse pubblico.
L’Huffington Post, il media online più influente USA, sempre nel 2011 pubblica un articolo in cui canta le gesta portentose del Web applicato alla geopolitica non tanto da parte del Presidente Obama, portato al potere si dice dall’onda gigantesca che ha creato grazie ai social network, ma da Hillary Clinton che si converte a questo straordinario canale comunicativo per presentare e adempiere alle iniziative dell’agenda del Dipartimento di Stato.
Deruda sembra certo che l’attuale alleanza strategica tra il potere politico, rappresentato da Washington, con la capitale di internet e dei social media stanziata a San Francisco sia una solida base su cui poggia la diplomazia digitale americana per ora indiscussa.
Quali saranno i possibili scenari risulta difficile da prevedere anche perché gli altri Paesi stanno rapidamente cercando di scalzare l’influenza mediatica americana.
Così vecchi e nuovi protagonisti dello scacchiere internazionale puntano risorse ed energie sulla comunicazione online e sull’interscambio coi cittadini attraverso la partecipazione virtuale.
L’opinione pubblica internazionale viene coinvolta per interessi diversificati che vanno dai consumi agli orientamenti bellici alla creazione di identità nazionali propri e di altri Paesi.
Un altro esempio di Deruda riguarda i differenti messaggi che la Corea del Nord e del Sud propongono rispettivamente ai “cugini”. La comunicazione della Corea del Nord è più diretta alle questioni politiche e militari mentre quella del Sud punta sullo sviluppo sostenibile e culturale: l’innovazione, l’economia, il turismo.
L’imperativo riguarda tutti gli Stati presenti nell’arena della competizione: convincere il vasto pubblico e non più solo la platea consolidata degli esperti che si occupano di affari internazionali.
Al momento l’avvento di internet nelle dinamiche comunicative, seppur innovativa e del tutto strabiliante, sembra riguardare soprattutto l’aspetto informativo della comunicazione dall’alto verso il basso ma in molti c’è la speranza che possa trasformarsi e migrare dall’attuale concetto di “soft power” a quello di  “cyber-utopismo”.
La differenza non sfugge ai più smaliziati e spesso cinici operatori dell’informazione.
Infatti se circola indistinta una qualche generica aspirazione alla diffusione globale dei diritti umani molti vedono in essa una retorica, come l’autore stesso, piuttosto che l’identificazione di una forma filosofica contemporanea.
Discorso ben diverso dalla rete di rapporti tra gli Stati e l’opinione pubblica internazionale coinvolti in scenari sempre più ampi che valicano i confini nazionali dell’informazione.
Il “soft power” rappresenta infatti un ecosistema in cui la nuova figura di diplomatico si inserisce per monitorare l’opinione pubblica e diversificare i messaggi secondo differenti pubblici di riferimento.
L’intento non è la democrazia ma la logica del mercato globalizzato del consenso.
Liana Pisanu
 
 
Antonio Deruda
Diplomazia digitale. La politica estera e i social media
Milano, Apogeo, 2012, 240 pp.
 
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21 gennaio 2013

Opportunità per l’innovazione giornalistica


Dopo una quantità innumerevole di libri che parlano delle esperienze che hanno fatto la storia del giornalismo, ecco finalmente un testo che valuta pro e contro delle situazioni odierne affrontate con le ultime novità tecnologiche alla mano. Si parla di iPad, di App Store e di Internet, ma soprattutto si discute dell’informazione e degli informati. Partendo dalla storia delle gazzette dal Seicento, Elena Valentini spiega l’evoluzione del giornale di carta fino all’iPad, uno degli ultimi gadget di moda marchiato Apple, che eredita diversi aspetti del quotidiano (periodicità di pubblicazione e integrità del prodotto) e se ne differenzia per altri (interattività, aggiornamento costante e condivisione). Esistono diversi tablet di altre marche, ma è grazie ai dispositivi Apple se si sono consolidati nella nostra quotidianità: l’azienda di Steve Jobs ha da sempre puntato alla scomparsa della separazione prodotto - utente, facendo concentrare le persone sulle esperienze possibili e attirandole con il design e la semplicità d’uso che contraddistingue le creazioni della Mela.
Insieme a smartphone, eReader e computer, le “tavolette digitali” hanno invaso il mercato dando la possibilità di un rinnovamento nel settore giornalistico, così come in passato hanno fatto televisione e Internet: contatto con il lettore, ipertestualità, formati audio e video fanno la loro comparsa sulle versioni online dei quotidiani. Secondo studi di settore, il 40% dei possessori di tablet usa magazine e libri digitali: numero che ha convinto alcuni editori a portare il quotidiano in formato elettronico. Ma un errore frequente è quello di limitarsi a impacchettare dei contenuti senza produrre un’effettiva innovazione, non sfruttando le potenzialità del nuovo medium. Ci sono problemi che ostacolano il progresso, come quelli di natura economica e di competenze umane, la velocità con cui arrivano le innovazioni tecnologiche e si aggiornano le piattaforme, la poca diffusione di connessione wi-fi gratuita in Italia e la mancanza della banda larga; senza dimenticare il rischio che l’enfasi tecnologica prenda il sopravvento a danno della qualità dei contenuti.
Nell’ultima parte del libro sono riportati stralci di interviste che confrontano riflessioni e opinioni di giornalisti, studiosi e direttori di riviste sull’opportunità dell’impiego dei tablet nel mondo dell’informazione. Si mostrano così paure e voglie di cambiamento, da chi afferma che bisognerebbe creare un’edizione apposita per il dispositivo a chi, pessimista, pensa che l’alluvione informativa sia solo un’iPad-mania di breve corso, destinata a sparire col passare del tempo. Ma quella che viviamo oggi è solamente una fase transitoria: una parte di lettori è raggiunta con la carta, un altro target con l’iPad: questa consapevolezza fa un gruppo editoriale vincente.
Un nuovo device non rappresenta la soluzione di una crisi, sia essa economica o sociale, visti anche l’elevato costo della tecnologia e la scarsa abitudine alla lettura che caratterizza l’Italia, ma prendendo atto delle specificità di ciascun contenitore è possibile valorizzare i contenuti creando un’esperienza di consumo appagante e diversa.
Beatrice Lombardo
 
Elena Valentini
Dalle gazzette all’iPad. Il giornalismo al tempo dei tablet
Milano, Mondadori Università, 2012, 240 pp.
 
 
 

17 gennaio 2013

In libreria

Esercizi di cronaca
a cura di Salvatore Grassia
Palermo, Sellerio, 2013, pp. 256.
disponibile anche in formato e-book
Descrizione
Vincenzo Consolo è stato uno dei grandi scrittori italiani del Novecento. È stato anche un grande giornalista. Dalla sua collaborazione con il rivoluzionario quotidiano siciliano «L'Ora», gli articoli di cronaca nera e inquietante, le inchieste sulla città e i suoi uffici e poi ancora interviste, questioni letterarie, recensioni, ma anche riflessioni civili. Un filo con la Sicilia che continua per moltissimi anni e che si alimenta, oltre che con i ritorni estivi nell’isola, proprio con queste cronache. «La scrittura non cambia il mondo. Ma è una difesa contro la ferita dell’impotenza. Ne conviene anche Consolo che indossa la cronaca come un linguaggio diverso, moralmente e civilmente allarmato, che non si riconosce nelle narrazioni convenzionali, inadeguate al carico di pena e alle calligrafie del dolore di tante vite “deportate”: avvilite, mortificate, disfatte; dimenticate. Si inoltra nei dintorni oscuri e inospitali della città opulenta, nelle solitudini dei dormitori; si muove lungo gli orli sfumati della vita urbana. Incontra scelleraggine e sordidezza: fattacci di cronaca nera, tragedie familiari, speculazioni omicide. Ridiscende in Sicilia, nei paesi spogliati dall’emigrazione, a inventariare morti e rovine entro un panorama diroccato, abbandonato dallo Stato o affidato all’avidità degli esattori e alle politiche di tale o talaltro onorevole per nulla onorevole. Va per uffici anche. E raccoglie le voci tutte e le scalmane di un pazzo mondo di disservizi e disfunzioni: sgarbato e spiritato; e talmente compresso da sembrare invasato, e come in farsa». Salvatore S. Nigro analizza in questo modo lo stile narrativo di Consolo. E Vittorio Nisticò, direttore de «L’Ora» negli anni più gloriosi, offre questa testimonianza della sua maniera di essere giornalista: «Tuttavia un desiderio di giornalismo, sebbene latente, rimase sempre vivo, e pronto a venir fuori quando si presentava l’occasione buona. Fu così in quei mesi del ’75, quando facendo la spola tra la casa materna di Sant’Agata e la nostra redazione, si buttò con manifesta gioia in un intenso lavoro giornalistico. Partecipando dapprima con articoli e interviste alla campagna per il buon governo e la candidatura di Sciascia, poi nell’estate andando in giro col taccuino del cronista a seguire a Trapani il processo al “mostro di Marsala” (l’uomo che aveva fatto morire tre bimbe), o la vicenda del sequestro di Corleo, il patriarca delle esattorie. In pieno agosto, si era persino spinto, e credo anche divertito, a fare un “viaggio” di osservazione tra gli uffici semideserti di Palermo-capitale. Insomma, un bel bagno mediterraneo di umile giornalismo, mentre tra un servizio e l’altro trovava il luogo e il silenzio dove ripararsi per dare gli ultimi ritocchi a Il sorriso dell’ignoto marinaio: il capolavoro che da lì a qualche mese lo avrebbe consacrato tra gli eredi della grande letteratura che la Sicilia ha dato alla nazione».

06 gennaio 2013

Perchè qualcuno dovrebbe leggere questo libro?

Questo si chiedono nella prefazione del manuale gli autori, esperti in diritto dell'informazione. L'approccio al testo appare da subito, per la chiarezza dei contenuti, adatto  tutti. Quest'analisi di lettura é rivolta in particolare, a giovani inesperti giornalisti e free lance. Il volume, nonostante i tecnicismi giuridici e le citazioni delle sentenze di Cassazione, é comunque facilmente fruibile da un pubblico eterogeneo e da tutti coloro che desiderano conoscere le norme e i limiti del diritto dell'informazione.
Già nel titolo e nel sottotitolo: Le Regole dei Giornalisti: istruzioni per un mestiere pericoloso é esplicito il contenuto dell'opera, che si articola in un percorso dove temi diversi si susseguono e si intrecciano. Si passa dal diritto all'informazione al diritto della persona, dal diritto di cronaca al diritto di critica, fino ad analizzare dettagliatamente l'area che distingue il confine tra lecito ed illecito nei settori dell'informazione, del trattamento dei dati personali, della pubblicità e del mondo virtuale.
A tre mani, gli autori presentano la complessità e la difficoltà interpretativa delle norme, districandosi in un percorso fatto di “lacci e lacciuoli” in tema di privacy, sanzioni disciplinari e tutela delle fonti.
Le democrazie attuali controllano spesso, ciò che ogni esperto del settore liberamente vuole scrivere: il rischio é sempre in agguato e facilmente il giornalista inciampa, cadendo in una rete di procedimenti giuridici e sanzioni per ingiuria, calunnia e diffamazione.
Fin dalle prime pagine si delinea un excursus storico sulla pericolosità dello scrivere.
Nelle XII Tavole del diritto romano, infatti, è contemplato il reato di diffamazione, punito con la fustigazione, mentre in epoca medioevale, le pene per ingiuria prevedevano il taglio della lingua.
Nella metà del XVII secolo, personaggi come Giovanni Quorli e nel 1603 Michelangelo Merisi da Caravaggio, ebbero a che fare con la giustizia per aver pubblicato testi a contenuto “illecito”.
Con l'affermarsi dello Stato liberale si procede a un cambiamento fondamentale nella libertà di informazione e di stampa. Celebre é rimasto l'art. 11 della Dichiarazione dei Diritti dell'uomo che prevede: “l'abolizione dell'autorizzazione della censura sulla stampa e l'obbligo che ogni intervento limitativo di tale libertà sia previsto dalla legge”.
Durante il periodo fascista sono molti i martiri caduti in nome della libertà di opinione, così come numerose sono le normative erogate, che ancora oggi stentano ad essere abrogate.In postfazione un contributo é riservato all'attività giornalistica di Francesco Merlo, che in Vita da Querelato, testimonia la sua esperienza professionale di cronista: una vita la sua, sospesa tra libertà di stampa, censura e sanzioni.
Alla domanda conclusiva e un po' provocatoria degli autori, se valga ancora la pena fare questo mestiere, la risposta seppur complessa, non può che essere affermativa. Sicuramente la professione é rischiosa, ma pur sempre emozionante, soprattutto nel momento in cui si annusa lo scoop giusto e si riesce ad incrinare ed abbattere la cortina grigia dell'informazione ufficiale.
Christian Humouda


*Caterina Malavenda, Carlo Melzi D'Eril, Giulio Enea Vigevani
Le regole dei giornalisti: istruzioni per un mestiere pericoloso
Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 178.
 
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02 gennaio 2013

I saperi del buon giornalista

"Un buon giornalista deve essere sempre pronto a dire come la pensa sulle quistioni di politica estera che presuppongono la conoscenza della storia universale, della storia rispettiva dei popoli e dei secreti di tutte le cancellerie; esso deve abbordare con sicurezza tutto ciò che interessa il perfezionamento della marina, la tecnica e la strategia; criticare l’amministrazione della giustizia, e preparare la riforma delle leggi; fornire la istantanea soluzione di tutti i problemi penitenziari, igienici, ospedalieri, statistici: trattare di morale, di metafisica, di religione, e risolvere en passant i problemi sociali; avere un’opinione sul modo di allevare la gioventù e sull’impulso da darsi alle arti, alla letteratura e al gusto del pubblico; affrontare con la stessa tranquillità il lato tecnico o economico delle ferrovie, delle miniere e dei canali; sorvegliare il funzionamento delle poste e dei telegrafi; nulla ignorare di ciò che ha relazione con l’agricoltura, con l’industria e il commercio; conoscere a fondo le istituzioni fiscali e tenersi all’altezza di tutti i progressi della scienza."
Nicola Bernardini, 1890


*cit. in M. Milan, "La sfida della formazione al giornalismo" in La Facoltà di Scienze Politiche compie 40 anni. Atti del Convegno "Le Scienze Politiche nel mondo contemporaneo", Genova, 19 maggio 2010, a cura  di M.A. Falchi, Genova, GUP, 2012, pp. 127-139.
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