Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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30 settembre 2013

In libreria

Francesca Sgorbati Bosi
Guida pettegola al Settecento francese
Palermo, Sellerio, 2013,  360 pp.   
(disponibile anche in formato e-book)
Descrizione
Il gossip, sostiene l'autrice di questo libro, è nato in Francia, nel Settecento illuminista. Inteso come sistema del pettegolezzo, cioè la maldicenza e l'indiscrezione inserite in una rete ben organizzata di informazione e comunicazione ad uso innocente o perverso della gente alla moda. Sia per sapere i segreti degli altri o inventarseli, sia per far parlare di sé comunque. Lo dimostra questa inchiesta tra le centinaia di rumors o di bruits che questo libro raccoglie, cataloga per argomento e inquadra il tempo nello spazio e nei protagonisti. Erano notizie brevissime e senza sottintesi, che venivano pubblicate in libretti e altre forme: Espions, Chroniques, Gazettes scandaleuses. Ed esistevano addirittura allora, come oggi le agenzie, bollettini specializzati che li rifornivano. La curiosità vivissima verso di loro tra il pubblico era accesa dal fatto che mancavano giornali, l'informazione non era libera né fluida, di contro alla novissima aria di libertà che circolava, soprattutto tra le donne. Non mancava a volte la volontà di colpire un avversario, in un'epoca in cui i canali istituzionali non
erano adeguati allo scopo (un po' come oggi i blog rispetto all'insufficienza della stampa e delle rappresentanze politiche). Toccano naturalmente tutti i campi, con preferenza per sesso potere carriera e gloria. E tutti gli ambienti interessanti, dalla corte in giù. Miniature in cui, come diceva Barbey D'Aurevilly, vi è più storia che in molte pagine di libri. Tracciate spesso e volentieri da grandi scrittori - anche Voltaire -, trasmettono ai posteri atmosfere e mentalità di una Parigi spietata-con-grazia, micro racconti da dove «il vizio non importa ma una figuraccia uccide».
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20 settembre 2013

In libreria

Joseph Roth
La quarta Italia
Roma, Castelvecchi, 2013, 68 pp.

Descrizione
Nell’autunno del 1928, Joseph Roth è in Italia, inviato dal quotidiano "Frankfurter Zeitung" per raccontare ai lettori tedeschi il Paese di Mussolini. I suoi reportage, raccolti in seguito sotto il titolo La quarta Italia, sono un piccolo capolavoro di giornalismo letterario, in perfetto e singolare equilibrio tra ironia e profonda inquietudine. Roth racconta la mancanza di senso del ridicolo nei rituali nel nazionalismo, il pervasivo culto della personalità del Duce, il clima di delazione e lo stato di polizia, l’asservimento della stampa e la censura, le sotterranee forme di opposizione. Il suo sguardo si sofferma sui particolari – l’abbigliamento di una camicia nera o l’ambigua gentilezza del portiere d’albergo che lo spia – e adotta un tono leggero, a tratti umoristico, dietro il quale però lascia emergere, sempre più netto, il grido di allarme. Nella chiave di un pessimismo non ancora disperato, Joseph Roth ci consegna così una lucida e impietosa testimonianza sull’Italia del Ventennio.
Joseph Roth (1894 – 1939): Scrittore e giornalista, è stato il testimone e il cantore della dissoluzione dell’Impero austro-ungarico. Nato in Galizia, alla periferia dell’Impero, cresce in un ambiente ebraico ortodosso, studia letteratura tedesca a Vienna e si arruola come volontario nella Grande Guerra. Giornalista e narratore di successo, nel 1920 si trasferisce a Berlino, compiendo frequenti reportage all’estero per il "Frankfurter Zeitung". In seguito all’ascesa al potere di Hitler è costretto a lasciare la Germania, continuando a pubblicare i suoi libri in Francia e nei Paesi Bassi.
 
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19 settembre 2013

La Chiesa e i Media

In occasione dell’incontro organizzato dal Vaticano per il 150° anniversario dell’Osservatore Romano, l’autore decide di passare in rassegna il difficile rapporto tra i media e la Chiesa Cattolica.
Il più evidente è quello delle incomprensioni, dovute a due principali fattori:
1 La maggior parte delle persone non è in grado di comprendere la totalità dei messaggi della Chiesa, che continua a esprimersi in maniera antiquata, attraverso espressioni e passaggi di difficile comprensione
2 Il pregiudizio dei laici nei confronti della Chiesa fa si che filtri solo ciò che i giornalisti vogliono sentire, tralasciando passaggi importanti ritenuti scomodi al fine degli articoli, o semplicemente non compresi.
Diceva Montini: "A che serve dire la verità, se chi ci ascolta non è in grado di comprenderla?"
L’affermarsi dei Media come attore sociale vero e proprio, e non più come solo mezzo di comunicazione, ha peggiorato ulteriormente il rapporto. Il Media viene considerato  nel testo appunto come “sesto potere”, atto a creare opinione pubblica, e non solo a informarla.
Vengono quindi analizzati recenti precedenti storici, emblematici del rapporto tra Media e Chiesa
L’enciclica Humanae Vitae, riguardante la posizione del Pontefice sull’uso di contraccettivi, ne è senzaltro un esempio.  Infatti chi la promulgò, Papa PaoloVI venne definito il “Papa della pillola”, quando la parola “pillola” non fu mai pronunciata nell’enciclica.  Anche in questo caso l’intero messaggio del Pontefice non fu colto nella sua essenza, e i media gettarono benzina sul fuoco a fini sensazionalistici, cercando di creare dibattito tra Laici e Chiesa, e fratture tra Cattolici di diverse posizioni.
Lo stesso Giovanni Paolo II, considerato per svariate ragioni il Papa più decisivo del dopoguerra, è stato oggetto di critiche e incomprensioni. In questo caso, sostiene Andrea Ricciardi, non furono direttamente i Media ad attaccare il Pontefice, ma il clima di quegli anni. In quel periodo infatti il papato in sé era un’istituzione così impopolare, che i Media non fecero altro che trasmettere e assecondare il “sentore comune”, senza analizzare concretamente e razionalmente i fatti.  Se il suo predecessore, Paolo VI, a posteriori venne definito come il Papa delle mediazioni, la personalità granitica e il  fervente anticomunismo di Wojtyla (cosa tra l’altro scontata essendo egli Polacco), lo posero subito in cattiva luce. Per contro il nuovo Papa portò però aria di freschezza e innovazione, essendo il primo Papa straniero, e data la sua giovane età. I laici si trovarono di fronte a diversi dubbi: come classificare quindi questa nuova figura? Collocarla in ambito progressista o conservatore? Alla fine i mass media semplicemente evitarono la questione, puntando i riflettori su altri aspetti, come la presenza del Pontefice nella società, la sua apertura umana, costruendo l’immagine del “Papa buono”.
Ancora più determinanti furono i mezzi di comunicazione nell’”attacco” a Benedetto XVI. Nel saggio Contro il pastore tedesco Jean-Marie Guènois  analizza come i Media francesi misero all’attenzione immediatamente un aspetto di fatto trascurabile, ma altamente “infiammabile” se dato in pasto ai telespettatori e ai lettori “medi”: gli interrogativi della famiglia Ratzinger riguardo al Nazismo.  Benedetto XVI dovette sempre giustificarsi di questa “colpa” creata dai Media, e a poco servirono i viaggi in Terra Santa e la visita ai campi di concentramento. Per una certa parte di chi produce informazione rimase il “Papa Nazi”.
Guènois continua la sua riflessione, cercando di suscitare l’onestà intellettuale del lettore, e di fargli ammettere come la nostra società non sia anti-nazista ( cosa che sarebbe lecita, ma impossibile dato che i nazisti non esistono più), bensì anti-tedesca (molto meno giustificabile, se non per nulla).
Il testo prosegue analizzando altri casi e tematiche, dal ritiro della scomunica del negazionista Vescovo Williamson (che fece infuriare la comunità ebraica, ma che ebbe poca attenzione mediatica), ai tentativi, mai adeguatamente comunicati dai Media, di Ratzinger di arginare il fenomeno degli abusi sessuali all’interno della Chiesa, sino alla questione dei contraccettivi e della sessualità.
In tutti i capitoli emergono i due punti sottolineati all’inizio di questa recensione: 1 La Chiesa, anche quando agisce nel giusto, spesso non è in grado di farsi capire. 2 I Media rincorrono la notizia, lo scoop, l’attacco, non la verità.
Sorge però spontanea una riflessione: tutti gli opinionisti e l’autore stesso del testo si dichiarano ferventi Cattolici e uomini filo-ecclesiastici. Se, come ci insegnano nei loro saggi, dobbiamo sempre interpretare e non prendere per oro colato ciò che leggiamo/vediamo/sentiamo, ma anzi dovremmo sempre sentire le tanto famose “due campane”, lo stesso metro allora dovrebbe essere applicato anche per questo testo?
Flavio Formaggio 


Giovanni Maria Vian
Il filo interrotto
Milano, Mondadori, 2012.


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16 settembre 2013

Una, nessuna e centomila

Claudia Fusani ripercorre le tappe fondamentali della vita  di una grandissima giornalista ligure di inizio Novecento. Inizia raccontando delle prime esperienze in redazione a Genova della ancora giovanissima Maria Vittoria Rossi, delle sue conquiste e soprattutto della sua graffiante realisticità.
Ma non si ferma qui, va più a fondo, dipingendo una ragazza rigida, troppo studiosa, ingabbiata nello stile di vita che la madre, forte di carattere, le impone per una brillante ascesa sociale nonché di autoanalisi e autovalutazione continua.
Maria non è mai solo se stessa e non lo è mai pienamente quando scrive sotto il finto nome di Giorgiana, ragazzetta miope e un po’ svampita, oppure sotto lo pseudonimo di Marlene.
Inventa storie e personaggi e ne prende le spoglie scrivendo ogni volta con stile e tono differenti; camaleontica ed eclettica rapidamente raggiunge un certo successo che la porta a curare diverse rubriche  ed a legare con l’emergente giornalista Indro Montanelli  che sarà poi suo collega nella redazione di Omnibus.  Il  settimanale culturale,  fondato da Leo Longanesi, la impegna per ben due anni durante i quali, grazie alle manovre della madre sposa Gaspero del Corso e assume definitivamente lo pseudonimo con cui ancora oggi è ricordata: Irene Brin. 
L’esperienza nella redazione del settimanale romano è il trampolino  di lancio per la sua brillantissima carriera di giornalista, reporter e soprattutto di lente d’ingrandimento sulla società dei primi decenni del novecento.
Le tinte con cui questa prima parte della vita di Maria Vittoria è narrata, sono grigie, quasi depresse, come se la soddisfazione di lavorare nel campo sognato e l’aver raggiunto la fama non fossero traguardi importanti nella vita della giornalista. La curiosità spinge a leggere ancora alla ricerca di una motivazione.
A partire dal 1940 Maria, terminata la fase di Omnibus, si lancia a scrivere ed a collaborare con diversi settimanali sotto diversi pseudonimi. Naturalmente la sua attività, nonostante la censura fascista si faccia sempre più stringente, è solo sfiorata dalla situazione perché pur essendo un’ottima scrittrice e soprattutto un’osservatrice senza pari, mai si è interessata a scrivere di politica.
Ed ecco affiorare le mille personalità: è Maria Del Corso su Mediterraneo, Ortensia sulla Gazzetta Provinciale, Geraldina Tron su Film Illustrato.
Tutte rubriche di costume, tutte rubriche che portano grande successo ai settimanali su cui compaiono e in primis sono scritte da donne completamente diverse che sono sempre la stessa. Maria Vittoria.
Nel 1941 decide di seguire il marito Gaspero in Jugoslavia con l’esercito e nonostante la sua sensibilità venga duramente colpita dallo scenario che l’accoglie in terra balcanica, le sue mille facce mantengono solidità. Manda regolari corrispondenze a Mediterraneo  ma nel frattempo continua a curare le varie rubriche.
Se Maria è così colpita da ciò che vede in Jugoslavia, non si permette di esprimerlo attraverso le sue tante personalità. Scrive il libro Olga a Belgrado che però sarà stampato molto dopo a causa di alcune vicissitudini della casa editrice.
Le mille Marie sono sempre diverse, sempre graffianti nelle loro analisi della bigotta società borghese che popola la prima metà del secolo, ma all’improvviso tutto crolla.
Con la caduta del fascismo e la latitanza del marito Irene si trova per la prima volta in difficoltà.
Con l’Italia a pezzi, sembra che lo stesso destino spetti alla vita, prima quasi perfetta di Maria, ma non è così. Per sopperire alla mancanza di entrate raccoglie i suoi pezzi migliori e pubblica il libro “Usi e costumi”, uno specchio fin troppo realistico della vuota apparenza di cui si nutre la società borghese italiana al seguito del mito americano, abbagliata dalla moda francese e dal pensiero tedesco.
Uno sfacelo di credenze, mode e abitudini che via via degradano verso l’umiliante condizione di spaesamento che ad ogni argomento pare più evidente.
Questo periodo buio è trattato con una lentezza esasperante, come se il pantano in cui è precipitata la vita scintillante di Maria, impregni anche il lettore, almeno finchè non si arriva al 1945, anno in cui lei e il marito investono i pochi risparmi che hanno per aprire una galleria d’arte: L’Obelisco, che sarà il varco attraverso cui l’Italia lascia entrare un po’ di cultura dal resto del mondo.
Nei primi tempi Maria sembra quasi lasciarsi andare, si fa da parte, lascia le redini della gestione al marito che opera in maniera esemplare la campagna pubblicitaria della galleria.
Qui Maria inizia nuovamente a scrivere, con una consapevolezza di sé differente, mantenendo il suo stile, perseverando nell’analisi della società nella sua rubrica su Settimana Icom Illustrata.
Scrive sotto lo pseudonimo di Contessa Clara, di cui, nel tempo inventa la storia. Ed eccola di nuovo, Maria, sotto falso nome, nelle finte spoglie di una vecchia vissuta. Il suo successo è innegabile. Le conquiste negli anni a venire sono numerose ma resta comunque grigia l’atmosfera  con cui è chiusa la storia di questa grande, grandissima giornalista.
Maria, che muore a 57 anni mentre ancora è impegnata con l’Obelisco e con le sue rubriche. Maria Irene Brin, Maria, Contessa Clara, Maria Geraldina Tron, Maria più amica che moglie di suo marito, Maria mancata mamma…
Ecco i mille volti che hanno coperto il solo vero volto di Maria Vittoria Rossi, talmente tanto presa dal suo trasformismo da scordare di mostrare al mondo quello reale.
Una sola Irene Brin, nessuna Maria Vittoria Rossi, centomila maschere.
Marta Gaggero
 
 
Claudia Fusani
Mille Mariù. Vita di Irene Brin
Roma, Catelvecchi Editore, 2012, 288 pp.
 

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