Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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12 gennaio 2019

Giornalismo, terrorismo e segreto di stato


Qual è il legame tra servizi segreti e giornalismo? Fino a che punto la divulgazione di informazioni riservate è legittima e non mette in pericolo la sicurezza nazionale di un Paese?
John Lloyd, nel suo Journalism in an Age of Terror, pubblicato nel 2017 ed edito da Reuters Institute for the Study of Journalism, si pone questi quesiti e ripercorre l’evoluzione dei servizi segreti e dei rapporti col mondo del giornalismo in tre Paesi in particolare: Inghilterra, Francia e Stati Uniti.
Alla base dell’analisi di Lloyd c’è una grande verità: la politica è sempre stata e sempre sarà connessa al mondo del giornalismo. Partendo da questo assunto, Lloyd evidenzia che sin dalla seconda guerra mondiale gli stati si erano dotati di un efficiente sistema di spionaggio: era fondamentale per vincere la guerra. La grande differenza con i servizi segreti odierni è che oggi non sempre la segretezza è garantita. Lo scandalo Watergate, poi la divulgazione dei documenti del Pentagono relativi alla guerra in Vietnam e il più recente scandalo di Wikileaks, a cui è seguito il caso Edward Snowden. Insomma, i governi di tutto il mondo hanno sempre tenuto nascoste certe notizie ai cittadini, e poi, da un momento all’altro, queste notizie sono state gettate in pasto all’opinione pubblica, scatenando ovviamente uno scandalo.
Ma la domanda è: è giusto che le persone sappiano come opera la CIA? È giusto informarli sull’esistenza di programmi di sorveglianza di massa come quelli della NSA (National Security Agency)? Tutto questo non compromette l’efficacia stessa dei servizi segreti? La questione è sicuramente complicata, oggi più che mai. In un’epoca in cui la minaccia del terrorismo e delle armi di distruzione di massa sembra più forte che mai, il confine tra privacy e sicurezza nazionale invece è sempre più labile. Non sono altro che due facce della stessa medaglia: impossibile pretendere una cosa senza essere disposti a rinunciare a un po’ dell’altra. Se i governi devono controllare tutti per sconfiggere la nuova minaccia dell’Isis, allora anche le nostre care conversazioni Whatsapp devono essere sotto l’occhio del grande fratello di Orwell.
John Lloyd nel suo libro cerca di districarsi all’interno di questo mondo così complesso: entrano in gioco tanti fattori e ognuno di essi è importante e merita attenzione. L’obbiettivo dell’autore è far riflettere il lettore su una realtà più che mai attuale, mostrandogli che anche lui è coinvolto in questa trama così oscura. Attraverso estratti di interviste a giornalisti premi Pulitzer come Dana Priest e a ex capi di alcune agenzie di intelligence, Lloyd riesce a trovare un filo conduttore all’interno della problematica e offre così al lettore un’analisi chiara e logica. Il linguaggio che usa è conciso e lineare, il testo è ricco di testimonianze dirette che aiutano a vedere la questione sotto diversi punti di vista. Insomma, lo scrittore ci offre la chiave di lettura di un problema tanto complesso quanto affascinante, ma lascia sempre il pubblico libero di farsi un’idea propria.
Con un ritmo sempre più incalzante Lloyd finisce per insinuare nel lettore la consapevolezza di essere come un cane che si morde la coda: non vuole essere spiato, vuole che la sua privacy sia rispettata, ma al tempo stesso pretende che il governo lo difenda da tutti i mali. E questo perché ha paura, perché nella sua testa risuonano ancora le parole dell’ex Presidente della Repubblica francese François Hollande in seguito agli attentati di Parigi: “Siamo in guerra”.
Simona Rizzo


John Lloyd
Journalism in an Age of Terror
Reuters Institute for the Study of Journalism, London, 2017, pp. 272.
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