Antonio Scurati
Un uomo senza storia
Col nuovo secolo siamo entrati nell’era della cronaca conosciamo soltanto la dimensione del momento
“La Stampa”, 26 agosto 2008
Non cercate un collegamento tra quest’articolo e un fatto di cronaca: non lo ha. Non lo ha per coerenza con la sua tesi di fondo. Il suo tema è, infatti, quella sensazione di vivere in un Paese sfinito che si è impossessata di molti italiani (soprattutto a sinistra) e la sua tesi è la seguente: quando l’orizzonte della storia si riduce a quello della cronaca, allora la vita pubblica si riduce a una patologia inguaribile di lungo decorso. Questa la sindrome da sfinimento civile che ci affligge: alla cronacalizzazione della pubblica opinione corrisponde la cronicizzazione della vita sociale.
Di recente Veltroni ha lamentato la «frenetica bulimia del presente» che cancellerebbe il passato e con esso lo spirito pubblico. Rimpiangendo la «grande storia», ha denunciato la perdita di memoria storica come «grande epidemia del nostro tempo». Ma lo ha fatto con un articolo di giornale impaginato nella cronaca politica. Come dire: roba che dura un giorno (massimo una settimana). La sua eco muore in questo istante, fucilata al muro di un tempo senza tempo (nel senso che ne ha poco, non che ne è fuori). Le sue parole, al pari delle mie (o di quelle di chiunque altro si aggiri da queste parti), rimarranno senza storia. Non sono prognosi, e nemmeno diagnosi. Sono parte del problema, non la sua soluzione.
Il problema è che la cronaca non passa alla storia. Cronaca e storia non sono lo stesso fatto osservato con due ottiche diverse, in campo lungo o in campo corto. Storia e cronaca sono, invece, due diverse direttrici del tempo. La sensazione è che al giro del secolo scorso si sia entrati in una nuova era: l’era della cronaca. Quest’era non coincide con una nuova partizione del tempo ma con una sua nuova forma, non con una diversa porzione di storia ma con un nuovo modo di battere il tempo, diverso dal tempo della storia. Chiunque non segua questo nuovo ritmo, si sentirà un uomo sfinito. Dopo l’11 settembre si è rigettata la profezia della «fine della storia»: gli eventi luttuosi della guerra al terrorismo avevano rimesso in moto quella storia che si credeva finita. Ma forse non erano i contenuti fatidici, gli accadimenti epocali a mancare, forse erano le forme del nostro racconto a mutare. Il modo in cui raccontiamo la realtà sociale tende, infatti, a modificarla: da sempre gli uomini agiscono in forme consone al modo in cui immaginano che la loro storia verrà poi narrata. Gli eroi entrano nella leggenda molto prima di compiere le gesta che li eterneranno. Vivono in vista del memorabile fin dalla nascita. Il tempo del mito è il loro amnio. Ma anche il tempo della storia portava sempre con sé un’aspirazione al compimento, a superare il momento presente verso una fine che ne fosse anche il fine, verso il momento conclusivo e riepilogativo nel quale il protagonista del romanzo, voltandosi indietro, potesse dire: «Dunque è andata così, proprio così. Ecco la mia vita, la mia storia. La storia di tutti».
Una fine che completasse, un fine che compisse, questo è stato il segreto tormento, l’aspirazione violenta, la paura e il desiderio degli uomini al tempo della storia. Con il tempo della cronaca, però, le cose vanno diversamente. La cronaca non conosce compimento, non ne sente la mancanza, la cronaca insiste nel momento. Non ha problemi di consecutio temporum la cronaca. L’unico modo che conosce per umanizzare il tempo facendolo entrare in un racconto è di declinarlo a presente. Quel presente che è nuovissimo con l’ultimo delitto fresco di stampa sul giornale del mattino e già vecchissimo all’ora del crepuscolo mediatico con i programmi delle undici di sera. Per questo la cronaca, gira e rigira, è sempre cronaca nera: un delitto al giorno e ogni giorno un delitto. Cronaca nera o cronaca rosa. Orrore senza fine o banalità ininterrotta. Questa l’alternativa secca.
La cronaca, nera o rosa che sia, non fa romanzo, sebbene il romanzo sempre più si faccia con la materia della cronaca. Mentre la storia colloca ogni singolo accadimento, per quanto apparentemente insignificante, dentro il quadro di un processo più ampio che lo accoglie, lo spiega e lo giustifica, la cronaca lo abbandona a se stesso proibendo che la sua insulsa particolarità venga riscattata da un racconto più grande e, magari, anche da un futuro migliore. I rapporti tra la cronaca e quella forma riparatrice della narrazione umana che è il romanzo sono gli stessi che si potrebbero stabilire tra lo sciocco e l’uomo di genio: il secondo può comprendere il primo ma non vale l’inverso. Proprio per questo, però, il tempo della cronaca prevale su quello della storia. È più elementare, più diretto, più disperato. In una parola, più forte. Mentre il romanziere, il prete, lo statista si affannano a raccattare i frantumi della cronaca per incollarli in un mosaico d’impossibile redenzione, questa non si dà pensiero di essi. Non attende nessuna rivelazione in fondo alla calla nera della ferocia - o al pisciatoio della futilità - l’uomo della cronaca, non alza lo sguardo all’orizzonte. Non gli importa del mondo che verrà. E non si attende nessuna maturità dei tempi.
Il paesaggio che, al tempo della cronaca, si apre dinnanzi all’uomo vissuto nella storia e per la storia è un paesaggio di rovine. Di rovine e di abusi edilizi (che sono poi le rovine del presente). Pensiamo a uno di quei tanti meravigliosi paesaggi storici di cui era fatta l’Italia, quei paesaggi viventi, scolpiti nei secoli dal lavoro dell’uomo. Prima li abbiamo sottoposti a rigidi vincoli conservativi, dichiarati patrimonio dell’umanità e poi abbandonati alla quotidiana erosione dall’assenza di un piano regolatore, di un progetto di sviluppo, di un’idea di futuro e di mondo. Ecco allora che, giorno dopo giorno, scandito dal tempo della cronaca, si svolge il lavoro della decomposizione: qualcuno dipinge di rosso acrilico la sua casetta accanto all’antico campanile, qualcun altro estirpa la vite per piantare una chicas, i più audaci impiegano i teli neri che in inverno proteggevano i limoneti per occultare un bilocale costruito nottetempo. Di questo passo, presto o tardi, tutti ci risvegliamo in una qualunque periferia fatta di squallide scatolette di cemento.
Oppure, non se ne esce. Al tempo della cronaca l’opinione pubblica c’è ma vive di emergenze: il suo è, dunque, un parere del tutto incidentale. In questo tempo d’epocale sconfitta la sinistra dovrebbe intraprendere una «lunga marcia», ma le lunghe marce hanno di necessità il passo della storia. E nessuno riesce più a sostenerlo. In questi tempi di silenziosa erosione non si ode nemmeno più il «lamento della scavatrice» che afflisse l’orecchio di Pasolini nell’Italia del boom economico e della prima, massiccia speculazione edilizia. Non sono più tempi questi di lamentazioni tragiche. La cronaca le ha sostituite con il ronzio di un termitaio in espansione. Un rumore sordo di basso continuo. Questa la colonna sonora delle vite di quelli che, come noi, vivono abusivi nel presente.
*estratto dal sito del quotidiano
"La Stampa" di Torino.
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