La città di Genova, per la sua storia e le sue caratteristiche peculiari, ben si presta a un discorso di confronto culturale. Molti sono gli eventi promossi, a vario titolo e da diverse associazioni, sulla diversità culturale. Merita una segnalazione particolare il progetto “Parole per la città” coordinato dalla Scuola di ricerca civile Don Antonio Balletto, dal Comune di Genova, dalla Fondazione per la cultura- Genova Palazzo Ducale e dal Centro Studi Antonio Balletto. Per il 2009-2010 a Palazzo Ducale è stato organizzato un ciclo di incontri su Le religioni e la salvezza a cura di Gerardo Cunico, dell’Università di Genova con un calendario fitto di appuntamenti e relatori di tutto prestigio: Benedetto Carucci Viterbi, del Collegio Rabbinico di Roma (sull’Ebraismo); Giangiorgio Pasqualotto, dell’Università di Padova (sul Buddismo); Stefano Piano, dell’Università degli studi di Torino (sull’Induismo); Mauro Pesce dell’Università di Bologna (sul Cristianesimo); Angelo Scarabel, dell’Università Cà Foscari di Venezia (sull’Islam); Roberta De Monticelli, dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano (sulla Filosofia). E’ l’epoca moderna e contemporanea che segnala la necessità di riconsiderare i rapporti tra indagine filosofica, scienza e fede al fine di superare le difficoltà che si presentano nel contesto della civiltà presente, soprattutto a proposito del dialogo tra diverse culture e appartenenze religiose.
Questo é l'oggetto degli incontri a Palazzo Ducale, tra l’altro a distanza di un anno dall’incontro del 23 gennaio 2009, sempre a Genova, con Carlos Thiebaut sul tema della tolleranza e dell’ospitalità.
Affrontando il tema dell’interculturalità il filosofo spagnolo ritiene che parlare di tolleranza ed ospitalità, oggi, sembra una mera dichiarazione di intenti che stride in questo presente che stiamo vivendo: non si tratta di immaginare un altro mondo, bensì di pensare questo mondo. Questa riflessione è difficile e dolorosa perché ci spinge a pensarci contro noi stessi. Egli cita Montaigne, i suoi studi sulla diversità dei costumi culturali ed il concetto dell’auto-estraniarsi: mettere in dubbio il nostro pensiero per poterci aprire all’altro e rimetterci in discussione. Secondo Thiebaut “che l’altro esista e che in lui ci si riconosca, introduce un seme di altrità in noi stessi. Di fronte all’altro che riusciamo ad accettare, a riconoscere, noi stessi diventiamo, in parte, altri rispetto a noi stessi”.
D’altra parte, citando Wittgenstein, egli ritiene che occorre valutare volta per volta le situazioni di conflitto tra culture e interpretare quando sono semplici differenze che possiamo ragionevolmente accettare, oppure quando queste risultano delle vere e proprie invasioni che bloccano il principio all’ospitalità. Infine Thiebaut si riferisce a Kant ed esprime la convinzione che il destino dell’Umanità sia quello di progredire verso la cittadinanza cosmopolita e un diritto pubblico dell’Umanità.
Una prospettiva d’analisi differente, ma ugualmente orientata a una visione di correlazione polifonica delle diversità, riguarda la citazione di Carlo Galli nel suo libro L’Umanità multiculturale (Il Mulino, Bologna 2006, pp. 30-31):
“La patria o cultura (a definire la quale noi oggi aggiungeremmo certamente la religione) è un universale concreto e determinato, così che l’interazione fra culture rende l’umanità universale un insieme di particolari (…) un’unità complessa in sé differenziata e articolata, appunto quel fiorire collettivo delle molteplici differenze consonanti alle quali Schiller poteva rivolgere l’invito ad abbracciarsi – “seid umschlungen, Millionen” -, che Beethoven rendeva protagoniste della sinfonia corale, che Hegel (nella Fenomenologia) valorizzava come indispensabili articolazioni dell’infinita ricchezza dello Spirito”.
Rossella Spinaci, nel suo articolo Un nuovo illuminismo? pubblicato in I filosofi e l’Europa Atti del XXXVI Congresso Nazionale di Filosofia della Società Filosofica Italiana a cura di R. Pozzo e M. Sgarbi (Mimesis, Milano-Udine 2009, pp. 317-328), affronta un altro aspetto del confronto interculturale: il dibattito tra J. Habermas e H. Putnam sulla relazione tra valori e norme e quello tra J. Habermas e J. Ratzinger sui presupposti pre-politici dello Stato liberale.
Nell’articolo emerge la posizione di Putnam secondo cui i valori hanno validità universale mentre per il filosofo tedesco tale universalità compete solo alle norme. Quest’ultimo sottolinea che la pretesa del filosofo americano, ad affermare l’oggettività dei valori, mette in pericolo il carattere universalistico dell’etica e la possibilità stessa di una concezione democratica pluralistica.
La verità non è un bene, del quale si possa prendere più o meno possesso, ma un concetto di validità, quindi non si deve cercare di ricondurre ad unità il dissenso che può esistere circa le diverse visioni del mondo: il vero pluralismo deve prevedere la possibilità di un dissenso ragionevole. Infine la riposta alle domande etico-esistenziali (chi sono io, cosa ritengo essere bene e giusto, ecc.) è sempre legata a particolari condizioni culturali e storiche senza poter avanzare, al loro riguardo, nessuna pretesa di validità universale.
In proposito anche Thiebaut, citando Wittgenstein e la metafora della pala, aveva affermato che ciò che accettiamo o rifiutiamo, la stessa categoria di danno, è provvisorio e circostanziato:
“Non si può dire nulla di più a livello teorico, sebbene si possa e si debba dire sempre molto di più per ogni caso concreto – che dobbiamo evitare la presunzione di porre un limite assoluto e fisso a ciò che si può tollerare; ci ricorda solo che non ci sono limiti assoluti ai nostri auto-straniamenti, bensì contingenti, che dipendono dalle nostre ragioni, dalle nostre pratiche”.
La metafora della pala che, scavando nella terra sempre più in profondità, a un certo punto arriva alla roccia e non riesce ad andare oltre, è propedeutica alla domanda: qual è quel punto che segna il limite al nucleo duro della nostra identità, delle nostre certezze e della necessità di ciò che è chiaro e distinto? La risposta è che non è possibile andare oltre a ciò che siamo ed a ciò che facciamo. In altre parole il nostro tessuto sociale: la nostra identità è costituita, secondo il filosofo spagnolo, dalle nostre pratiche sociali. In quanto tale la tolleranza è un prodotto sociale e una contingenza storica.
Habermas, durante il dibattito interculturale Dialogues on Civilization, organizzato da "Reset" nel giugno 2008 presso l’Università Bilgi di Instanbul, si interroga sull’assetto ideale di una società aperta. Rita Baldi, nell’articolo Laicismo e fede: nella tolleranza la ricetta per convivere ("Gazzetta di Parma", 8.11.2008), riprende i temi trattati dal filosofo tedesco: il rapporto tra cultura e religione nella sfera pubblica come problema politico urgente per le nostre società sempre più ideologicamente plurali. La sfida è rintracciare quelle condizioni che permettano alle nostre società di diventare inclusorie equilibrando due diverse esigenze: l’eguaglianza politica e la differenza culturale. E la strada maestra è senza dubbio segnata dalla tolleranza che non è e non può essere solo questione di produzione e applicazione di leggi ma soprattutto una pratica quotidiana.
Su questo tema Carlo Galli ritiene che la cultura debba essere sinonimo di spazio comune, di uno spazio politico non universale né uniforme. Thiebaut, partendo dalla considerazione che la tolleranza debba concretizzarsi in un insieme di diritti e doveri condivisi che ha al centro la libertà di coscienza, riflette sul suo carattere di categoria storica specifica e di insegnamento: percorso ideale a cui tendere in un processo di continuo perfezionamento. In questo senso i dibattiti pubblici e i contrasti culturali dipendono dal grado di consapevolezza socialmente diffuso e dalla pratica quotidiana individuale.
Habermas parla della società post-secolare come di una società in cui avviene una sorta di trasformazione della coscienza pubblica perché “la convinzione laicistica di una prevedibile scomparsa della religione” deve fare i conti con “il persistere di comunità religiose entro un orizzonte sempre più secolarizzato”. Egli ritiene che laicisti e religiosi dovrebbero porsi in ascolto reciproco negli spazi in comune della discussione pubblica:
“Io mi chiedo se un’ipotetica mentalità laicistica della gran massa dei cittadini non finirebbe per essere altrettanto poco desiderabile quanto una deriva fondamentalistica dei cittadini credenti”.
Il filosofo tedesco sottolinea la minaccia di una “modernizzazione aberrante della società presa nel suo complesso” che tende a distruggere il concetto di solidarietà dello Stato democratico. La soluzione non è abbracciare un orientamento religioso ma semmai un confronto con esso. La persistenza della religione rappresenta una sfida cognitiva che la filosofia deve prendere sul serio a patto che, alle convinzioni religiose, venga applicato uno status epistemico non irrazionale. Lo Stato, che riconosce a tutti i cittadini eguali libertà etiche, non può contestare ai cittadini credenti il diritto di esprimersi in lingua religiosa, ma semmai deve esortare questi ultimi a tradurre il contenuto religioso in un linguaggio comprensibile a tutti.
A rappresentare le ragioni del cristianesimo, il Cardinale Ratzinger propone un rapporto correlativo tra ragione e fede nel contesto interculturale della contemporaneità. Infatti il dibattito sui rapporti fra laicità e religione, nelle società occidentali, è reso più vivace dall’intensificarsi del processo migratorio e dalla presenza di una realtà religiosa multiforme. In un articolo de “Il Sole 24 Ore” apparso il 16 maggio 2004 egli riflette proprio sull'interculturalità. Questa è diventata il nuovo spazio pubblico, la dimensione indispensabile, per la discussione intorno alle questioni fondamentali sull'essere uomo che non può più essere condotta né solo all'interno del cristianesimo né solo nell'ambito della tradizione occidentale della ragione. Affinché si possa crescere in un processo di purificazione universale, globale, in cui in ultima istanza i valori e le norme essenziali, conosciuti o riconosciuti da tutti gli uomini, possano conseguire nuova forza d'illuminazione per tenere unito il mondo.
Il concetto di correlazione polifonica delle culture sembra chiarire vecchi dilemmi. Robert Paul Wolff, nel libro Critica della tolleranza (Einaudi, Torino 1968), espone la teoria della funzione indispensabile del gruppo per la formazione della personalità secondo cui l’esistenza di una molteplicità di gruppi di appartenenza è essenziale per l’armonico sviluppo dell’individuo. Il legame emotivo che unisce gli individui appartenenti al gruppo crea processi di immedesimazione ma origina anche l’odio campanilistico, cioè l’intolleranza verso gli altri gruppi. Tuttavia l’alternativa sarebbe “l’uomo-massa: l’atomo senza volto e senza legami della folla solitaria”. La tolleranza è l’alternativa, dunque, all’indiscriminato livellamento di tutte le differenze incoraggiando gli uomini a credere che per la società rappresenti un bene contenere, al proprio interno, molte fedi, razze e culture.
Il fenomeno religioso, con gli incontri organizzati a Genova nel ricordo di Don Antonio Balletto come esempio concreto e tangibile, acquista nuova visibilità pubblica. Il laico deve prendere atto della presenza dell’elemento religioso nel discorso pubblico mentre il religioso deve inevitabilmente misurarsi con le regole laiche della democrazia e con i problemi della tolleranza e convivenza, posti dalla pluralità delle religioni e delle culture. “Il potere arresti il potere” - affermazione di Montesquieu in Esprit des lois (libro XI, cap. IV) - sembra ben esprimere tali preoccupazioni reciproche, dell’uomo di religione e del cittadino razionale.
Credo, riprendendo un articolo di Vannino Chiti Le innovazioni di Ratzinger ("l’Unità", 3.11.2006), che la cultura laica non debba rinunciare a confrontarsi con il pensiero religioso poiché questo escluderebbe la possibilità di affrontare temi e aspetti sul senso della vita di cui, nel nostro tempo, riscopriamo l’importanza. Il concetto di correlazione polifonica delle culture ci ricorda, secondo Rita Baldi nell’articolo Fra Cesare e Dio ("Gazzetta di Parma", 26.10.2005), che ragione secolare e ragione credente non sono le sole voci del mondo: né la religione cristiana né la razionalità occidentale sono esperienze universali. Entrambe si considerano universali ed aspirano ad esserlo anche de iure ma de facto sono accettate solo da una parte dell’umanità.
Infine una riflessione sui concetti di maggioranza e verità poiché non esiste equivalenza tra questi termini e le “maggioranze possono essere cieche o ingiuste. La storia lo dimostra in modo più che evidente è […] il principio di maggioranza lascia pertanto sempre aperta la questione dei fondamenti etici della legge”.
Questo il tema di un altro incontro “Libertà e verità”, tenutosi a Genova il 20 gennaio 2010 presso la Cattedrale di San Lorenzo, nella logica di un’indispensabile dialogo tra ragione credente e presupposti morali dello Stato democratico. In particolare Sergio Belardinelli, Ordinario di Sociologia dei processi culturali dell’Università di Bologna, ha fortemente sottolineato il ragionamento secondo cui, in un ordinamento democratico, la maggioranza decide ma la discussione non può limitarsi all’aspetto procedurale di come questo avvenga o al tema della persuasione e della comunicazione del messaggio per influenzare la maggioranza. La maggioranza decide ma la decisione può essere giusta o sbagliata: ecco l’importanza della verità che non deve ledere la libertà, quindi la verità non può e non deve essere imposta con la forza, pur tuttavia deve essere cercata e proposta nella discussione pubblica.
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