Funerale di Giuseppe Verdi e della moglie Giuseppina Strepponi. Archivio Armus, Genova |
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16 marzo 2011
Verdi, bianchi e rossi, giù le mani da Beppino
Della lunga vita di Giuseppe Verdi se ne fa ormai un largo uso commerciale e politico a buon mercato, l’immenso patrimonio intellettuale non è più tutelato dal diritto d’autore, che decade dopo 70 anni dalla morte. Persino la pubblicistica che riguarda le esequie verdiane lascia perplessi e penso che sia un po’ come rendergli omaggio in questa ricorrenza risorgimentale, soffermarsi e chiarire. Si tratta de “l’ultima scena dell’ultimo atto”, come dice Piero Angela nel suo ”Verdi, una vita straordinaria” (speciale di Superquark, Rai Trade, 2001) per il centenario della morte, che avvenne nell’Hotel Milan, alle 2.50 del 27 gennaio 1901 (nacque nella Cascina delle Roncole in Busseto il 10 ottobre 1813).
E’ noto che la mattina del 30 gennaio il feretro di Verdi, trasportato su un carro funebre “essenziale” così come avrebbe desiderato, fu tumulato provvisoriamente nel cimitero monumentale di Milano in attesa di una definitiva collocazione nella Casa di riposo per musicisti, che per Beppino fu “l’opera più bella”. Contrario ad ogni ostentazione anche postuma, gli toccherà invece di andare al sepolcro nella retorica trionfale preferita dalle autorità.
Circa un mese dopo, il 27 febbraio, le salme di Giuseppe Verdi e della sua dolce Giuseppina Strepponi venivano trasferiti nella sua Casa di riposo. Duecentomila persone parteciparono commosse accennando in coro quasi sussurrando con il cuore “va’ pensiero sull’ali dorate”. Sono certo che in Piero Angela, instancabile divulgatore scientifico, non ci sia stata alcuna volontà di mistificare la memoria e la storia, ma il proto-frammento filmico presentato come scoop nel suo documentario verdiano sembra non trovare riscontro con un altro documento, che appare più pertinente ai fatti. Alla fine del documentario appare per una brevissima sequenza un pomposo carro funebre ridondante di addobbi floreali, al cui seguito si nota qualcuno con un ombrello (da sole?).
Questa è la scena che pare essere smentita da un documento editoriale (Archivio del Museo della Stampa di Genova) che ci mostra un carro funebre imponente e austero, privo di addobbi, dove sono visibili le due bare, poste una sopra l’altra, al cui seguito si notano figure ecclesiastiche, assenti invece nel documento proposto da Angela.
Nel prezioso volumetto di Edoardo Sanguineti Verdi in Technicolor (Il Melangolo, 2001) una descrizione di Bruno Barilli sull’uomo Verdi può meglio rendere l’asciuttezza estetica, non certo musicale, ma sociale, ricercata dal grande compositore: “Se gli avessero portato per le briglie Pegaso, il cavallo dalle ali, egli lo avrebbe attaccato a un aratro o a un qualunque carrettino rurale. Vuole la terra sotto i piedi quest’uomo tetragono, come il toro nel buio della stalla, e il suo occhio cerca nell’ombra la scintilla e la vampa.”. Questo il commento di Sanguineti: “E da una coloritura siffatta, retoricamente ben temperata (“tutto il suo teatro s’identifica con il suo paese d’origine”) che procede un’intiera interpretazione della musica verdiana, con il Trovatore al centro, chiave e nodo assoluto, e invalicabile”.
Sarà al Teatro Apollo di Roma che, con la famosa cabaletta “Di quella pira, l’orrendo foco\ Tutte le fibre m’arse, avvampò!... \Empi spegnetela, o ch’io fra poco\ col sangue vostro la spegnerò”, il 19 gennaio 1853, data memorabile, Verdi volle condividere lo stesso entusiasmo che animò Cavour per il nostro Risorgimento.
Ma se non bastasse questo ad assicurarci gli ideali patriottici di Verdi, sarà il suo carteggio. Nelle sue lettere vi sono infatti diversi passaggi dove egli esprime tutta la sua passione politica. Uno per tutti, quello contenuto nel testo che egli inviò ad Antonio Capecelatro, Napoli (1860): “Vorreste voi che io musicasse un inno, quanto resta ancora all’Eroe in camicia rossa un’ultima tappa da fare? Ohibò! L’inno nazionale devesi intonare sulla veneta laguna, a Napoli e sulle Alpi ad un tempo solo. Ho rifiutato e rifiuterò fin a quel momento di scriverne, e se pure Iddio ci aiuti a spezzare le nostre catene ed io viva tanto da veder quel giorno, sarà il primo e l’ultimo inno di G. Verdi”.
Finiamola dunque di saccheggiare le opere d’arte, Verdi, Beethoven, Buonarroti ecc.
Il sublime “Va’ pensiero, sull’ali dorate...” stravolto in “ va pensiero, al conto deposito...” nello spot di una banca.
La cultura non si mangia, ha detto qualcuno. Ma fa mangiare, evidentemente. Che politici, pubblicitari e compagnia tengano giù le mani dalle Opere di Beppino.
Francesco Pirella
*pubblicato per gentile concessione dell'autore.
*Francesco Pirella è fondatore e direttore di ARMUS Archivio Museo della stampa di Genova.
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