Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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20 giugno 2015

Lo stato del villaggio globale

A una lettura distratta Il mito del villaggio globale di Luciano Ardesi (Edizioni associate) può apparire un’opera anacronistica, ormai fuori dal tempo. Il libro ha infatti il “difetto” di essere stato scritto nel 1992. Una vita fa.
La prima parte si riferisce alle innovazioni tecnologiche dell’epoca, ed è soprattutto qui che si ha la sensazione di leggere un papiro dell’antico Egitto. L’autore cita tra le innovazioni più recenti i compact-disc, supporti in grado di superare la necessità del cartaceo e di integrare diverse forme della comunicazione: orale, scritta e visiva. Possibilità di cui parla con sincero entusiasmo, ma che fanno sorridere il lettore del 2015, per cui i CD fanno ormai parte della preistoria tecnologica. Terminato il primo capitolo è forte la tentazione di interrogarsi sull’utilità di questa lettura oggi. Non aiuta lo stile di scrittura dell’autore, asciutto e a tratti persino piatto. È evidente la volontà di offrire un quadro quanto più preciso del tema affrontato, ma la conseguenza è che alcuni capitoli assomigliano ad elenchi, a tutto svantaggio del coinvolgimento di chi legge. Basta però addentrarsi nelle pagine successive per trovare facilmente diversi spunti di riflessione anche sull’oggi. Spunti che aprono problematiche non risolte nemmeno a più di 20 anni di distanza.
Come si può intuire dal titolo, il filo rosso che lega gli 8 capitoli in cui si dividono le 319 pagine del libro è la critica al “mito” del villaggio globale. Pensatori visionari come Marshall McLuhan (1939-1980) credono ciecamente nella forza emancipatrice dei nuovi mezzi di comunicazione, destinati a connettere i popoli, scavalcare le frontiere e regalare al mondo una democrazia globale. È a questa visione ingenua del futuro che l’autore si oppone, pur riconoscendo le buone intenzioni e l’approccio positivo verso le nuove tecnologie dei “globalisti”. Luciano Ardesi sottolinea più volte come l’uso delle tecnologie non sia conseguenza automatica del progresso scientifico, ma frutto anche di precise scelte politiche. Solo realizzando la democrazia, insomma, è possibile garantire la libertà di informazione e comunicazione, e non viceversa. La disparità nel accesso alle infrastrutture non è dunque sufficiente per spiegare lo squilibrio tra nord e sud nel mondo nel campo della circolazione delle informazioni, pur essendo un elemento di assoluta importanza. Nel secondo dopoguerra il dibattito sulla libertà di informazione era animato dalle diverse necessità dei “3 mondi”. Il mondo occidentale con gli Stati Uniti in testa spingeva per l’assoluta libertà di informazione. Sull’altro fronte della guerra fredda, l’Unione Sovietica sosteneva invece la necessità di far conciliare l’informazione con gli interessi dello stato, quindi di un forte controllo pubblico sui media. I paesi cosiddetti del “terzo mondo” infine contrastavano il concetto di free flow statunitense da un altro punto di vista. L’attenzione di molti di questi paesi era rivolta alla propria identità culturale, minacciata dall’”imperialismo culturale” dell’occidente. Se in alcuni casi questa battaglia è stata un pretesto per difendere regimi illiberali, altre volte il timore di un nuovo colonialismo (fondato, questa volta, sull’egemonia culturale) si è rivelato fondato. I rapporti si sono infatti regolati esclusivamente sui rapporti di forza, e tra nord e sud non è difficile indovinare chi abbia avuto la meglio. Quando Ardesi scriveva queste cose il Muro di Berlino era crollato da 3 anni, e alle speranze seguite alla fine della guerra fredda si affiancavano timidamente i timori di un futuro monopolare, dominato culturalmente dagli Stati Uniti e dall’occidente.
Cosa possiamo dire al riguardo noi, 23 anni dopo? Il crollo del muro di Berlino ha davvero abbattuto tutte le frontiere della comunicazione o abbiamo piuttosto assistito all’imporsi di una sola narrazione del mondo? Un esempio recente credo sia utile per rispondere a questa domanda. Il 7 gennaio 2015 il gruppo terroristico Boko Haram devasta il villaggio di Baga, nel nord della Nigeria. Il gruppo punta alla creazione di un califfato tra Camerun, Nigeria e Chad e successivamente giurerà fedeltà ad al-Baghdadi, leader del più noto Is. L’attacco di Baga è il più sanguinoso della storia di Boko Haram, la BBC parla di 2 mila vittime. I media occidentali hanno però le telecamere puntate a Parigi, dove nelle stesse ore i fratelli Chouachi sterminano la redazione di Charlie Hebdo. Non è però questo il punto, quanto il fatto che gli stessi media nigeriani dedichino più spazio alla strage di Parigi rispetto a quanto accaduto all’interno dei propri confini. In questo tipo di scelta, le motivazioni tecniche si intrecciano con quelle politiche. Baga è infatti poco raggiungibile dai mezzi di comunicazione ed estremamente pericoloso. Mancano quindi le immagini della strage, oltre che una ricostruzione precisa dei fatti, al punto che nemmeno il numero delle vittime è accertato con precisione. Inoltre l’allora presidente Goodluck Jonathan, proveniente dal sud cattolico e accusato di aver abbandonato il nord ai terroristi, teme per le imminenti elezioni presidenziali, che dopo esser state rinviate dal 14 febbraio al 28 marzo lo vedranno effettivamente uscire sconfitto dall’ex dittatore Buhari, musulmano del nord che promette il pugno di ferro contro Boko Haram. Il fatto che in quei giorni i nigeriani abbiano sentito parlare più di Charlie Hebdo che di Boko Haram è indicativo della portata della vittoria della narrazione occidentale, e dimostra la falla della teoria globalista per cui la libertà di comunicazione possa imporsi a prescindere dai contesti nazionali e locali. Inoltre l’ottimismo di questa visione è oggi fortemente minato da alcune conseguenze indesiderate della libertà di informazione offerta da internet, un media che nel 1992 non esisteva, e che quindi non appare nell’analisi di Ardesi. La rete, infatti, non è portatrice solo di messaggi di pace, tolleranza e fratellanza tra i popoli. Al contrario oggi è molto facile imbattersi in siti razzisti, nazisti, fascisti, antisemiti più o meno mascherati, oltre che nella propaganda jihadista di gruppi come lo Stato Islamico. È l’ovvia conseguenza della neutralità di uno strumento che, in quanto neutrale, riflette la natura dei propri utilizzatori. Un assunto che nella sua banalità è stato ed è tuttora ignorato dai tecno-ottimisti più incalliti, che vedono nella rete una forza emancipatrice.
Luca Lottero

Luciano Ardesi
Il mito del villaggio globale. La comunicazione nord-sud
Edizioni associate, Roma, 1992, 364 pp.

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