“Il
giornalismo di guerra fa parte della logica delle cose, è nella natura
dell’uomo, non sta a noi giudicare se le guerre sono giuste o sbagliate,
l’importante è raccontarle e dare ai nostri lettori le ragioni delle due
parti”.
Queste sono le parole dell’inviato speciale del Corriere della Sera Lorenzo Cremonesi da cui Letizia Magnani avvia
la sua riflessione sul giornalismo di guerra, in particolare sul cambiamento
che lo ha permeato negli ultimi venti anni. Le volontà dell’autrice sono chiare
fin dall’inizio: da un lato, vuole capire chi è e che cosa fa il corrispondente
di guerra, com’é il giornalismo visto con gli occhi di fa questo lavoro.
Dall’altro, vuole tentare di comprendere le ultime guerre in relazione dei
diversi media e delle diverse risorse impiegate, e il rapporto fra media e
potere sul tema dell’informazione, della censura e della propaganda. Per farlo,
si avvale delle conversazioni avute con trentatré giornalisti inviati in giro
per l’Italia e del confronto con molti altri giornalisti incontrati nelle
redazioni di testate nazionali e locali. Come è cambiato il loro mestiere? Come
sono cambiate le guerre? Come la società? Dai dati raccolti si desume che si
possa parlare di una specificità del giornalismo di guerra in Italia dai primi
anni Ottanta, quando le redazioni dei giornali iniziano a mandare gli inviati nei
luoghi dove si consumano le crisi internazionali, ad oggi. Questo lasso di
tempo si può suddividere in tre periodi:
· - dal 1979 (guerra
in Afghanistan) o dal 1982 (guerra in Libano): nasce la vera e propria
categoria dei giornalisti di guerra;
· - dal 1989 o dal
1991, con il crollo del muro di Berlino e la guerra del Golfo: in questo
periodo la televisione assume un ruolo preponderante, e il giornalismo classico è costretto a ripensarsi in
forme nuove, prima sotto la pressione del piccolo schermo e poi sotto quella
dei nuovi media, cambiando anche il rapporto fra poteri;
· - dall’11
settembre 2001 a oggi, dove non ci sono più campi di battaglia o dichiarazioni
di guerra, adesso il nemico è il “terrorismo internazionale” in nome del quale
vengono meno gli accordi internazionali,
per cui anche il rapporto tra potere e media cambia. Gli inviati,
secondo la definizione di Ennio Remondino (RAI) durante un’intervista, “sono
sempre più spesso conduttori prestati alla guerra e sempre meno giornalisti che
esercitano il giornalismo del dubbio”, i cosiddetti embedded che seguono le truppe.
Tra
i giornalisti intervistati da Magnani ce ne sono alcuni più anziani, che si
occupavano dei fatti del mondo durante gli anni Ottanta: Bernardo Valli, Ettore
Mo, Mimmo Candito e Roberto Fabiani, Alfredo Passarelli e Ulderico Piernoli.
Altri più giovani, come Claudio Monici, Alberto Negri, Lorenzo Bianchi, Toni
Fontana, Gabriel Bertinetto, Franco di Mare, Ferdinando Pellegrini, Antonio
Ferrari, Lorenzo Cremonesi, Giovanni Botteri, Gian Micalessin, Gabriella
Simoni, Pietro Veronese, Renato Caprile, Franco Maria Piddu, Alberto Bobbio,
Maria Cuffaro, Tiziano Ferrario, Francesco Battistini e Luca Geronico: quasi
tutti hanno iniziato la loro esperienza di inviati di guerra nei primi anni
Ottanta o nel Libano nel 1982 o in Medio Oriente. Altri giornalisti qui
intervistati sono a capo delle redazioni estere, come Gianni Perrelli, Nicola
Lombardozzi e Gianfranco D’Anna. Altri ancora sono anche teorici del mestiere,
come Marco Guidi, Ennio Remondino, Sandro Petrone.
Chi
è il corrispondente di guerra e come lo diventa? Cosa fa il giornalista
proiettato in uno scenario bellico? E ancora: come è cambiato il mestiere
dell'inviato di guerra? E le guerre? Cosa sappiamo davvero dei fronti di guerra?
Quanto e come agisce la censura? Letizia Magnani inizia il suo lavoro con una
premessa metodologica dove espone i metodi, gli strumenti e gli scopi della
ricerca svolta, compresa una bozza di domande di cui si serve come traccia per
condurre le interviste-conversazioni con gli inviati, che verranno poi
declinate in base all’interlocutore. Si passa poi all’esposizione dei temi
oggetto del suo studio attraverso le interviste agli inviati, in primo luogo
l’argomento di chi sia e cosa faccia il giornalista di guerra. Attraverso le testimonianze
riportate emerge una sorta di identikit del giornalista di guerra: egli
registra i fatti del mondo, è il testimone di ciò che accade e riporta i fatti
come notizie, magari “sul tamburo” (Ettore Mo) sceglie le fonti e ne determina
l’attendibilità. Deve essere mosso da curiosità e passione, spirito critico e
consapevolezza dei rischi della professione. Il giornalista di guerra è un
“curioso giramondo, con un pizzico di gusto per l’avventura, una dose di
egocentrismo e una passione per la politica internazionale, mosso dall’insana
ambizione di raccontare storie tristi raggiungendo luoghi da cui la gente
normale preferisce scappare” (Gian Micalessin) che “va là dove le cose accadono
davvero” (Roberto Fabiani) per “capire e per far capire” (Marco Guidi). Il
giornalista racconta ciò che vive, cioè la guerra vera, in maniera più diretta
rispetto a tutto il resto del mondo.
Nel
terzo capitolo viene analizzato il rapporto fra poteri: quello dei media da un
lato e quello della politica e militare dall’altro, con una riflessione su come
agiscono censura e autocensura. Mimmo Candito afferma che si instaura un
rapporto triangolare “fra il giornalista di guerra e la guerra (meglio fra il
giornalismo e la guerra), mettendo come terzo elemento di questo triangolo il
potere, cioè la gestione e il controllo dell’informazione che poi diventa la
notizia nelle mani del giornalista”.
Nel
quarto capitolo l’autrice affronta il problema del modo di fare giornalismo,
quello nuovo e quello vecchio, e il suo rapporto con la storia. Giornalista e
storico, infatti, sono mestieri affini ma al tempo stesso diversi: al centro
del loro lavoro ci sono la comprensione e la narrazione delle storie umane. Ma
lo storico raramente vive la guerra: in genere egli la studia a distanza di
tempo, mentre il giornalista inviato è incollato alla guerra, la segue da
vicino, vive ogni sua vicenda, dunque è parte integrante della storia stessa. Lavora
quando le cose avvengono, mentre avvengono, addirittura a volte muore in esse,
lo storico no; eppure entrambi tentano di comprendere.
Negli
ultimi capitoli, Letizia Magnani analizza altri elementi del nuovo giornalismo,
come i conflitti dimenticati e le donne giornaliste, per poi lasciare spazio
alle esperienze personali dei giornalisti inviati, la cui collezione dà una
visione d’insieme della categoria in Italia. Questi giornalisti non sono “eroi”
né “villani” (Alberto Negri), ma persone curiose, aperte al confronto e alla
ricerca costante.
Il
lavoro di Laura Magnani si conclude riassumendo il concetto preponderante della
sua ricerca: il giornalista di guerra, l’inviato speciale, che si fa testimone
della realtà, indaga, vuole comprendere, non esiste più. Questa figura è
cambiata così come sono cambiate le guerre e la società in generale: il
giornalista non è più da solo a seguire le guerre da vicino, i sistemi
mediatici hanno assunto n ruolo sempre più importante rispetto al singolo; ciononostante
la voce del corrispondente di guerra è vista dall’autrice come una figura
indispensabile per una società democratica, perché può fornire un racconto
soggettivo e preciso. Egli ha un ruolo civile, etico, che è fondamentale nella
società dell’informazione odierna.
Silvia
Marcenaro
Magnani Letizia
C'era una volta la guerra... e chi la raccontava:
da Iraq a Iraq.
Storia di un giornalismo difficile
Edizioni Associate, Roma,
2008, 570 pp.
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