«Il solo
modo per non avere paura, qui, è non pensare. Che è però anche il modo migliore
perché questa
guerra non finisca più. E quindi il vero coraggio, ad Aleppo, è non abituarsi:
avere paura, pensare ». Bahia,
ventiquattro anni, ha le idee chiare e la giornalista se ne è accorta.
È
decisamente un ambiente allucinato e allucinante quello che circonda i
giornalisti che osservano e vivono e
scrivono le guerre. Francesca Borri propone un resoconto senza compromessi di
una terra dilaniata
dalla guerra dal 2011, la Siria. Registra e racconta, in qualità di giornalista
freelance, cinque stagioni (Autunno, Inverno, Primavera, Estate e di nuovo
Autunno) tra il 2012 e il 2013, ad Aleppo. Vive
da vicino questo conflitto, e rimane anche ferita durante uno scontro tra
cecchini che
segue in
diretta e che riporta, con grande lucidità, nel suo resoconto.
Una guerra
“per procura”, come la definisce l’autrice, in cui sono in gioco gli interessi
di un intero popolo
contro gli interessi di pochi, di una Coalizione Nazionale che vuole tenere le
fila dell’opposizione non in Siria bensì dalla Turchia, e con un Esercito
Libero nato da formazioni di ribelli anti-Assad, verso cui la stessa
popolazione civile nutre diffidenza. I ribelli, racconta la giornalista, sono
spesso ventenni in t-shirt e ciabatte che imbracciano un Kalashnikov, e che si aggirano
per Aleppo sulle loro jeep per torturare e a volte giustiziare chiunque sia
sospettato di collusione con il regime. Soprattutto, sono accusati da una parte
della popolazione di aver consegnato il regime agli uomini di Al-Qaeda. Quello
che descrive è quindi un paese diviso: una metà, quella sotto il controllo del
regime, dalla apparente superficie liscia; l’altra metà, ruvida e opaca,
dominata dai ribelli. E i confini tra queste due metà sono terribilmente
sfumati.
Francesca
Borri tenta di far emergere i vari strati della complessa situazione non solo
siriana, ma Mediorientale: una terra, si sa, dove sembra praticamente
impossibile sbrogliare la matassa di culture, religioni e correnti religiose,
mani occidentali che agiscono da lontano e interessi particolari.
È davvero
una «guerra dentro»: non solo quella che penetra l’animo, che fa sgranare gli
occhi e mozza il fiato davanti ai morti, alle atrocità di ospedali bombardati e
ai civili inermi che aspirano alla sopravvivenza, ma anche quella di chi,
decidendo di raccontare un conflitto complesso e polveroso, di difficile
interpretazione, si scontra con le vite di persone comuni coinvolte in una guerra
che sembra non avere un inizio e nemmeno una fine. L’autrice si confronta con
due realtà: quella dei civili, dei militari più o meno improvvisati, e quella
di altri giornalisti, stranieri anche loro, che arrivano talvolta impreparati a
raccontare ai loro lettori un conflitto dai confini incerti, che qualche volta
stentano a capire gli stessi siriani. Reporter che preferiscono i morti alle
analisi, per darli in pasto a telespettatori impressionati, scorci di “vita
vera”, insomma, “un po’ di colore”.
Nel libro
viene messa in risalto la deleteria tendenza dei media alla semplificazione, la
mancanza di approfondimenti
che permettano ai lettori di farsi un’idea di cosa stia succedendo in questa
parte di
mondo, la
nettezza dei giudizi sulla guerra che scaturiscono durante i talk-show e altre
“arene” mediatiche.
La seconda
parte del libro è caratterizzata da toni più appassionati, quasi intimistici,
frutto della riflessione seguita alle terribili vicende vissute durante i mesi
ad Aleppo. L’autrice lamenta, soprattutto, una scarsa collaborazione con gli
altri colleghi, il cinismo che come un veleno inodore penetra nei comportamenti
dei giornalisti, e anche lei sente di esserne coinvolta, suo malgrado.
Ma ci sono
anche fotogiornalisti che svelano con coraggio l’orrore, come il fotoreporter
Alessio Romenzi, il cui reportage dalla Siria pubblicato su Time, racconta
l’autrice, è stato determinante nella sua scelta di conoscere più a fondo cosa
stesse accadendo in questa zona del Vicino Oriente. L’autrice si trova quindi
spalla a spalla con bambini costretti a diventare adulti troppo presto, studenti
che tra un turno al Kalashnikov e l’altro leggono Habermas, con famiglie che
trovano rifugio tra le tombe e insegnanti di inglese che diventano cecchini per
vendicare la propria famiglia. Ognuno di loro ha la propria storia da
raccontare, ma nonostante le condizioni in cui vivono, i siriani non cedono
all’indifferenza nei confronti della realtà politica, si costruiscono una
propria opinione.
E dal
racconto, un po’ si ha l’impressione di sentire i proiettili che si conficcano
sui muri, gli spari, i colpi di
mortai, i raid degli aerei che sfiorano i tetti delle case e liberano il loro
terribile ventre... Per viaggiare fino alla frontiera con la Turchia, che dista
meno di cento chilometri da Aleppo, ci vogliono circa 300 dollari. Eppure,
anche solo attraversare una strada, ad Aleppo, può rivelarsi fatale.
Ci si può
domandare se il fatto che l’autrice sia donna possa averle fatto scrivere in
modo diverso, in modo
forse troppo appassionato, coinvolto. Se anche fosse così, va bene lo stesso.
La sua è una voce, un punto di vista che permette di costruirsi un mosaico
della situazione, di quella guerra vicina e
lontana al tempo stesso, una guerra che quasi ci ha stancato, tanto ne sentiamo
parlare. Infatti se ne parla sempre meno, i nuovi protagonisti sono ragazzi che
uccidono innocenti in nome di Allah nelle pulite città europee.
La voce
delle donne gioca un ruolo non marginale, anche se non vengono prese sempre sul
serio, nemmeno quando condividono le trincee con gli uomini. Però le donne ci
sono eccome nel reportage: Mona e Ghofran, che si avventurano fuori dalla loro
casa in cerca di cibo; Zara, infermiera; Bahia, che, come abbiamo detto
all’inizio, ha le idee chiare; il cecchino “Guevara”, professoressa di inglese
entrata nell’Esercito Libero per vendicare i figlioletti morti in un bombardamento
aereo; o, ancora, Loubna Mrie, attivista alawita (come la famiglia Assad) ma schieratasi
contro il governo.
Il libro
riesce a coniugare bene il racconto dei primi mesi della lunga battaglia di
Aleppo, terminata solo nel dicembre del 2016 con la riconquista della città da
parte delle forze governative, con le riflessioni maturate dall’autrice sul
mestiere del giornalista, un mestiere che per molti è diventato quasi “da
mercenari dello scoop”, l’importante diventa tagliare per primi il traguardo
per avere un posto in prima pagina. Il libro nasce dalle domande che si pone
l’autrice, come cittadina e come giornalista, e che essa pone a chi le sta
davanti, anche ai suoi lettori: «Perché è questa l’unica cosa da
raccontare, di una guerra, il solo pezzo che davvero avrei voluto scrivere
(...): voi che potete, voi
che domani
siete vivi, ma che aspettate? Perché non amate abbastanza?»
Arianna
Barone
Francesca
Borri
La guerra dentro
Bompiani, Milano,
2014, pp. 238.
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