Recensire l’elegante raccolta degli scritti di Grazia Cherchi con lo spirito
irrimediabilmente segnato dalle saette, stilisticamente fulgide e
sardonicamente impietose, con cui si abbatte sui cattivi recensori dal cuore di
servo, significa puntarsi una pistola alla tempia e giocare alla roulette russa
a ogni parola vergata. È un rischio che tuttavia deve essere corso, giacché, al
prezzo, tutto eventuale, di un solo recensore, magari incosciente, ma di
comprovata buona volontà, i lettori appassionati di ieri e di oggi potranno
forse scoprire o riscoprire un tesoro da sfogliare e un’amica da consultare.
La
raccolta, a cura di Roberto Rossi, è una selezione di articoli, recensioni e
interviste che percorrono il quindicinale lavoro che la Cherchi (1937-1995),
una matrona della Repubblica delle Lettere, scrittrice, giornalista e
-soprattutto! - curatrice editoriale, ha svolto per quotidiani, periodici e
riviste. Questi sono presentati in primis secondo argomento e quindi
cronologicamente. Una breve collezione di J’Accuse contro il mondo editoriale,
garbatamente spassosi, deliziosamente crudi, e tragicamente sinceri, apparsi su
Panorama e l’Unità tra il 1985 e il 1992, costituiscono la
gustosa Ouverture dell’opera; le recensioni competenti, sintetiche e briose,
nell’elogio e nella stroncatura, il suo corpo, agile e levigato sino al
dettaglio ; le interviste e i ritratti
il drammatico finale, dove numerosi – ma sempre pochissimi, per la Cherchi- tra
i migliori autori del dopoguerra (tra gli altri Benni, Fortini, Cederna,
Arbosini, oltre al “giovane” Michele Serra), rispondendo a quesiti personali o
stimolanti, come se si fossero accordati tra loro, paiono unanimi nel
descrivere un paese, l’Italia, dove l’intellettuale è, talvolta felicemente,
solo, sono più quelli che scrivono che quelli che leggono, e gli ideali
social-comunisti, di cui pure la Cherchi stessa era fiero alfiere, sono
naufragati.
Sorvolando
sulla prima parte, che andrebbe letta da chiunque non abbia timore di sorridere
ininterrotto per una buona mezz’ora, sulla dimensione fantozziana dell’editoria
nostrana, la Cherchi colpisce per come nelle sue recensioni riesca a combinare
un eloquio elevato e un approccio colloquiale, quasi intimistico. In ogni
“pezzo” in poche righe alle critiche amalgama citazioni forbite a simpatici
aneddoti dal sapore sconsolato a giudizi sferzanti sulla società. Stronca
spesso, più spesso e più volentieri presenta autori che “devono” essere letti.
I suoi criteri di accettabilità sono vertiginosamente alti, come se i libri
consigliati dovessero essere per lettori e lettrici donne e uomini ideali, “per
la vita”, belli, buoni, colti, e svegli, e non si potessero tollerare liaison
con i midcult, l’equivale delle bionde fascinose e un po' oche, o dei
Marcantoni senza cervello.
Nelle
interviste, l’arguzia, l’intelligenza, la vivacità, della Cherchi, fungono da
specchio a quelle dei suoi intervistati, i quali sono quasi tutti,
nient’affatto incidentalmente, suoi fraterni sodali, e illuminano di suggestivi
chiaroscuri la luce inevitabilmente vintage che permea il libro – si chiede
sempre se si scrive a mano, con la macchina di scrivere (!) o col computer.
La
Cherchi riteneva che una recensione dovesse sempre contenere almeno una
citazione del libro in questione, e nell’esprimere ciò cita a sua volta Geno
Pampaloni. E, “oltre alle citazioni”, le sembrava “altrettanto
indispensabile informare sinteticamente (lo spazio è quello che è) sul
contenuto del libro, trama o plot che dir si voglia (la sua assenza dà adito ai
più biechi sospetti: il libro è stato veramente letto da cima a fondo?), Cui
seguirà, ma già dovrebbe emergere dalla trama inframezzata di citazioni, il
giudizio, che sarà, inevitabilmente, impressionistico, dettato dall’intuito,
dal gusto e dall’esperienza: cos’altro mai potrebbe essere?
Il lettore attento si sarà accorto che qui si è fatto l’esatto contrario.
Federico Burlando
Grazia Cherchi
Scompartimento per lettori e taciturni
Articoli, ritratti, interviste
Minimum fax, Roma, 2017, pp. 345.
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