Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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31 gennaio 2011

Libri ri/trovati

Marilisa Merolla
Italia 1961. I media celebrano il Centenario della nazione
Milano, Franco Angeli, 2009, 240 p. (prima edizione 2004)
Scheda
Nel 1961 l’Italia compie cent’anni. Con le Esposizioni di Italia ’61 Torino, città simbolo del miracolo economico nazionale e culla del Risorgimento, per tutto il periodo delle celebrazioni assume il ruolo di capitale dell’Italia dell’oggi e del passato. Attraverso la radio e la televisione di Stato e i cinegiornali, commissionati dalla presidenza del Consiglio dei ministri, tutti gli italiani seguono in diretta la cronaca di Italia ’61. I media informano; ma i media sono anche gli artefici di una memoria comune che offra un’immagine unitaria del paese ai cittadini, ormai cresciuti in coscienza democratica, in benessere materiale e culturale. La grande festa dell’Italia è dunque l’occasione per costruire un mito ufficiale della nazione, tanto più necessario in questa fase di straordinaria trasformazione che taglia così rapidamente tante radici e legami con le tradizioni del passato. Questo libro analizza i connotati e le finalità che la classe dirigente, in particolare i partiti di governo, pongono alla base di questa nuova immagine pubblica dell’Italia del boom. Partendo dalla ricca documentazione sui preparativi di Italia ’61, il cuore della ricerca si sviluppa in un’articolata analisi dei format e dei contenuti che vecchi e nuovi media propongono per dare massima risonanza ai temi delle Esposizioni torinesi: la storia d’Italia, lo sviluppo economico, l’omologazione linguistica e culturale degli italiani. Italia ’61 diventa così un laboratorio che contribuisce in modo decisivo alla formazione di una nuova identità storica, linguistica e territoriale degli italiani basata su valori democratici.
*link all'Indice del libro.

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30 gennaio 2011

Il giornale gode di buona salute


Nell’ epoca di internet, rete che in teoria soddisfa qualsiasi tipo di curiosità, come mai la stampa quotidiana continua a vivere? La risposta a questa domanda può essere duplice. Come suggerisce il professor Mario Bottaro nel suo libro Nascita, vita e morte della notizia il ruolo del giornalista sta nel selezionare, proporre, contestualizzare ma soprattutto garantire come autentiche le informazioni pubblicate. Insomma il giornalista è il vero e proprio garante di ciò che appare sui quotidiani quindi il lettore riporrà in lui estrema fiducia. Altra motivazione, forse ancora più significativa della prima, viene da Nicola Graziani che, con il suo libro Un anno in prima pagina, dimostra come il buon giornalismo possa ancora segnare le tappe importanti della storia e come gli articoli, quelli di qualità, possano rimanere ben impressi nella memoria della gente.
Ebbene sì, Nicola Graziani, con quarantuno articoli che raccolgono il meglio del giornalismo italiano dall’estate 2009 all’anno appena concluso, testimonia che nonostante la crisi che sta attraversando, la stampa è ancora in grado di innovare se stessa e, grazie a grandi professionisti, appassionare il lettori. E’ la testimonianza che internet e i nuovi media ancora non sono stati in grado di distruggere la carta stampata e che forse, con un po’ di umiltà e impegno da parte dei giornalisti stessi, il giornale potrebbe tornare in auge come ai tempi in cui era l’unica vera fonte di informazione.
Nicola Graziani nella sua raccolta prende ad esempio il giornalismo americano, mettendo insieme con un’operazione di osmosi, gli articoli di cronaca, le inchieste, i reportage, i coccodrilli che per lui hanno svolto un ruolo importante nell’anno appena trascorso. Riesce a compiere questa operazione con estremo equilibrio accostando grandi firme del giornalismo italiano come Ezio Mauro o Ettore Mo a giornalisti forse meno noti, ma non per questo meno bravi, come Andrea Galli che con un pezzo toccante come La Milano normale in fila per il metadone illustra un problema molto diffuso ma troppo spesso trascurato in Italia come la dipendenza da cocaina ed eroina da parte di quella fetta di popolazione definita”normale”, spesso facoltosa, ma che convive da anni col problema della droga e che senza dosi di metadone non riesce ad andare avanti.
Sicuramente Graziani nel suo libro punta a mettere in luce quei fatti che hanno caratterizzato l’anno della svolta epocale, dove accade tutto e anche di più, dalla crisi economica a quella politica forse nata proprio dall’episodio del lancio della statuetta a Silvio Berlusconi in Piazza Duomo a Milano. Lo racconta Stefano Folli sul Sole 24 ore con il suo articolo Non è mai troppo tardi dove si domanda se la politica, tutta insieme, sia in grado di capire che un sistema paralizzato in cui cova la violenza è destinato a produrre disastri. E dove constata che il Presidente del Consiglio uscirà più saldo di prima da questa vicenda, per ragioni più emotive che politiche, ma senza dubbio rafforzato dal punto di vista mediatico.
E allora quali le scelte da fare per l’opposizione dal momento che Berlusconi, attento comunicatore, utilizzerà l’incidente per ingraziarsi le masse? Forse ricominciare da capo, con riforme che costituiscano un reale terreno di confronto, restituendo civiltà e dignità al dibattito.
L’autore decide di parlare di un altro fatto, il più catastrofico, un disastro senza eguali: il terremoto in Abruzzo, al quale dedica ben due articoli: il primo, l’inchiesta di Primo Di Nicola per l’Espresso, nel quale stila un bilancio a dieci mesi dal sisma che ha distrutto l’Aquila. In disaccordo con la soddisfazione del governo che ha fatto credere di aver compiuto il miracolo nella città terremotata, Di Nicola parla di cifre decisamente preoccupanti: 40.000 gli sfollati ancora senza una casa e mantenuti con denaro pubblico; macerie ancora da rimuovere che non permettono la prosecuzione dei lavori di ricostruzione e, non ultimo, l’emergenza ambientale del fiume Aeterno, nel quale ora la Protezione civile permette lo scarico di fogne non depurate del Progetto Case. Il secondo articolo, l’ultimo del libro, è anche il più toccante. A scriverlo è un giornalista del Centro, ma soprattutto un padre che ha perso i suoi due bimbi sotto le macerie quella tragica notte del 6 aprile 2009. Notte in cui l’"orrendo scossone" ha distrutto la sua famiglia, la sua gente, la sua città, la sua vita. Il racconto, ricco di particolari così veri, di odori e sensazioni fanno si che il lettore si immedesimi nella storia, nella tragedia di quell’ uomo che come molti altri, quella notte ha perso la voglia di vivere e di andare avanti.
Questa raccolta di Graziani comprende anche argomenti più leggeri come il necrologio di Michele Serra per Raimondo Vianello, nel quale lo descrive come Un borghese in tv , un uomo, dalla comicità "inglese" nella forma ma italiana per i contenuti, dichiaratamente di destra, ma non per banali collocazioni partitiche, di destra per quel cinismo sorridente, quella scherzosa sfiducia nel progresso umano, insomma quel pessimismo che è diventato l’ arma della sua comicità. Un comico, un artista appartenente a quella generazione che, dopo la guerra aveva ancora voglia di vivere e di ridere. Uno che, come i comici di allora, e a differenza di quelli contemporanei, aveva un suo stile e che proprio per questo, ci mancherà.
E poi ancora il Profilo ragionato di Lionel Messi di Beppe Di Corrado per Il Foglio dove il grande campione viene paragonato a Maradona, con la differenza che quest’ultimo giocava per divertire; Leo invece, non vuole divertire ma solo fare gol, vincere. Sempre per parlare di calcio, la delusione dell’ultimo mondiale in Sudafrica, l’Italia fatta fuori dal girone in men’ che non si dica, la fine di una favola, di un mito, del grande Marcello Lippi che solo pochi anni prima ci aveva fatti tutti sognare ad occhi aperti.
Ed ecco che la stampa, il giornalismo, quello bello, quello che "carta canta", rimane ben impresso nella testa della gente, e chissà che qualcuno, la prima pagina della Gazzetta dello sport del giorno dopo la vittoria del mondiale del 2006 non l’abbia incorniciata ed appesa in casa.
Francesca De Mattei


Nicola Graziani
Un anno in prima pagina.
Il meglio del giornalismo italiano degli ultimi dodici mesi
Roma, Editore Nutrimenti, Roma, 2010, 187 p.
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29 gennaio 2011

Gli specchi della memoria

La fotografia è uno strumento che consente di conservare la memoria, di documentare eventi e di rimanere sempre uguale a se stessa, pur essendo soggetta ad interpretazioni personali.
L’utilità e gli obiettivi della fotografia delle origini sono stati snaturati dal fiume visivo che invade quotidianamente tutti i media e che rende i fruitori sempre più insensibili ed incapaci di cogliere le sfumature di significato più profonde.
Allo stesso tempo, però, le immagini sono capaci di suscitare emozioni, di svelare inganni e di crearli, di racchiudere al loro interno una serie di implicazioni che il destinatario non sempre riesce a spiegarsi.
Il fotogiornalismo nasce all’interno di una società non ancora avvezza all’uso delle immagini, soprattutto se accompagnate ad un testo scritto. La diffidenza nei confronti della fotogiornalismo è stata, in alcuni casi, deleteria per lo sviluppo della materia e il lavoro dei professionisti di questo settore è stato spesso disprezzato o sottovalutato.
Lo sviluppo del fotogiornalismo non è stato però uguale dappertutto; i centri nevralgici per lo sviluppo della fotografia e per i futuri fotogiornalisti negli anni ‘30, sono stati soprattutto la Francia e la Germania.
Gli Stati Uniti, invece, si sono serviti della professionalità degli stessi fotogiornalisti europei, soprattutto durante la seconda guerra mondiale, per sperimentare la funzione delle immagini all’interno delle redazioni giornalistiche, come nel caso del settimanale Life.
Diversamente dalle nazioni citate, in Italia l’attività del fotogiornalismo attecchisce tardivamente e diventa centrale soprattutto negli anni della nascita dei grandi settimanali. Infatti, lo sviluppo del fotogiornalismo e quello dei settimanali vanno in un certo senso di pari passo; questo tipo di pubblicazione nasce come approfondimento e viene aiutato proprio dal fotogiornalismo a sviluppare nuove tematiche, contribuendo alla crescita dei lettori e delle testate.
La figura del tutto innovativa del fotogiornalista inizia ad essere fondamentale all’interno delle redazioni e svolge un’attività del tutto nuova, a cui vengono commissionati reportage e servizi fotografici per ampliare l’offerta del prodotto editoriale. Alcune testate si fanno grandi anche grazie al lavoro eccelso di alcuni fotogiornalisti, capaci di immortalare scene suggestive provenienti da ogni parte del mondo.
Le biografie di alcuni dei più importanti reporter del mondo, fanno capire come siano necessarie l’esperienza e la professionalità per comprendere l’importanza di scattare delle fotografie, che avranno poi la responsabilità di mostrare ai posteri le realtà del passato o quelle geograficamente lontane.
Gli aspetti tecnici e gli strumenti utilizzati per produrre le immagini risultano di grande essenzialità, soprattutto per la qualità e lo sviluppo della professione.
In questo periodo, il fotogiornalismo vive una stagione non troppo felice, perché non viene più riconosciuto al professionista di questo mestiere e al suo lavoro un ruolo primario nelle redazioni e soprattutto non si dedica più alla fotografia d’autore uno spazio privilegiato.
Neri Fatigati nel suo libro Il mestiere di vedere parte dalla storia della fotografia ricordandoci che lo sviluppo delle prime strumentazioni di riproduzione dell’immagine viene fatto risalire ai tempi di Aristotele, per poi passare al genio di Leonardo da Vinci e alla sua invenzione della camera obscura. Il problema del fissaggio delle immagini fu risolto, invece, da Niépce insieme al francese Daguerre nei primi dell’800. La storia della fotografia si avvale anche di nomi come quello dei noti fratelli Lumiere, di Talbot e di George Eastman, fondatore della Kodak.
La fotografia suscitò molti dibattiti riguardanti il suo uso e accese polemiche sul suo rapporto con l’arte. Infatti, molti pittori e letterati come Baudelaire, Barthes , Zola, Degas si interessarono alla fotografia, accostandola a stili pittorici e della scrittura come l’impressionismo e il naturalismo. Nel contesto della definizione di un linguaggio per la fotografia, nacque anche la corrente del pictorialism, tendenza artistica che cercava a tutti costi per la fotografia un riconoscimento culturale. Negli anni ’30 si sviluppò la corrente della straight photography, che sperimentava una fotografia pura, diretta, teorizzata da Alfred Stieglitz e praticata da Paul Strand. Alcuni nomi come Edward Weston e Ansel Adams hanno contribuito in maniera massiccia alla crescita del linguaggio fotografico. The Family of Man è l’opera fotografica di Edward Steichen del 1955 che fa parte della corrente della concerned photography (fotografia impegnata), ed ha come scopo quello di mostrare l’espressività della fotografia.
Nel secondo e nel terzo capitolo del suo libro Neri Fadigati ripercorre in breve la storia del fotogiornalismo internazionale, accennando a fotografi come Jacob A. Riis, e Lewis W.Hine. La nascita del fotogiornalismo si deve a fotografi internazionali come Erich Salomon, Felix H. Man e Stefan Lorant. L’esperienza del setimanale Life fu invece iniziata da Henry R. Luce, anche co-fondatore di Time; lo stesso Fadigati ammette che “queste riviste segnarono profondamente la trasformazione sociale che nel secolo scorso portò al formarsi della società di massa e del moderno sistema della comunicazione”. Il settimanale puntò molto sul fotogiornalismo, servendosi dei rappresentanti del fotogiornalismo mondiale come André Kertész, Robert Capa e W.E. Smith, di cui poi descrive anche la vita avventurosa e le numerose collaborazioni. L’autore si sofferma anche su brevi biografie di altri fotogiornalisti come Alfred Eisenstaed, W. Eugene Smith e Margareth Bourke-White, una delle prime donne ad affrontare il mestiere. Degno di menzione è anche il gruppo parigino composto da David Seymour, Robert Capa ed Henri Cartier-Bresson, fondatori nel 1937 di una delle prime agenzie fotografiche al livello mondiale, la Magnum Photos, tutt’oggi ancora in attività. Le vite di questi fotogiornalisti sono accomunate dalla voglia di documentare scene della vita reale, come le guerre mondiali, che in quegli anni affliggevano l’Europa; si spostavano come vagabondi, a volte al seguito delle truppe e catturavano alcune delle immagini che hanno poi fatto storia, mostrando a tutto il mondo gli orrori della guerra, la povertà, le macerie secondo un loro personale punto di vista. Alcuni di loro hanno pagato con la propria vita questa volontà di ritrarre la realtà in tutta la sua crudezza, ma il loro ricordo vive in quelle che sono considerate dei veri e propri “specchi della memoria” e cioè le loro foto.
Lo sviluppo del fotogiornalismo italiano è ampiamente trattato nei capitoli quarto e quinto. Fadigati riprende lo sviluppo storico-tecnico della fotografia italiana, per poi passare alla nascita dei rotocalchi partendo da Omnibus e Tempo, che lanciarono il modello del rotocalco puntando sulla i due fotografia sociale riscuotendo grande successo di pubblico.
Omnibus è il settimanale di Leo Longanesi, che usava la fotografia a fini espressivi o satirico-polemici; Tempo edito da Arnoldo Mondadori, ebbe un interesse straordinario per i “fototesti” e soprattutto fu il primo rotocalco ad usare regolarmente immagini a colori. Tra i fotogiornalisti che collaboravano con Tempo, ci fu Federico Patellano, comunemente considerato il padre del fotogiornalismo italiano, il quale viaggiò per tutta Italia, documentando la ricostruzione post- bellica e la situazione meridionale, e poi, una volta diventato free-lance, girò tutto il mondo con il figlio Aldo.
Elio Vittorini, invece, ha il merito di aver fatto conoscere in Italia i lavori dei maestri americani della fotografia e di averla introdotta nel linguaggio culturale italiano. Lo scrittore pubblicò un suo articolo sul settimanale Cinema nuovo, che introdusse in Italia i “foto documentari” e alternava immagini di set cinematografici ai ritratti dei divi più in voga.
Fadigati svela anche l’etimologia della parola inflazionata “paparazzo”, che si presuppone sia il soprannome dato al fotoreporter Tazio Secchiaroli, sempre in cerca di qualche personaggio famoso da cogliere in flagrante.
Nel secondo dopoguerra si fece strada un nuovo tipo di settimanali, più interessati ad un certo tipo di target e anche più inclini a trattare tematiche sociali legate alle rivoluzioni sociali in atto soprattutto negli anni ’60. Epoca fu il più importante tra quei rotocalchi perché segnò una svolta all’interno del fotogiornalismo italiano. Infatti, si occupò di molti eventi storici come la ricostruzione post-bellica, la guerra nel Vietnam, grandi servizi monografici sull’Africa, la vicenda di J.F. Kennedy. Il merito di Epoca fu quello di aver trovato una buona sintonia con i suoi lettori e di seguire con abilità vari tipi di tematiche, da quelle più impegnate a quelle più frivole, allargando il target dei suoi lettori abituali. Fadigati passa poi in rassegna le diverse modalità di raccontare l’alluvione del 1966 su tutti i rotocalchi già citati, aggiungendone altri, tra cui L’Espresso, Specchio, l’Europeo e la Domenica del Corriere.
Nel sesto capitolo l’autore affronta la tematica relativa alla fotografia e il suo rapporto con la comunicazione, offrendo scenari futuri sullo sviluppo del fotogiornalismo. Nella sezione dedicata all’appendice troviamo anche consigli pratici per l’uso corretto della macchina fotografica e delle note per un corso di fotografia.
Nel suo complesso il libro di Neri Fatigati è scritto con uno stile semplice e di immediata comprensione, anche se di tanto in tanto, sono presenti degli errori di stampa. L’argomento è trattato con coerenza e linearità, ma forse sarebbe stata utile la presenza di molte più fotografie ed immagini, vista la tematica affrontata; infatti, il lettore dovrebbe ritrovare un riscontro tra la descrizione delle opere e le immagini, per poter apprezzare tutti gli autori citati nella loro interezza e poter offrire un proprio punto di vista sulle opere. La disamina degli autori può sembrare a volte solo un lungo elenco di nomi, ma si pone come necessità per la trattazione generale dell’argomento; il libro è, quindi, solo un’introduzione della materia e rappresenta solo uno spunto per l’approfondimento sul tema del fotogiornalismo e dei suoi esponenti.
Francesca Moramarco

Neri Fadigati
Il mestiere dei vedere. Introduzione al fotogiornalismo.
Pisa, Plus, Pisa University Press, 2009, 182 pp.
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27 gennaio 2011

Giornata della Memoria

Frédéric Rousseau
Il bambino di Varsavia. Storia di una fotografia
Roma-Bari, Laterza, 2011, 224 pp.

Scheda
Sfocata, travestita, abusata, stravolta: quanto conosciamo l'immagine del bambino di Varsavia? Quanti sanno che la foto è tratta da un Rapporto delle SS tedesche del 1943 il cui intento era quello di documentare l'efficacia della repressione della rivolta e la conseguente distruzione del Ghetto di Varsavia? «La riproduzione sfrenata di quella icona non rischia di sfocare la testimonianza così essenziale del piccolo messaggero di Varsavia?» È quanto si chiede Frédéric Rousseau nell'introduzione [leggi tutto sul sito dell'editore Laterza in cui è possibile consultare una sequenza di immagini  contenute nel libro].
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26 gennaio 2011

Il critico teatrale ed il suo ruolo


Per comprendere quale sia il senso profondo del libro di Massimo Marino è sufficiente leggere l'intestazione del primo capitolo (Che cos'è la critica teatrale?) ed il titolo dell'ultimo paragrafo (Contraddizioni e consigli per non concludere). Difatti l'ampia trattazione si infrange, con la piena consapevolezza dell'autore è bene dirlo subito, contro l'impossibilità di una definizione in qualche modo univoca di cosa sia oggi il teatro, e quindi di quale sia il ruolo del critico contemporaneo.
È meglio però procedere con ordine. Il libro di Marino nasce, come denuncia il sottotitolo, dall'esperienza pratica dei laboratori di critica teatrale condotti dall'autore stesso presso il Cimes dell'Università di Bologna. E l'esperienza laboratoriale è ben presente nel filo conduttore della trattazione; non tanto nelle esercitazioni consigliate al termine di ciascun capitolo, ma nella precisa ed evidente definizione del pubblico a cui è destinata l'opera. Vale a dire studenti universitari provvisti di conoscenze di base della storia e dei linguaggi teatrali. Difatti, seppure è vero che la prima parte del libro costituisce una rapida panoramica del teatro novecentesco, è altrettanto vero che questa stessa trattazione risulta poco comprensibile senza conoscenze pregresse. Da notare inoltre come il punto di vista di Marino sia sempre quello del critico. Le evoluzioni teatrali del '900 sono raccontate attraverso lo sguardo dei critici del tempo; egli difatti raccoglie e mette in relazione pensieri e riflessioni di alcuni dei più importanti, e preparati, critici italiani (Silvio D'Amico, Roberto De Monticelli, Franco Quadri, Oliviero Ponte di Pino, ecc.). Attraverso essi l'autore riepiloga per sommi capi la morte del grande attore ottocentesco e la nascita, il declino e gli attuali tentativi di superamento del teatro di regia. Questo perché non è possibile oggi scrivere di teatro senza conoscere i percorsi complessi, variegati e spesso contraddittori dei differenti gruppi di ricerca oggi presenti in Italia.
Venendo ora all'argomento principale del libro, vale a dire chi sia il critico teatrale e quale sia il suo ruolo attuale, bisogna subito notare come Marino affronti l'argomento facendo dialogare diverse posizioni senza prendere posizione tra esse.
Per prima cosa egli pone il fondamento della critica teatrale nella sequenza di due atti ben distinti tra loro, lo sguardo e la scrittura. Entrambi i momenti vengono analizzati con dovizia di particolari e citazioni guardando sia al passato sia al presente. Il momento della scrittura viene analizzato inoltre in rapporto al mezzo per il quale l'articolo è destinato, sia un quotidiano o un settimanale specializzato, una radio o una pagina di internet.
A proposito degli stili di scrittura e delle capacità della critica di scavare nelle profondità artistiche del teatro contemporaneo, Marino propone il raffronto tra diversi articoli intorno all'episodio R.#7 della Tragedia endogonidia della Societas Raffaello Sanzio (forse la compagnia di ricerca più radicale attualmente in Italia). Attraverso gli esempi proposti di Marino risulta del tutto evidente come la conoscenza del percorso del gruppo (in particolare qui dell'intero ciclo) o del singolo artista siano oggi elementi imprescindibili per una corretta e puntuale critica teatrale. È pur vero che la Tragedia endogonidia costituisce un esempio estremo, e forse per questo scelto da Marino, ma è altrettanto vero che nella maggior parte dei casi il teatro che esula dagli stilemi dominanti risulta incomprensibile a chi non è preparato (sia esso critico o pubblico).
E davanti ad un teatro del genere, ma anche ad opere decisamente più comprensibili e tradizionali, quale deve essere il ruolo del critico? Deve essere la voce di un ipotetico spettatore medio? Deve limitarsi a raccontare e spiegare quello che ha visto? Deve essere un severo censore al servizio di uno stile, di un metodo o di un'ideologia? O altro ancora? Ed è proprio la ricerca della risposta a queste domande a costituire l'ossatura del libro in questione. Ma Marino, pur affermando dalla prima all'ultima pagina la necessità di superare gli stanchi e ripetitivi stilemi teatrali dominanti, non propone una sua risposta. Il compito che si è prefisso è quello di porre questioni, non di dare soluzioni. Forse perché non vuole proporre/imporre il proprio punto di vista, o forse perché, dopo tanti anni di carriera, queste risposte lui non le possiede. Comunque è questo al tempo stesso il pregio ed il limite del libro. Anche perché chiunque si cimenti nella difficile arte di scrivere di teatro dovrebbe almeno tentare di rispondere a quesiti così importanti. Con la consapevolezza della precarietà della scelta, del rischio dell'errore e quindi della possibilità di cambiare rotta. Ma Marino, forse travolto dalle estreme sfaccettature della scena contemporanea, decide di non porre sufficiente in risalto (nel libro mai la questione viene posta come dirimente per il futuro critico) quello che è invece un semplice dovere di onestà intellettuale personale.
Andrea Scarel


Massimo Marino
Lo sguardo che racconta. Un laboratorio di critica teatrale

Roma, Carocci, 2006, pp. 185
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25 gennaio 2011

Scaffale amico

Luca Rolandi
Gian Paolo Brizio. La politica al servizio del territorio
Torino, Effatà Editrice, 2010, 160 p.
Scheda
Gian Paolo Brizio (1929-2008) è stato uno stimato amministratore pubblico attento alle esigenze del territorio e della comunità civile. Un democratico cristiano non elitario ma popolare, ispirato a valori alti e durevoli per la realizzazione di un’azione civica volta al bene comune. Maestro e formatore, ha lavorato sempre con dedizione, onestà e competenza nella sua azione politica esplicata in modo efficace negli anni come sindaco di Ciriè, consigliere provinciale e regionale, assessore nella giunta di Vittorio Beltrami e, infine, Presidente della Regione Piemonte dal 1990 al 1995. Amico e collaboratore di Carlo Donat-Cattin, con il quale ha condiviso ideali politici all’interno della Democrazia Cristiana, Brizio ha portato in dote nella attività amministrativa conoscenza e virtù: nella programmazione economica, la redistribuzione di competenze e ruoli negli enti decentrati, la pianificazione urbanistica e i grandi progetti infrastrutturali del Piemonte, un territorio fondamentale per l’economia e la politica dell’Italia.
Luca Rolandi, torinese di nascita e genovese di formazione, vive nel capoluogo piemontese. Giornalista professionista e dottore di ricerca in storia sociale e religiosa, è autore di saggi su personaggi e vicende del movimento cattolico in Italia. Ha lavorato nelle redazioni di «La Stampa», «Il Secolo XIX» e in Rai. Si occupa di uffici stampa istituzionali e culturali e del coordinamento della comunicazione on line di grandi eventi, tra le esperienze più significative i Giochi Olimpici invernali di Torino. Per Effatà Editrice è autore di Testimoni del Concilio (2006).
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24 gennaio 2011

Anita Ginella Capini
Gabriele D'annunzio il "Genovese"
Genova, De Ferrari, 2010 
Scheda

Gabriele d’Annunzio dichiara di volersi firmare “genovese”: ciò offre lo spunto per soffermarsi sui rapporti del poeta con Genova e con l’élite intellettuale ligure, in controluce a episodi importanti, inediti e talvolta scabrosi di una vita intesa come un’opera d’arte. D’Annunzio è tratteggiato con simpatia e ironia come il campione di una nazione nuova, effervescente e creativa, intenta al difficile decollo post unitario e “travolta dal trauma bellico”. Lo si insegue a Genova dai primi soggiorni amorosi o legati all’impegno teatrale con Eleonora Duse a quelli che precedono i cinque anni di volontario esilio francese; dal ritorno trionfale del “maggio radioso”, prodromo dell’ingresso in guerra dell’Italia, fino all’epilogo stravagante e paranormale dei messaggi dall’al di là raccolti da una medium cittadina.
*segnalato da C.S.
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L'anello mancante.

Andrea Pogliano, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Ricerca Sociale dell'Università del Piemonte Orientale, ci accompagna in un percorso osservativo che si snoda all'interno di quattro redazioni giornalistiche molto differenti tra loro ("Manifesto", "Corriere della Sera", "Libération", "Le Figarò"); pone al centro dell'attenzione sociologica il fotogiornalismo, al fine di comprendere meccanismi e criteri professionali che sottostanno alla selezione/produzione di foto-notizie nel giornalismo quotidiano.
Secondo l'autore infatti, punto di partenza imprescindibile è il fatto che i lavori etnografici che hanno portato la comunità scientifica alla consapevolezza che le notizie siano “prodotti industriali soggetti a certe costanti, frutto di un insieme di routine organizzative calate in un contesto di negoziazione del potere, la cui posta in gioco sono concrete rappresentazioni”, pur nelle loro differenze di orientamento e punti di vista, hanno comunque un punto in comune: non considerano la fotografia come un oggetto rilevante nella produzione delle notizie giornalistiche.
Dopo una panoramica sulla sociologia della produzione delle notizie (il newsmaking), mediante studi principalmente francesi ed anglosassoni che ripercorrono il percorso dal gatekeeping – inteso come decisione individuale nel processo di selezione delle notizie – fino ad arrivare al vero e proprio newsmaking visuale, Pogliano compie una sorta di “etnografia dell'organizzazione redazionale” servendosi di interviste fatte direttamente ai fotogiornalisti, ma anche “sul campo” ad archivisti, art director, photoeditor e giornalisti grafici; tutte quelle competenze che all'interno di una redazione hanno il compito della “messa in pagina” delle fotografie e che a seconda degli strumenti a disposizione, della divisione del lavoro interna, delle gerarchie e dei giochi di potere redazionali e decisionali costituiscono il contesto umano e tecnologico che determina il cosiddetto setting delle “immagini delle notizie”.
Il libro è condito da un linguaggio che forse potrà apparire difficile ai “non addetti ai lavori” e a chi non abbia familiarità con gli studi sociologici sull'informazione (e questo potrebbe essere un limite di questo libro), ma gli fa da contraltare lo spazio dedicato ad esempi di fotografie relative ad eventi noti (Abu Ghraib, uragano di New Orleans, attentato di Londra) molto “efficaci per analizzare certi problemi nodali del giornalismo a stampa e al tempo stesso nel ridefinire il significato della fotografia giornalistica in un epoca dominata dai media elettronici”.
In definitiva un lavoro che mancava, che si propone di dare autonomia al newsmaking visuale e che finalmente ci svela i meccanismi e i “rituali strategici” che conducono alla scelta e alla messa in pagina della fotografia giornalistica.
Riccardo Marini



Andrea Pogliano
Le immagini delle notizie.
Sociologia del fotogiornalismo
Milano, Edizioni Unicopli, 2009, 208 pp.





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23 gennaio 2011

La parola ascoltata

Lectio Magistralis di Roberto Saviano
Università degli studi di Genova, 22 gennaio 2011
[estratto da "Repubblica", 23 gennaio 2011]
"È difficilissimo in questa fase storica italiana parlare al grande pubblico di come la parola possa contrastare un potere fatto di grandi capitali, di eversione, di forza militare, di grandi investimenti internazionali. Ogni volta che mi trovo a parlare nelle università piuttosto che in tv, c'è sempre dell'incredulità: come è possibile che lobby così potenti possano avere paura della parola?
In realtà forse la dinamica è un po' più complessa. Non è la parola in sé, scritta, pronunciata, dichiarata, ripresa, quella che fa paura. È la parola ascoltata, sono le persone che ascoltano e che fanno di quella parola le proprie parole. È questo che incute timore alle organizzazioni criminali. Paura che non riguarda semplicemente la repressione, loro la mettono in conto, come mettono in conto il carcere. Ma quasi mai mettono in conto l'attenzione nazionale e internazionale. Che poi significa semplicemente una cosa: significa dire che queste storie non riguardano solo gli addetti ai lavori, i politici locali, i magistrati, i cronisti, ma riguardano anche noi. Quelle storie sono le nostre storie, quel problema è il nostro problema, e va risolto perché è come risolvere la nostra stessa esistenza.
Raccontare è parte necessaria e fondamentale del diritto. Non raccontare è come mettere in discussione il diritto. Può sembrare un pensiero astratto ma quando si entra in conflitto con le organizzazioni, il loro potere, il loro modo di fare, allora si inizia a capire. E si capisce perché, non solo in Italia, c'è chi investe energie e interviene non sul racconto delle cose, ma su chi le racconta. Come se il narratore fosse responsabile dei fatti che sta narrando. Si invita per esempio a non raccontare l'emergenza rifiuti a Napoli per non delegittimare la città: quindi non sono i rifiuti che delegittimano la città ma chi li racconta. Se un problema non lo racconti, e soprattutto se non lo racconti in televisione, quel problema non esiste. È una sorta di teoria dell'immateriale, ma in realtà fa capire quanto sia fondamentale la necessità di raccontare.
Non è una particolarità italiana, dicevo. In Messico per esempio negli ultimi sei mesi sono stati ammazzati 59 giornalisti: ragazzi che avevano aperto dei blog, che avevano fondato delle radio, giornalisti delle testate più importanti. Caduti per mano del narcotraffico, che è oggi il più potente del mondo e che ha deciso di impedire la comunicazione di quello che sta succedendo in Messico con una scelta totalitaria, nell'eliminazione sistematica di chiunque tenti non solo di raccontare. Qualsiasi persona che inizi a raccontare diventa immediatamente un nemico, un pericolo perché accende la luce, anche piccola, ma che può interessare.
Ricordo una persona che ho molto stimato, e avevo conosciuto quando decise di esprimermi solidarietà nei momenti più difficili della mia vita: Christian Poveda. Aveva deciso di andare in Salvador a raccontare la Mara Salvatrucha, potentissime bande di strada che controllano lo spaccio della coca. Poveda li riprende con il loro consenso e ne fa un documentario dal titolo La vida loca, meravigliosamente tragico, forte perché anche lì c'è quel principio: queste storie diventano le storie di tutti. Ebbene Poveda con questo documentario comincia ad accendere luci ovunque, anche sui rapporti tra le Maras e la politica. Iniziano ad arrivare i giornalisti. E il 20 settembre del 2009 sparano in testa a Christian, che muore in totale silenzio, sia in Italia che in Europa, lasciando in qualche modo una sorta di ormai fisiologica accettazione: hai scritto di queste cose, o meglio hai ripreso questo cose, non puoi che essere condannato.
Spesso la morte non è neanche la cosa peggiore. Chi prende questa posizione, chi usa la parola per raccontare, per trasformare, paga un prezzo altissimo, nella delegittimazione, nell'isolamento e in quello che devono pagare i loro cari. La poetessa russa Anna Achmatova vive il periodo della rivoluzione bolscevica, il regime la considera una dissidente, una sorta di scarto della società del passato da modificare. Il suo ex marito che è un grandissimo poeta, viene fucilato, bisognava indebolirla in tutti i modi. Lei era già diventata una poetessa di fama soprattutto in Francia, quindi era difficile toccarla senza dare un'immagine repressiva della Russia sovietica. La prima cosa che fanno è cercare di spezzarle la schiena poetica: le arrestano il figlio. Lei è disposta a scambiare la vita del figlio con la sua. Non serve a molto, lui resta in carcere e lei racconta una scena bellissima: ogni mattina migliaia di donne si mettevano in fila davanti alle carceri sovietiche portando dei pacchi, spesso vuoti, soltanto per vedere l'espressione del secondino. Se il secondino accettava il pacco significava che la persona, marito, figlio, fratello, padre, era viva. Se non lo accettavano era stata fucilata. Quando lei si presenta il secondino la riconosce: "Ma lei è Anna Achmatova". Lei fa cenno di sì, e la persona che sta dietro: "Ma lei è una poetessa, quindi può raccontare tutto questo". Lì c'è una poetessa, piccola magra, devastata dai suoi drammi, che diventa all'improvviso la speranza. I versi diventano la speranza: può raccontare, può far esistere, cioè può trasformare.
Mi sono sempre chiesto come si fa a vivere così, come hanno fatto queste persone a sopportare decenni di delegittimazione, per aver scritto poesie o anche solo delle canzoni. Come è successo a Miriam Makeba, a cui il governo bianco sudafricano ha inflitto trent'anni di esilio per il disco "Pata pata", una canzone che racconta di una ragazza che vuole solo danzare, divertirsi, che vuole essere felice. Ma questo fa paura, voler vivere meglio fa paura, Miriam Makeba fa paura. E più canta nei teatri di tutto il mondo, più l'Africa intera si riconosce in quella canzone, che non parla di indipendenza, di lotta ai bianchi, ma di voglia di vivere e felicità. Fin quando non arriva il governo Mandela che la richiama in Sudafrica. È anche questa l'incredibile potenza della parola. Per questo sono convinto che il racconto sia parte del diritto, non può esistere il diritto senza racconto. Ma oggi, e non è solo la mia opinione, in Italia chi racconta ha paura. Certo, siamo in una democrazia, non abbiamo a che fare con un regime, con le carceri. Non siamo in Cina. Ma non si può negare che chiunque oggi decida di prendere in Italia una posizione critica contro il potere, contro il governo, rischia la delegittimazione, rischia di essere travolto dalla macchina del fango. Quando accende il computer per iniziare a scrivere sa già cosa gli può succedere. La formula è scientifica e collaudata: "Se tu racconti quello che dai magistrati è considerato un mio crimine, io racconto il tuo privato. Tutti hanno scheletri nell'armadio, quindi meglio che abbassiate lo sguardo e molliate la presa".
Ma per gli intellettuali raccontare è una necessità, comunque la si pensi. E in queste ore il loro compito è quello di dire che non siamo tutti uguali, non facciamo tutti le stesse cose. Certo, tutti abbiamo debolezze e contraddizioni, ma diverso è l'errore dal crimine, diversa è la corruzione dalla debolezza. Mentre si cerca di far passare il concetto che siamo tutti "storti" per coprire le storture di qualcuno. Oggi si parla molto di gossip e il gossip è rischioso, perché lo si usa per nascondere i fatti emersi dalle inchieste e per dimostrare che "fanno tutti schifo". E il compito, ancora una volta, delle persone che ascoltano, che scrivono e che poi parlano, è quello di discernere, di capire, ovunque esse siano, con i figli a tavola, nei bar, comunque la pensino.
C'è una bellissima preghiera di Tommaso Moro: Dio aiutami ad avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare, di sopportare le cose che non posso cambiare ma soprattutto dammi l'intelligenza per capire la differenza. Questo è il momento in cui in noi possiamo trovare la forza di cambiare e comprendere finalmente che non dobbiamo credere che tutto quello che accade sia inevitabile e quindi soltanto sopportare.
Infine, dedico questa laurea e questa giornata, che ovviamente non dimenticherò per tutta la vita, a tre magistrati: alla Boccassini, a Forno e a Sangermano, che stanno vivendo, credo, giornate complicate solo per aver fatto il loro mestiere di giustizia."
Roberto Saviano
Genova, 22 gennaio 2011


 
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21 gennaio 2011

Chi è il vero lettore?


“In Italia si legge poco” , “ i giovani non leggono”, “ è tutta colpa di internet e della televisione”.. questi sono i luoghi comuni che ormai sono entrati nell'opinione pubblica italiana. Giovanni Solimine con questo saggio, vuole cercare di smascherarli e, con numerosi dati ricavati da indagini dell'Istat, Censis, Ipsos ecc vuole riuscire a delineare la figura del vero lettore. Se ci chiedono di descrivere fisicamente e caratterialmente il “lettore”, pensiamo subito al classico secchione con gli occhiali, isolato, con pochi amici e scarsa vita sociale, che non segue la moda e non ha la ragazza, se si tratta di una femmina pensiamo alla studentessa modello, bruttina, che passa ore e ore in biblioteca. In realtà non è così.
Il vero lettore, il divoratore di libri, quello che, secondo i dati Istat, supera i 12 libri all'anno, è una persona forte, compresa in una fascia d'età inferiore ai 34 anni o superiore ai 65, sicura di sé, realizzata economicamente, che occupa una posizione di prestigio in ambito lavorativo, che ha una forte vita sociale e interessi culturali, frequenta teatri e cinema, guarda la televisione e naviga in internet. Il risultato è l'opposto dell'ideale che è entrato nell'opinione pubblica. Per arrivare a delineare questa figura, l'autore ha analizzato numerosi fattori che influenzano il profilo del lettore: livello d'istruzione, area geografica, stabilità economica. Può sembrare banale e scontato, ma i risultati delle ricerche riportano un maggior numero di lettori al Nord, soprattutto nelle regioni: Veneto, Lombardia,Piemonte; leggono più le donne che gli uomini, leggono più i laureati. È considerato lettore, secondo l' Istat, chi, almeno una volta all'anno ha comprato e letto un libro, un po' poco per definirsi tale, infatti vengono suddivisi in tre categorie: lettore forte, medio, basso o intermediario.
Il dato che preoccupa l'autore è che negli ultimi 15 anni la percentuale dei lettori si trova in una fase di stallo, ferma tra il 40% e il 45%, nonostante l'aumento del tasso di scolarizzazione. Nel terzo capitolo si scaglia contro i luoghi comuni che circolano attorno a questo argomento. Sono sempre più numerose le accuse mosse ad internet e alla televisione, mentre i dati dimostrano che i lettori abituali vanno spesso al cinema e comunque partecipano alla vita culturale e sociale molto più dei non lettori. Certo, internet ha attirato l'attenzione di tutti, ma non si è sostituito al libro o al quotidiano di informazione, tutto sta nel modo in cui il lettore si rapporta ad esso. Limitarsi a internet per informarsi sui fatti, o guardare notiziari al posto che leggere quotidiani, è dannoso, ma integrare le conoscenze con questi mezzi è costruttivo.
Anche l'affermazione "ai miei tempi si leggeva di più" viene controbattuta utilizzando numerosi dati: non solo i figli leggono più dei genitori, ma sono anche una generazione multitasking, ovvero in grado di utilizzare pc, cellulari, tv, i pod, radio; il 40% dei più giovani trova proprio in rete lo stimolo per comprare un libro, sono sempre di più gli scrittori che nei loro siti sponsorizzano e vendono i loro libri on-line, non a caso Internet Bookshop è il secondo sito, nella graduatoria nazionale, dopo Media World. Nell'ultima parte del saggio, l'autore cerca di analizzare le cause di questo triste disinteresse verso la lettura e cerca di proporre nuove soluzioni. Emerge un dato di sconforto dalle interviste fatte a giovani tra gli 11e19 anni: “leggere non è alla moda, se leggi sei sfigato e perdi tempo, leggere è noioso, leggere costa troppo.” Questa situazione è più sentita al Sud e in zone dove il livello di scolarizzazione è più basso. I giovani d'oggi preferiscono occupare il tempo libero uscendo, guardando la cosiddetta tv spazzatura, reality, comprando videogiochi, di sicuro più costosi di un libro, il cui prezzo non supera i 20 euro a copertina.
Cambiano i tempi, cambiano le mode, cambiano i gusti. L'abbandono della lettura, non a caso, avviene dopo i 14 anni, quando non ci si sente più obbligati a leggere per la scuola. Le soluzioni proposte da Giovanni Solimine sono rivolte ai giovanissimi, a coloro che non hanno ancora imparato a leggere: pediatri, maestre d'asilo, dovrebbero consigliare le neo mamme a leggere fiabe e racconti ai loro figli, avvicinandoli già nella tenera età al senso di lettura; non si dovrebbe puntare a sollecitare i lettori forti, ma incoraggiare i lettori medi, spingendoli a leggere uno o due libri in più per raggiungere il livello alto, altre soluzioni riguardano l'ambito economico, la possibilità di scaricare le spese dei libri, agevolare le famiglie con minori possibilità economiche e non sperperare capitali in pubblicità che non riescono ad attirare l'attenzione, ma puntare al rinnovo e alla modernizzazione delle biblioteche con figure adeguate e specializzate, rendere l'idea di lettura come un momento piacevole e non imposto severamente da professori che non si preoccupano se i classici sono adeguati o meno a giovani studenti.
Chiara Cruciani

Giovanni Solimine
L'Italia che legge
Roma-Bari, Laterza, 2010, 173 p.
*link al sito dell'autore Giovanni Solimine 


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20 gennaio 2011

Ricordare Primo Levi




ARMUS-ARCHIVIO MUSEO DELLA STAMPA DI GENOVA
Raccolta gutenberghiana Francesco Pirella


una shoah tipografica per la memoria digitale


L’ A R M U S: T R E P R O G E T T I P E R  I L  2 0 1 1


A testimonianza della sua continua vitalità, nonostante la precarietà in cui si trova a causa dello sfratto, l’Archivio Museo della Stampa di Genova annuncia tre importanti progetti a favore dei giovani e della nuova società elettronica, oltre alla sua consueta attività museale e didattica.
Giovedì 27 gennaio l’Armus celebra la Giornata della Memoria invitando i giovani a visitare il tempio di Gutenberg dedicato alla tipografia pre-elettrica.
Sarà una giornata speciale in cui si illustrerà come la tipografia, nata per diffondere la cultura fin dalla nascita delle Università, possa invece trasformarsi in strumento diabolico, come nei campi di concentramento della dittatura nazista.
Preferendo un atto concreto alle consuete parole di circostanza, nel rivolgersi ai giovani saranno offerti in dono - al contrario di quanti utilizzano la ricorrenza persino per speculare sulla memoria - libri relativi all’Olocausto: dal Diario di Anna Frank a La Tregua, a Se questo è un uomo, libri acquistati nel tempo sulle bancarelle dell’usato allo scopo di ‘umanare’, in particolare attraverso la memoria di Primo Levi.
Per l’evento del 27 gennaio sarà anche impressa e donata una xilografia appositamente realizzata dall’artista genovese Franco Barchi, citazione dell’Olocausto.
Questo è il primo di una serie di progetti che l’Armus ha in programma per l’anno in corso, tra cui la mostra fotografica su Edoardo Sanguineti e l’Armus.
L’Armus dedicherà infatti al grande poeta un Antilibro, curato da Francesco Pirella, che celebra Sanguineti attraverso l’opera della fotografa Silvia Ambrosi e quella del poeta Enrico Testa.
Il terzo ambizioso progetto che festeggerà l’avvenuto trasferimento del Museo alla prestigiosa sede ai Magazzini dell’Abbondanza nel Porto Antico, per iniziativa del Comune di Genova, consiste nell’Albero del Presepe, lavoro collettivo di Xilografi che incideranno le proprie opere direttamente su un tronco di bosso secolare dal diametro di 35 centimetri. Quest’opera costituirà per Genova un esemplare artistico di grande valore, unico nel suo genere, e sarà esposto al pubblico in occasione del prossimo Natale.

Genova, 18 gennaio 2011


Archivio Museo della Stampa (ARMUS)
Se.Di. Provincia di Genova - largo Francesco Cattanei 3 - 16147 Genova
tel 010 5499643 - fax 010 3071585 
email: archiviomuseostampa@pirella.net
orario: martedÏ, giovedì e sabato: 9.30 - 12.30;
dal 15 luglio al 15 settembre solo su prenotazione


12 gennaio 2011

In libreria

Maurizio Stefanini
Il partito «Repubblica».

Una storia politica del giornale di Scalfari e MauroMilano, Boroli, 2010, 183 pp.

Descrizione
Si parla spesso dell'anomalia di Silvio Berlusconi, il tycoon che crea un partito da un'impresa mediatica. Ed è certo un'anomalia, che peraltro nasce dall'altra particolarità di un sistema partitico con radici secolari, distrutto da un momento all'altro per un'offensiva giudiziario-mediatica arrivata in una delicata fase di transizione. Ma nello schema bipolare faticosamente emerso dopo sedici anni di travagliata transizione, anche l'altro polo è in larga parte creatura di un blocco mediatico: forse non dal punto di vista organizzativo, ma certamente da quello ideologico-identitario. Un'elite ristretta ma con una cultura politica fortemente strutturata è riuscita infatti via via prima a creare una moda; poi a contaminare alcune forze politiche; infine letteralmente a impadronirsene, dettandone il completo rifacimento. Questo libro è la storia politica dello strumento che è stato costituito per effettuare l'operazione: il quotidiano "Repubblica". E anche del modo in cui un progetto di apparente modernizzazione del sistema politico nazionale ha finito invece per riprodurre un'antica maledizione italiana: quella della demonizzazione dell'avversario.

In libreria

Alberto Marchi
L'ostinazione laica. L'esperienza giornalistica di Arrigo Benedetti

Civitavecchia, Prospettiva 2010, 100 p.
Scheda
La moralità della cronaca, il senso della laicità e il sogno di un'Italia veramente europea. Si potrebbe sintetizzare intorno a questi tre fondamentali aspetti tutta la ricca e complessa esperienza giornalistica di Arrigo Benedetti (1910-1976), fondatore tra gli altri dell'Europeo e dell'Espresso e uno dei massimi giornalisti italiani del Novecento. Anche lo studio di un segmento specifico della sua straordinaria carriera, quale fu la collaborazione con Panorama, che iniziò nel luglio 1967 e terminò nel settembre del 1969, e che è l'oggetto di studio del libro di Alberto Marchi L'ostinazione laica, edito da Prospettiva Editrice, consente di mettere bene a fuoco le caratteristiche principali del suo straordinario modo di fare giornalismo. Il suo sguardo di direttore era sempre rivolto alla realtà dei fatti, perché il lettore fosse messo in grado di farsi un'idea propria e, sulla base principalmente di questo assunto, anche come editorialista di punta di Panorama non mancò mai di far sentire la sua voce autorevole in un contesto di grandi sommovimenti sociali e politici come quelli della seconda parte degli anni Sessanta. Ma dalla rubrica "I Tempi", che tenne per soli due anni dopo la rottura con Scalfari avvenuta nel giugno del 1967 a seguito di un duro scontro di idee sugli esiti della Guerra dei sei giorni tra Israelian i e Palestinesi, emerge anche la solida cultura laica, liberale e di impronta radicale, di Arrigo Benedetti, che può essere annoverato senz'altro nella cerchia di coloro che Gaetano Salvemini definiva i "pazzi malinconici", quella schiera di grandi spiriti illuminati che appunto si contraddistinguevano, nell'Italia di volta in volta clericale o comunista, per essere i riferimenti forti di tutti i democratici e i liberali d'Italia. E Benedetti fu appunto ostinatamente laico, fino in fondo. E infine, non ultimo, una sottolineatura merita il suo forte richiamo all'Europa, che mai lo abbandonò, e che non deve essere letto in contrasto con il grande attaccamento che sempre manifestò per Lucca, che spesso fa capolino anche negli articoli scritti per Panorama e che anzi sembra divenire quasi una chiave di lettura per comprendere il mondo, come si intuisce dai suoi numerosi romanzi in cui Lucca (con la sua storia, con la sua bellezza ma anche con i suoi misteri) ritorna sempre come presenza imprescindibile.

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09 gennaio 2011

In libreria


Dario Papa
Il Giornalismo. Rivista Estera ed Italiana
LLC, Kessinger Publishing, 2010, 420 p. 
(Ristampa anastatica dell''edizione italiana)
Prima edizione Verona, G. Franchini editore, 1880



Indice
Introduzione / Origini del giornalismo / Un martire della stampa inglese / Primi giornalisti in Francia / Persecuzioni francesi contro la stampa / Un giornale fra i negri / Lo sviluppo della stampa negli Stati Uniti d'America / Italia Italia / Giornali e giornalisti italiani.

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08 gennaio 2011

In libreria

“Se comprendere è impossibile, conoscere 
è necessario perché ciò che è accaduto può ritornare,
le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate:
anche le nostre”.
Primo Levi


Storia della Shoah in Italia
vol. I, Le premesse, le persecuzioni, lo sterminio
vol. II, Memorie, rappresentazioni, eredità 
a cura di Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Marie-Anne Matard Bonucci ed Enzo Traverso
Torino, Utet editore, 2010, pp. 1275
Scheda
I due volumi in cofanetto di Storia della Shoah in Italia sono il naturale completamento dell’opera Storia della Shoah in 5 volumi pubblicata da UTET nel 2005 e nascono con l’obiettivo di approfondire e fare finalmente luce sul fenomeno dell’Olocausto nel nostro Paese, laddove la precedente opera esplorava il fenomeno dell’Olocausto come fenomeno europeo. Dopo un lungo periodo di silenzio, la storiografia ha iniziato a segnalare le concrete responsabilità italiane rispetto alla Shoah. In precedenza si preferiva interpretare l’antisemitismo di Stato del Fascismo come una conseguenza politica dell’alleanza con la Germania hitleriana: da qui discendevano alcuni rassicuranti corollari circa la piena estraneità del nostro Paese alla cultura razzista. Oggi invece man mano che ci si allontana da quel periodo è iniziato il momento di un più onesto confronto su questa difficile pagina della nostra storia. Se è vero infatti che un numero considerevole di italiani rischiò la vita per proteggere e nascondere gli ebrei perseguitati, è anche vero che il nostro popolo è stato anche in parte collaborazionista dei nazisti e spettatore passivo di segregazioni e deportazioni degli ebrei. Storia della Shoah in Italia nasce anche dalla necessità di eliminare una volta per tutte qualsiasi dubbio sulla reale entità della tragedia dell’Olocausto: il negazionismo (= negazione dell’Olocausto) torna invece ancora spesso a ricomparire nel dibattito culturale del nostro Paese.
*leggi tutto sul sito di Utet editore 
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05 gennaio 2011

PrimaPagina, la rassegna stampa di Rai Radio3

PrimaPagina è la rassegna stampa di Rai Radio 3 trasmessa ogni mattina in diretta dalle h. 7,15 alle h. 8,40. Ogni settimana un giornalista commenta le principali notizie dei quotidiani italiani; poi segue una conversazione in diretta con gli ascoltatori. Le puntate di PrimaPagina possono essere riascoltate sul sito e scaricate.
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04 gennaio 2011

In libreria


Walter Guadagnini
Una storia della fotografia del XX e XXI secolo

 Bologna, Editore Zanichelli, 2010, 384 pp.

Scheda
Una storia della fotografia del XX e del XXI secolo di Walter Guadagnini è, in realtà, un insieme di storie, poiché, come scrive l’autore, “la fotografia vive all’interno di un più articolato sistema di relazioni, non è solamente una forma d’arte, è una pratica” che si sviluppa e si definisce all’interno dei vari ambiti nei quali si applica. E quindi: una storia della tecnica fotografica, dalla Brownic prodotta dalla Kodak nel 1900 alla fotografia digitale di oggi. E una storia delle riviste, dei libri e delle mostre che l’hanno diffusa in tutto il mondo, una storia dell’informazione e della propaganda, della documentazione e del reportage, una storia sociale della diffusione sempre più vasta e popolare, più democratica, dello strumento fotografico e una storia della fotografia come forma d’arte sempre più compiuta e autonoma. Walter Guadagnini tira i fili di tutte queste storie coniugando sguardo da storico e gusto dell’esplicita e acuta lettura critica, attraversando anche gli ultimi decenni del XX secolo per arrivare fino ad oggi.
L’autore Walter Guadagnini dal 1992 è titolare di una cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Bologna; ha diretto la Galleria Civica di Modena e collaborato con riviste e quotidiani come critico d’arte; dal 2006 è responsabile della sezione fotografia de "Il Giornale dell'Arte". Con Zanichelli ha già pubblicato il volume Fotografia (2000).
*link al sito dell'editore Zanichelli

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01 gennaio 2011

Elzeviro


Massimo Gramellini
Futuro del verbo vivere
La Stampa, 5 giugno 2008

Uno degli eventi più strabilianti della nostra epoca è la scomparsa dei verbi al futuro. Dopo l’abbuffata del Duemila, quando per strada e sui giornali era tutto un «saremo» e «diventeremo», il futuro ha cominciato a rattrappirsi. Fino alla condizione attuale, in cui per i poveri coincide con l’ultima settimana del mese e per i potenti con la fine dell’anno, quando molti di loro verranno giudicati sulla base del bilancio consuntivo: premiati se avranno tagliato i costi, ma puniti senza pietà se li avranno aumentati per sviluppare gli investimenti, la ricerca scientifica, la formazione del personale. Le società umane appassiscono così, a furia di chiudere in pareggio i bilanci di fine anno senza più avere un senso di marcia che non sia la mera sopravvivenza. Gli unici che osano ancora coniugare i verbi al futuro sono gli innamorati. Ascoltate i loro discorsi (o ricordate i vostri, di quando lo eravate). Pur nelle difficoltà di una vita precaria palpitano di visioni, progetti, scenari che escono dalla meschinità del presente per proiettarsi in quella dimensione magica dove le possibilità del cambiamento volteggiano intatte. Il futuro è il verbo di chi emana energia. E l’energia più potente e più giovane rimane sempre l’amore. Persino in un continente per vecchi come la nostra estenuata Europa. Non sono un economista e nemmeno un sociologo, ma sento che dalla depressione economica e morale ci potranno salvare soltanto le persone innamorate: di un’altra persona, di un sogno, del proprio talento. Della vita.
* dalla rubrica Buongiorno del quotidiano "La Stampa" curata da Massimo Gramellini

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