Le riviste dell'informazione
- Bollettino LSDI
- British Journalism Review
- Columbia Journalism Review
- Comunicatori & Comunicazione
- Cuadernos des Periodistas
- Digital Journalism
- Etudes de communication
- Image of the Journalist in Popular Culture Journal
- International Journal of Press Politics
- Journal of Computer-Mediated Communication
- Journalism
- Journalism Practice
- Journalism Studies
- Key4biz.it
- Le Temps des médias
- Les Cahiers du Journalisme
- Media2000
- Mediascape Journal
- Nieman Reports
- Prima comunicazione
- Problemi dell'informazione
- Tabloid
31 agosto 2013
I fondamenti del giornalismo
Il libro I fondamenti del
giornalismo elaborato dai due
giornalisti americani Bill Kovach e Tom Rosenstiel è un'attenta analisi del
mondo dell'informazione che prende il via da uno studio sul settore iniziato
nel 1997. Lo scopo di tale ricerca, compiuta attraverso numerosi sondaggi e
interviste sia a giornalisti di professione sia a persone comuni che fruiscono
varie tipologie di media, era quello di riuscire a elaborare una sorta di
decalogo sulle leggi alla base del buon giornalismo. Il libro, benché pubblicato in Italia nel 2007, resta un vademecum
utile a chi è chiamato a svolgere questa attività in maniera professionale, ma
anche una guida per tutti i lettori, più o meno attenti, affinché sappiano
orientarsi nel vasto mondo delle comunicazioni, così da poter discernere il
buon giornalismo da quello meno buono.
I due autori presentano anzitutto il concetto del cosiddetto istinto di consapevolezza come quel bisogno, intrinseco a ogni essere umano, di
avere informazioni al fine di poter vivere e convivere serenamente, con sé
stessi e con gli altri. È per questo che la società moderna ha istituito il
concetto di giornalismo come mezzo di diffusione di informazioni, perché
proprio queste ultime sono in grado di determinare la qualità della nostra vita
influenzandone idee, pensieri, cultura. In un mondo dove la “fame di
conoscenza” e la necessità di informazioni sono sempre più presenti e diffuse
nella società, l'informazione, invece, si trasforma in intrattenimento: ciò che
in gergo viene identificato come infotainment
(information and entertainment). È come se a fronte di una richiesta di
notizie di primo livello da parte della comunità, il giornalismo sapesse
rispondere solo con del mero gossip. Ecco, dunque, che il sistema
dell'informazione si mostra in tutto il suo paradosso; a dimostrazione che
anche le notizie spesso sono chiamate a rispondere dei margini di profitto
dell'azienda editoriale cui sono sottoposte.
È innegabile il fatto che ogni sistema editoriale, e conseguentemente
anche quello dell'informazione, sia legato alle stessi leggi economiche che
permeano qualsiasi altro mercato. Lo scopo primario del giornalismo però è, e
rimane, quello di fornire ai cittadini notizie utili a creare le proprie
libertà e ad accrescere la propria educazione affinché possano poi essere in
grado di generare comunità democratiche. Parte proprio da questo aspetto
centrale l'analisi critica che Kovach e Rosenstiel elaborano. La necessità di
servire il più vasto e diversificato pubblico possibile, insieme alle leggi
economiche che permeano il mondo dell'editoria e che hanno già spinto molti
media a optare, appunto, per l'infotainment
non rischiano di diventare una vera e
propria minaccia all'autonomia dell'informazione che, invece, dovrebbe
rappresentarne il punto di partenza? Ecco, dunque, che i due giornalisti si
trovano a dover accuratamente riflettere sulla lenta, ma inesorabile, deriva
che il giornalismo americano (e non solo) sta vivendo da qualche anno a questa
parte. Una deriva che hanno cercato di arginare tracciando le linee guida
dell'attività giornalistica; ovvero i suoi fondamenti.
La prima legge che i due autori menzionano come alla base di una
corretta attività giornalistica è quella della verità. Essa
è fondamentale per il cittadino che si serve della notizia per riflettere sulle
proprie idee e crearsi una specifica idea del mondo. Verità che
si lega a doppio filo con un altro principio centrale: la lealtà verso il cittadino. Il giornalista, dunque, è chiamato a svolgere il ruolo
di garante della veridicità dei fatti nei confronti della comunità cui
trasmette informazioni, e deve farlo
anzitutto perché si tratta di un obbligo sociale verso i fruitori e, in
secondo luogo, per mantenere la propria credibilità di professionista, nonché
quella della propria testata. Credibilità che deve essere mantenuta tale anche
grazie alla responsabilità verso la
propria coscienza, un obbligo,
questo, di portare avanti la cultura dell'onestà, talvolta andando anche contro
le direttive del direttore della
testata o, addirittura, dell'editore.
Il nuovo modello di giornalismo è permeato da fattori “pericolosi” come
il continuo ciclo di informazioni in evoluzione, cui i giornalisti sono
chiamati a rispondere con l'elaborazione di notizie sempre più in tempo reale
̶ fattore tipico del mezzo di internet ̶ e che portano a
prediligere la velocità piuttosto che la qualità (il che va tutto a discapito
del lettore). Così come il problema dell'aumento di potere delle fonti di
informazioni su quello dei giornalisti stessi o la fine di un accurato gatekeeping (processo
di filtraggio delle notizie) che lascia sempre più margine di avanzamento al
puro gossip, che tra l'altro è in grado di ampliare il bacino dell'audience,
rispetto a una buona e necessaria cultura della cronaca. Questi sono tutti
fattori di cui Kovach e Rosenstiel sono perfettamente consci e a cui cercano di
controbattere sottolineando i veri valori del giornalismo.
Ecco quindi che al rispetto della verità, alla lealtà verso il cittadino e alla responsabilità
verso la propria coscienza, il
giornalista deve garantire al pubblico: indipendenza
dalle fonti di cui si serve e dal controllo di qualsiasi potere esterno, così come la possibilità di avere libero accesso alle notizie e ai documenti delle
autorità tali da poter liberamente
riferirne all'opinione pubblica. I due autori sostanzialmente puntano sul
sottolineare che il giornalismo deve basarsi sulla sintesi, la verifica, e una
fiera indipendenza che punti a soddisfare il pubblico interesse prima ancora
del profitto privato.
A distanza di 16 anni le proposte deontologiche di questo libro restano valide e possono riconciliare molti lettori critici con il mondo dell'informazione. Kovach e Rosenstiel dimostrano, infatti, che il buon giornalismo non è morto, tutt'altro. Sta solo vivendo un periodo di crisi economica e di valori; questo però non significa che non possa rinnovarsi per mantenersi al passo con i tempi e contemporaneamente mantenere saldi i suoi principi. Questi, dunque, sono i Fondamenti
del giornalismo, ovvero tutto ciò che i giornalisti dovrebbero sapere e il
pubblico dovrebbe esigere.
Valentina Vettori
Bill Kovach, Tom Rosenstiel
I fondamenti del giornalismo.
Ciò che i giornalisti
dovrebbero sapere e il pubblico dovrebbe esigere.
Torino, Lindau,
2007, 293 pp.
Etichette:
Deontologia,
Libreria,
Libri ri/trovati,
Recensione
30 agosto 2013
Schierandosi
"Due aspetti in ogni questione, certo, certo....
ma ogni tanto, schierarsi è la sola cosa
a cui si può ricorrere e senza
discolparsi o compatirsi".
Seamus Heaney, 1939-2013
*link al testo integrale della poesia Schierandosi di Seanus Heaney, Premio Nobel per la Letteratura nel 1995.
ma ogni tanto, schierarsi è la sola cosa
a cui si può ricorrere e senza
discolparsi o compatirsi".
Seamus Heaney, 1939-2013
*link al testo integrale della poesia Schierandosi di Seanus Heaney, Premio Nobel per la Letteratura nel 1995.
26 agosto 2013
Dal Caffè ai Blog
Il nuovo libro di Giorgio Zanchini in
apertura si propone come un percorso
di nascita, evoluzione e decadenza del giornalismo culturale. Scritto con
immediatezza e semplicità nei primi capitoli affronta la spinosa
definizione di cultura, che risulta attualmente essere definita sia come la “sfera delle attività artistiche e
intellettuali che presuppongono ingegno”, sia come “l’insieme di atteggiamenti,
norme, valori, credenze, rappresentazioni di collettività umane presente in
tutti i gruppi e gli strati sociali”.
L’esauriente chiarimento della
materia trattata è seguito da un dettagliato e avvincente sunto storico che
evidenzia in modo mirato le tappe più significative dell’evoluzione del
giornalismo, compreso quello culturale, individuando nel Settecento la culla
della stampa popolare con le prime riviste femminili e i periodici di
intrattenimento. Viene poi affrontato capillarmente il periodo del XIX secolo
in cui il boom della penny press americana e delle gazzette inglesi lancia un
nuovo modo di fare giornalismo. Nello stesso periodo ricorda, con dovizia di
particolari, l’ascesa delle riviste di settore e soprattutto il cambio di
mentalità degli editori per i quali la stampa diviene una fonte di guadagno non
indifferente viste le nuove generazioni alfabetizzate e assetate di notizie a
cui risponde l’innovazione tecnologica.
Grande importanza viene
data alla nascita della terza pagina in Italia, vera e propria incubatrice
dell’articolo culturale. Sul Giornale
d’Italia infatti viene riservata la terza pagina, delle sei che comprendeva,
ad articoli legati alla critica artistica e letteraria. Se in un primo momento
è servito un po’ di assestamento, una volta preso l’avvio questa iniziativa
diviene fiore all’occhiello di un giornalismo nazionale fin troppo fossilizzato
sull’educazione politica. Alle terze pagine dei vari quotidiani ottocenteschi partecipano le grandi
firme della letteratura come Grazia Deledda e Gabriele D’Annunzio; ciò porta anche alla luce la
scarsa considerazione che essi provavano per la professione giornalistica.
Arrivati a questo punto
della lettura si percepisce un cambiamento di atmosfera. Dalla rincorsa
attraverso i secoli fino all’apice della stampa culturale si giunge ad un
momento di impasse, caratterizzato dall’appiattimento degli articoli culturali,
sempre meno esclusivi e stilisticamente distinti, per poi riprendere il ritmo
in una discesa che pare senza freni.
Dalla seconda metà del
Novecento, causa i mutamenti politici e
culturali avvenuti globalmente, lo spazio dedicato alla cultura cambia. Tra
polemiche e frigidi ritorni al passato gli anni Cinquanta segnano un punto di non ritorno per
l’elzeviro e tutto il novero di
articoli di cultura.
Scompaiono le recensioni
dei libri, sostituite dai supplementi che vengono venduti insieme ai quotidiani
nei giorni festivi, latitano le critiche musicali e teatrali che compaiono
sporadicamente in qualche trafiletto di riempimento, per non parlare dei
reportage di viaggio che già molto prima hanno attirato l’attenzione solo
grazie alla loro assenza.
Zanchini qui si sofferma,
come a prendere fiato dopo la discesa a rotta di collo, sulle possibili cause
della “morte della terza pagina”. La rivalità tra scrittori e giornalisti è
sempre stata un punto caldo nelle redazioni proprio a causa della
partecipazione dei primi alla stesura degli articoli che figuravano in terza
pagina affiancati ai diari di viaggio di reporter sparsi per il globo in quella
che può essere definita un’avventura collettiva. L’autore però non crede, come
me peraltro, che la causa del
mutamento/decadimento del giornalismo culturale sia da riconoscere nella sana
rivalità tra scrittori puri e giornalisti ma piuttosto nell’avvento delle
televisioni, delle radio e infine, nell’ultimo decennio, di internet. Nell’arco
di una quarantina di anni lo scenario della comunicazione è completamente
cambiato.
Con la televisione i
programmi di intrattenimento surclassano la stampa culturale, l’ascesa delle
radio e dei programmi radiofonici dedicati al teatro e alla musica ruba un’altra
importante fetta di informazione al giornalismo da terza pagina che, privato dei
suoi cavalli di battaglia, si adagia in tiepidi articoli che spesso vengono
bellamente ignorati dai lettori più interessati alle inchieste e alla politica.
La crisi della carta
stampata è frutto della nascita dell’infotainment, che attraverso radio e
televisioni surclassa in immediatezza e
coinvolgimento i quotidiani e i periodici.
L’avvento di internet ha
definitivamente cambiato il modo di fare giornalismo e di vivere la
trasmissione di notizie perché se attraverso i media del Novecento la
circolazione di dati era prevalentemente unilaterale, adesso il rapporto tra
media e fruitori si è trasformato in un rapporto simbiotico di interscambio.
I giornali hanno fatto un
salto qualitativo trasferendo parte degli investimenti della redazione in una
conquista di spazi web per interagire con la quasi totalità dei visitatori
della rete. Qui Zanchini evidenzia l’attività di consulta e monitoraggio che i
deskisti effettuano sui blog aperti e aggiornati da comuni cittadini.
Se nell’Ottocento i luoghi
di cultura e dibattito sulle novità erano i Caffè o i circoli privati e durante
il Novecento l’unilateralità della Terza Pagina ha in qualche modo sopito lo
scambio di idee tra i lettori, ecco che nel XXI secolo rinascono i dibattiti
tra privati cittadini, stavolta non nei caffè o nei salotti, ma sul web, dove è
possibile trasmettere le proprie opinioni ad un pubblico esponenzialmente più
vasto. Ad un pubblico globale.
In tutto questo
travagliato cambiamento, il giornalismo culturale ha cambiato maschere, vesti,
forme ed espressione fino a giungere ai giorni nostri completamente diverso
rispetto alla nascita.
Adesso non esiste più
l’articolo culturale o l’elzeviro, adesso la cultura permea l’intero
quotidiano, l’intera macchina dell’informazione: dall’impaginazione dei
giornali, alla gerarchizzazione delle notizie; dall’agenda setting al
linguaggio usato in radio o in
tv, dalle fotonotizie in prima pagina ai filmati dei giornali web.
Cultura non è più solo
critica o scoperta o prodotto dell’ingegno umano, è tutto ciò che attira
l’interesse del pubblico perché parla del pubblico e per il pubblico.
Nelle sue conclusioni, un
poco frettolose Zanchini riconosce che la professione di giornalista culturale,
un tempo ben definita e con incarichi precisi, adesso è invece una
macrocategoria che comprende quasi l’intero entourage della redazione che però
non è più caratterizzato dalla specializzazione personale.
Esiste ancora il
giornalismo culturale in senso stretto? L’autore lo individua talvolta nelle riviste,
nei periodici, spesso in radio e nell’ultimo biennio anche in televisione ma la
terza pagina del quotidiano, scivolata nel tempo sempre più indietro, si può
dire quasi perduta e sicuramente priva di quell’originalità e dello spessore
artistico che la designavano punta di diamante del giornalismo culturale
europeo.
Nel complesso Zanchini
riesce a mantenere un linguaggio semplice e fresco affrontando i vari argomenti
con semplicità riuscendo ad attirare l’attenzione sui punti essenziali della
trattazione.
Ho trovato stimolante sia
lo stile sia la semplicità di questo piccolo trattato, nato, a detta
dell’autore, più per fare chiarezza tra i “non addetti ai lavori” che tra i
giornalisti.
Marta Gaggero
Giorgio Zanchini
Il
giornalismo culturale
Roma, Carrocci, 2013,
160 pp. (nuova edizione)
____
20 agosto 2013
Le parole in libertà vigilata
Questo di Gustavo Zagrebelsky sembra un libro senza pretese, a una prima occhiata formale. A prenderlo in mano, soppesarlo, è sottile, leggero, viene da pensare che bastino pochi minuti per leggerlo. Pochi minuti per imparare qualcosa di nuovo da uno dei più noti e rilevanti giuristi italiani. Pochi minuti per sentirsi migliori e un po' più intelligenti, più capaci di analisi. E invece Zagrebelsky dimostra da subito che la questione non è così semplice - e del resto non sarebbe da lui un testo che non porti, anzi, non spinga ad una certa riflessione. Perché leggere e capire sono due cose diverse, così come lo sono sentire e ascoltare.
L'atmosfera generale del libro infatti è quella di una presa di coscienza di un ascolto mancato, di un'assenza di discernimento nell'uso e nella ricezione delle parole come chiave per la comprensione del tempo in cui si vive. La lingua è manifestazione di se stessi, ma anche il più forte strumento d'espressione e influenza dei cittadini di cui la democrazia disponga. Ha una sua forza plasmatrice, questa che l'Autore denomina Lingua Nostrae Aetatis (LNAe), la lingua dei nostri tempi, e che si forma in ognuno dei circuiti comunicativi di oggi. È una lingua formata da parole che conosciamo, che usiamo ogni giorno, e che si possono ritrovare in qualsiasi discorso politico, non importa di quale schieramento. Sorge allora spontanea una domanda: si tratta di omologazione o di co-appartenenza a un sistema di valori universalmente riconosciuti? Secondo l'Autore, si tratta soprattutto di carenza di spirito critico e di abitudine a lasciarsi trascinare e ad assecondare il corso delle cose come imposto da altri. Il linguaggio ha una sua forza che tende a conformare il senso comune in una stessa direzione, e quando viene particolarmente elaborato nella sua espressione e non viene elaborato affatto nella sua ricezione, allora ci troviamo all'interno di un sistema distonico, non equilibrato, e che continuiamo a chiamare democrazia.
Nello spazio di undici capitoli, Zagrebelsky analizza alcune di queste parole-chiave, nella prospettiva sostanziale di un'analisi del linguaggio berlusconiano basato sulla teologia politica e su una lingua degli assoluti.
Senza dubbio, questo sguardo rivolto soprattutto in quella direzione toglie qualcosa al libro, che potrebbe facilmente essere accusato di partigianeria, conferendogli un'intonazione che si avvicina a quella di un pamphlet, nonostante sia possibile trovarvi, a più riprese, una critica non meno pungente verso il Partito Democratico. L'accusa dell'Autore al PD è di eccessiva adeguazione alla terminologia della parte avversa e di una mancanza di originalità, una carenza espressiva che, anche da sola, sarebbe capace di annullare la carica e la valenza politica del partito.
Proprio a questa conformazione di pamphlet, forse, con la sua brevità e la sua forza non priva di un linguaggio colorito (ma non per questo volgare) dobbiamo gli scarsi accenni agli aspetti più prettamente legati agli operatori stessi, ai canali attraverso cui questa lingua del tempo presente, questa LNAe, si diffonde e si imprime, informa e difforma una società civile troppo abituata a non dar peso a quello che ascolta e a quello che legge. C'è un richiamo al subliminale, alla capacità delle parole di formare un frame come un campo magnetico tutto intorno alla nostra realtà, e lì confinarci.
I luoghi comuni della politica, le parole usate e riusate, le reti di significati in cui siamo intrappolati non devono pensare per noi, denuncia Zagrebelsky. E ciò che rimane, alla fine di questa lettura illuminante che scava nelle ombre proiettate da parole date troppo per scontate, non è tanto la polarizzazione tra berlusconiani e democratici, tra destra e sinistra, tra il bene e il male di questa teologia politica. Ciò che l'autore riesce a consegnare nelle mani del lettore è un piccolo scrigno di strumenti critici, il cui scopo vuole essere un risveglio delle menti all'analisi, alla riflessione, a un ragionamento che non riduca tutta la nostra vita alla mera essperienza del produrre e del fare. E poi, fare cosa?
Debora Nicosia
Gustavo Zagrebelsky
Sulla lingua del tempo presente,
Torino, Einaudi, 2010, 58 pp.
____
14 agosto 2013
In libreria
Paolo Carelli
Confini mobili. I sistemi mediatici nazionali tra globalizzazione e digitalizzazione
Bologna, I libri di Emil, 2013, 286 pp.
(disponibile in formato pdf sul sito dell'editore)
Descrizione
Negli ultimi decenni, sotto la spinta di due fenomeni come la globalizzazione e la digitalizzazione, lo stato-nazione ha visto un indebolimento del proprio raggio d'azione mentre i media sono stati attraversati da profondi mutamenti tecnologici e culturali che ne hanno modificato gli aspetti produttivi, fruitivi e distributivi. Cosa accade ai sistemi mediatici nazionali quando sulla scena irrompono le nuove tecnologie della comunicazione, i fenomeni migratori, la costruzione di complesse articolazioni sovranazionali che ridisegnano l'identità culturale di una nazione? La tradizionale concezione nazional-statale del sistema mediatico può ancora essere considerata valida? Quali dimensioni sono in grado di spiegare meglio il mutamento in corso? Il volume fornisce alcune risposte a tali quesiti, individuando criteri d'analisi in grado di pensare i sistemi mediatici oltre la cornice chiusa e finita dei confini nazionali. Vengono affrontati, nello specifico, i casi di Spagna e Italia, due Paesi fondati su modelli istituzionali e comunicativi piuttosto simili e da tempo impegnati in percorsi di ricostruzione dell'identità mediatica che coinvolgono aspetti commerciali, culturali, normativi e di contiguità geografica o linguistica.
Confini mobili. I sistemi mediatici nazionali tra globalizzazione e digitalizzazione
Bologna, I libri di Emil, 2013, 286 pp.
(disponibile in formato pdf sul sito dell'editore)
Descrizione
Negli ultimi decenni, sotto la spinta di due fenomeni come la globalizzazione e la digitalizzazione, lo stato-nazione ha visto un indebolimento del proprio raggio d'azione mentre i media sono stati attraversati da profondi mutamenti tecnologici e culturali che ne hanno modificato gli aspetti produttivi, fruitivi e distributivi. Cosa accade ai sistemi mediatici nazionali quando sulla scena irrompono le nuove tecnologie della comunicazione, i fenomeni migratori, la costruzione di complesse articolazioni sovranazionali che ridisegnano l'identità culturale di una nazione? La tradizionale concezione nazional-statale del sistema mediatico può ancora essere considerata valida? Quali dimensioni sono in grado di spiegare meglio il mutamento in corso? Il volume fornisce alcune risposte a tali quesiti, individuando criteri d'analisi in grado di pensare i sistemi mediatici oltre la cornice chiusa e finita dei confini nazionali. Vengono affrontati, nello specifico, i casi di Spagna e Italia, due Paesi fondati su modelli istituzionali e comunicativi piuttosto simili e da tempo impegnati in percorsi di ricostruzione dell'identità mediatica che coinvolgono aspetti commerciali, culturali, normativi e di contiguità geografica o linguistica.
____
11 agosto 2013
" Il giornalismo ha bisogno di voi e non ve lo dice"
"Come saranno i giornalisti di domani? Mi riferisco a quelle vaste schiere di
giovani che in questo momento frequentano scuole di giornalismo pubbliche o
private, vanno a caccia di stages presso quotidiani, settimanali, agenzie,
testate radiofoniche e televisive, inseguono speranze e invocano quasi sempre
invano promesse di una qualsiasi sistemazione redazionale. Chi esercita questo
nostro mestiere da lungo tempo, e non è professionalmente ignoto, conosce l'
ampiezza del fenomeno. Basta poi insegnare o avere insegnato in una di quelle
scuole di giornalismo per diventare bersaglio consueto di una serie di
sollecitazioni, suppliche, richieste di presentazione. A volte si cerca di
aiutare qualcuno, perché tanti lo meritano. Molto più spesso l'esito che si dà
è deludente, non certo per sadismo ma perché i poteri che il postulante
attribuisce al suo interlocutore sono esorbitanti rispetto alla realtà. Ne
conseguono lunghi discorsi rivolti al giovanotto o alla ragazza sull'
affollamento delle redazioni, sullo spirito di difesa corporativo che gli
occupati oppongono all' ingresso dei nuovi, sul timore, che le amministrazioni
provano, di essere costrette ad assumere con contratto pieno qualcuno cui è
stato ufficiosamente consentito di frequentare la redazione, di sedersi davanti
a una scrivania. Ma poi sembrando crudele limitarsi a svogliare con un brusco
non luogo a procedere una vocazione spontanea e in fondo legittima si fa un
passo avanti. O meglio, di lato. Ci si impegna, cioè, a dimostrare che il
giornalismo italiano è malato, pieno di difetti (fra i quali la difficoltà di
entrarvi, per quanto atroce, non è il più grave). Si citano i misfatti più
clamorosi che ha perpetrato, le congiure più turpi cui ha aderito, i buchi più
ridicoli nei quali è caduto, le lottizzazioni più selvagge che ha promosso (e
qui si parla a lungo della Rai), le transazioni equivoche che ha stipulato con
i potentati economici più aggressivi. Si fanno frequenti cenni ai tre Pansa:
quello dei comprati e venduti, quello dei giornalisti dimezzati e quello delle
carte false. Infine, quando ci si accorge che questa forma di deterrente è
inefficace (sarà pure un inferno fa capire l' aspirante ma mi ci butterei lo
stesso con piacere), si passa ai consigli. Consigli relativi non tanto al modo
di entrare nella corporazione, quanto sul come comportarvisi in un eventuale
domani. Quanti consigli diamo ogni giorno a quelli che saranno i nostri posteri
in questo mestiere! Chiunque, giornalista, parli di lavoro con una persona più
giovane, diventa immediatamente un padre nobile, un pedagogo, un archivista di
pericoli da evitare, di tentazioni cui resistere, di peccati da non commettere.
Se proprio vuoi vivere quest'avventura ecco il tipo di approccio che si adotta, preparati a farlo in maniera da non dovertene vergognare. Tutti questi
consigli che finora si tramandavano per tradizione orale sono oggi ordinati e
catalogati in una sorta di breviario, vivace, utile e piacevole a leggersi. Ne
è autore Sergio Turone. S'intitola Come diventare giornalisti (senza
vendersi): Laterza, pagg. 307, Ritorno qui, scusandomi per la
digressione, alla domanda iniziale: come saranno i giornalisti di domani? Alla
luce del libro di Turone la risposta è che i nostri successori (per poco che
abbiano seguito i consigli di cui consta il breviario) dovrebbero costituire
una falange di professionisti perfetti, muniti di una fiera coscienza
deontologica e di un solido know how tecnico, incapaci di abbagli, corazzati
contro le insidie del potere. Veri e propri sacerdoti della verità, si
aggireranno per il mondo sempre pronti ad accorrere dove c'è qualche guasto da
sanare, qualche scandalo da denunziare, qualche ribaldo da punire.
Incorruttibili ma non provocatori, penetranti nelle loro indagini ma non
inclini al clamore, pacati nelle opinioni ma non insensibili al fascino di
leciti scoops: l'approssimativo, l'inesatto saranno i loro nemici capitali.
Le nozioni che Turone fornisce nell' impartire i suoi consigli sono complete.
Riguardano sia la struttura tecnica dei giornali che la genesi delle notizie.
Si addentrano nei modi di scrivere, esplorano questioni di linguaggio,
descrivono e distinguono i vari ruoli funzionali all' interno del lavoro,
esaminano le tecniche che presiedono ai vari generi giornalistici: dalla
cronaca all' intervista, dall' inchiesta economica al resoconto sportivo, dall'informazione televisiva alla divulgazione culturale. L'autore registra gli
scontri fra i giornalisti lottizzati e i loro protettori politici. Si sofferma
sulle vicende della concorrenza fra testate rivali. Elenca casi di giornalisti
messi in castigo dalla proprietà, o di altri che, per coerenza, hanno subìto
vicissitudini di carriera e pause di temporanea retrocessione professionale. Il
panorama è dunque completo. Al giovane aspirante si rivolge un discorso del
genere: ecco l'elenco delle insidie che certamente ti saranno tese. Se vuoi
entrare in questa corporazione devi imparare a schivarle. Altrimenti, è meglio
non farne nulla. Devi sapere, tra l'altro, che il potere politico, negli anni
Ottanta, ha operato nella stampa una sistematica normalizzazione, promuovendo i
giornalisti più mansueti ed espellendo o catturando i ribelli. Per te, insomma,
educato da questi consigli, si prepara un futuro di dignitoso martirio. (Ma
forse non sarà necessario: perché in un giornale difficilmente riuscirai ad
entrare. E se ci entrerai vendendoti, tutto il discorso è inutile). A me queste
pagine sono sembrate pessimistiche, ma non più di quanto il tema richieda. Non
si tratta di un libro che induca alla speranza, che faccia troppe concessioni.
Il lettore interessato desidererebbe, credo, qualche sforzo in più: se non un
progetto, almeno un' indicazione, un disegno, un augurio che un giorno si
possano adottare, in materia di arruolamento di nuovi giornalisti, criteri più
obiettivi, più trasparenti, meno casuali e clientelari di quelli in uso oggi.
Intanto, però, sembra che tutte questo fiorire di consigli all' aspirante
giornalista qualche esito lo colga. Si sta stemperando intorno a questa
professione, registra l' autore sulla base di un sondaggio fatto fra i
laureandi dell'Ateneo milanese, l'alone di fascino che permaneva dai tempi
degli avventurosi viaggi ai luoghi esotici. Man mano che declinerà la stantia
leggenda, le vocazioni si faranno meno copiose ma in compenso più solide.
Speriamo. Comunque, novizi del Duemila, preparatevi alla lotta! Il giornalismo
ha bisogno di voi e non ve lo dice."
Nello Ajello
*N.Ajello, I sacerdoti della verità, “la Repubblica”, 9 aprile 1987.
Libri di Nello Ajello (1930-2013):
- Lezioni di giornalismo. Com'è cambiata in 30 anni la stampa italiana, Milano, Garzanti, 1985.
- Italiani di fine regime, Milano, Garzanti, 1993.
- Il lungo addio. Intellettuali e PCI dal 1958 al 1991, Roma-Bari, Laterza, 1997.
- Illustrissimi. Galleria del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2006.
___
08 agosto 2013
Italia e Francia: trovarsi, mancarsi
Occhio ai falsi amici, parole insidiose per gli
ignari viaggiatori. Déjeuner è
un classico esempio di “falso amico” francese, non vuole dire “digiunare” ma
addirittura qualcosa di opposto: “pranzo”. In linguistica i “falsi amici” sono
appunto quei lemmi che, pur somigliando ad un'altra lingua, hanno un significato diverso. Francia e Italia sono falsi amici? In questo libro, Anais Ginori, giornalista franco-italiana de “La
Repubblica”, racconta, in modo
scorrevole e gustoso, gli equivoci, le tensioni e le passioni che hanno contrassegnato, in particolare negli
ultimi anni, i rapporti tra i due paesi “cugini”. Italia e Francia hanno grandi affinità storiche e culturali,
ma ogni tanto affiorano tra loro incomprensioni e rivalità. Pensiamo ai due ex
Presidenti Sarkozy e Berlusconi: hanno iniziato la loro carriera politica
stimandosi, ma l’hanno finita odiandosi.
Ormai è storica quella
conferenza stampa a Bruxelles, il 24
ottobre 2011, in cui Angela Merkel e Sarkozy, a una domanda sulla credibilità di Berlusconi, si guardano
in faccia e ridono. In realtà, Silvio e
Nicolas hanno avuto una parabola con diversi punti di contatto, persino a
livello di vicende private (lasciati dalle rispettive mogli, sia pure
con motivazioni diverse…), ed anche un
tramonto comune... Oggi c’è sicuramente maggiore consonanza di vedute tra il premier francese Hollande e
quello italiano Letta (dopo la parentesi Monti). Anche sullo scenario
internazionale non sono mancati motivi di frizione negli ultimi anni,
basti pensare alla questione della guerra in Libia, praticamente imposta a un
Berlusconi riluttante e fino al giorno prima amico di Gheddafi. In realtà, la rivalità-concorrenza tra i due paesi
confinanti sembra non cessare anche nel dopoguerra, visti i rilevanti interessi economici tuttora in
gioco in quel paese. Lo stesso problema dell’immigrazione è stato al
centro della disputa fra i due paesi “amici-nemici”, peccato che in gioco c’era la
vita di persone in carne e ossa: quando centinaia di tunisini sbarcano a
Lampedusa, l’Italia allarga le maglie dei controlli sui migranti e inventa vari trucchi per spingerli verso la Francia. Si arriva al punto che al confine di
Ventimiglia viene bloccato il traffico ferroviario dall’Italia. E molti
tunisini che riescono ad arrivare
in Francia vengono rispediti indietro. Un caos. Eppure i due paesi non
avevano sostenuto le rivoluzioni arabe
insieme e, ovviamente “per motivi umanitari”, non erano alleati contro il
dittatore libico Gheddafi?
Un altro motivo di frizione riguarda il tema del terrorismo. In questo senso Sarkozy è stato
coerente con la cosiddetta “dottrina Mitterand”, tesa a
negare l’estradizione a persone
imputate o condannate, in particolare italiani, per atti violenti ma di
ispirazione politica. Di fatto, in oltre trent’anni solo una estradizione è
stata concretamente eseguita, quella di Paolo Persichetti. Caso emblematico è
stato quello di Cesare Battisti, ex militante dei Proletari Armati per il
Comunismo, che ha vissuto molti anni in Francia, e che quando viene arrestato
nel 2004 riesce a fuggire, semina i poliziotti nel metrò, si imbarca per il
Sudamerica, dove verrà poi arrestato nel 2007 a Rio de Janeiro. Dirà di essere
stato aiutato nella fuga dai servizi segreti francesi.
Anche nei media non manca la competizione. Qui un
aspetto interessante è stata
l’avventura della “Cinq”, un canale privato francese, utilizzato da Berlusconi, dal 1986 al 1992, per esportare in Francia il modello “Canale
5”. In realtà, quella fu un’esperienza breve e travagliata, che
finì con un dissesto finanziario, la
prima grave sconfitta di
Berlusconi, che, probabilmente, ha segnato il suo declino come imprenditore internazionale e l’inizio della sua
contrastata avventura politica in
Italia, in concomitanza di Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica.
Nel cinema un tempo Italia e Francia avevano diversi punti di incontro,
anche per contrastare l’invasione dei
film americani e rafforzare le proprie affinità elettive. Ma l’idillio di una
volta oggi è terminato, la concorrenza
è aperta, tanto che le pellicole
italiane nel circuito francese
continuano a essere poche, mentre solo di recente sono aumentati i film
francesi in Italia. Per il cinema italiano resiste però Cannes, dove hanno
avuto successo film come Il Caimano, Il Divo, Gomorra. Forse da lì
bisognerebbe ricominciare per rilanciare un discorso comune, dalla Croisette.
Il confronto fra i due paesi potrebbe continuare,
dalla gastronomia allo sport.
Il libro, che avrebbe potuto anche essere titolato Falsi
nemici, è ricco di testimonianze e aneddoti, anche gustosi, su questa rivalità, fatta di incomprensioni,
di scoperte reciproche, ma anche di
attrazione fra due paesi, così storicamente e culturalmente vicini,
che si guardano, si confrontano,
competono, in una sorta di relazione più o meno amorosa, in cui è bello
cercarsi, ritrovarsi, ma anche mancarsi.
Alessandra Panetta
Anais Ginori
Falsi Amici. Italia e Francia, relazioni pericolose
Roma, Fandango, 2012, pp. 206.
_____
01 agosto 2013
Zacinto mia!
Cari materani, una città è fatta innanzitutto di persone e inizia a morire se viene abbandonata.
Matera di qui, Matera di lì, Matera di su, Matera di giù...
Come molti altri, sono una materana che ha studiato a lungo fuori sede e che, tuttora, pur avendo tentato senza troppa convinzione di restare, ha scelto la via più "semplice": partire ancora.
Amo la mia città e a volte bastano quei due-tre caffè che pago in centro, quando ci sono, perché la mia coscienza si plachi, convinta di aver contribuito all’esistenza di Matera in vita, alla sopravvivenza della sua economia. Il peccato da cui quei pochi euro non mi assolvono di certo è quello di essermene andata.
Credo che un po’ tutti noi fuorisede ci sentiamo colpevoli nei confronti di Matera, specie quando leggiamo le parole dure di chi è rimasto e forse ha più voce in capitolo di noi.
Il mio semplice contributo al dibattito vuole essere un invito a tornare per chi crede di potercela fare. In fondo, per quella che è la mia esperienza, la vita a Matera è meno dispendiosa e meno caotica di quella in un’altra città ics da Roma in su. E, a chi potrebbe ribattere che è meno dispendiosa e meno caotica perché ha meno da offrire, rispondo d’anticipo che si tratta di una caratteristica della nostra città, quella della placidità, che forse può non piacere a tutti in tutti gli stadi della vita ma che prima o poi si ricerca.
A mio avviso torneremo, con o senza il mio appello, perché Matera ci chiama, ci manca, e torneremo a maggior ragione se dovesse chiamarci in soccorso, qualora dovesse malauguratamente avverarsi la catastrofe, vagheggiata da alcuni, solo teorizzata da altri, della sua "fine".
Matera di qui, Matera di lì, Matera di su, Matera di giù...
Come molti altri, sono una materana che ha studiato a lungo fuori sede e che, tuttora, pur avendo tentato senza troppa convinzione di restare, ha scelto la via più "semplice": partire ancora.
Amo la mia città e a volte bastano quei due-tre caffè che pago in centro, quando ci sono, perché la mia coscienza si plachi, convinta di aver contribuito all’esistenza di Matera in vita, alla sopravvivenza della sua economia. Il peccato da cui quei pochi euro non mi assolvono di certo è quello di essermene andata.
Credo che un po’ tutti noi fuorisede ci sentiamo colpevoli nei confronti di Matera, specie quando leggiamo le parole dure di chi è rimasto e forse ha più voce in capitolo di noi.
Il mio semplice contributo al dibattito vuole essere un invito a tornare per chi crede di potercela fare. In fondo, per quella che è la mia esperienza, la vita a Matera è meno dispendiosa e meno caotica di quella in un’altra città ics da Roma in su. E, a chi potrebbe ribattere che è meno dispendiosa e meno caotica perché ha meno da offrire, rispondo d’anticipo che si tratta di una caratteristica della nostra città, quella della placidità, che forse può non piacere a tutti in tutti gli stadi della vita ma che prima o poi si ricerca.
A mio avviso torneremo, con o senza il mio appello, perché Matera ci chiama, ci manca, e torneremo a maggior ragione se dovesse chiamarci in soccorso, qualora dovesse malauguratamente avverarsi la catastrofe, vagheggiata da alcuni, solo teorizzata da altri, della sua "fine".
Sabrina Colandrea
Iscriviti a:
Post (Atom)
Archivio blog
- nov 2024 (1)
- ott 2024 (1)
- set 2024 (2)
- giu 2024 (1)
- feb 2024 (1)
- gen 2024 (1)
- nov 2023 (1)
- ott 2023 (1)
- set 2023 (1)
- ago 2023 (1)
- giu 2023 (2)
- mag 2023 (1)
- apr 2023 (2)
- mar 2023 (2)
- feb 2023 (1)
- gen 2023 (2)
- dic 2022 (3)
- ott 2022 (1)
- ago 2022 (1)
- lug 2022 (2)
- giu 2022 (3)
- mag 2022 (4)
- apr 2022 (5)
- mar 2022 (2)
- feb 2022 (6)
- gen 2022 (1)
- dic 2021 (4)
- nov 2021 (8)
- ott 2021 (9)
- set 2021 (4)
- ago 2021 (3)
- lug 2021 (5)
- giu 2021 (5)
- mag 2021 (1)
- apr 2021 (4)
- mar 2021 (7)
- feb 2021 (3)
- gen 2021 (4)
- dic 2020 (2)
- nov 2020 (2)
- ott 2020 (2)
- set 2020 (1)
- ago 2020 (3)
- lug 2020 (1)
- giu 2020 (5)
- mag 2020 (2)
- apr 2020 (2)
- mar 2020 (1)
- feb 2020 (6)
- gen 2020 (9)
- dic 2019 (11)
- nov 2019 (9)
- ott 2019 (15)
- set 2019 (6)
- ago 2019 (5)
- lug 2019 (5)
- giu 2019 (9)
- mag 2019 (5)
- apr 2019 (6)
- mar 2019 (6)
- feb 2019 (13)
- gen 2019 (13)
- dic 2018 (14)
- ott 2018 (15)
- set 2018 (12)
- ago 2018 (2)
- lug 2018 (7)
- giu 2018 (6)
- mag 2018 (10)
- apr 2018 (8)
- mar 2018 (11)
- feb 2018 (7)
- gen 2018 (11)
- dic 2017 (11)
- nov 2017 (11)
- ott 2017 (7)
- set 2017 (9)
- ago 2017 (6)
- lug 2017 (2)
- giu 2017 (12)
- mag 2017 (13)
- apr 2017 (8)
- mar 2017 (7)
- feb 2017 (9)
- gen 2017 (6)
- dic 2016 (6)
- nov 2016 (17)
- ott 2016 (10)
- set 2016 (11)
- ago 2016 (1)
- lug 2016 (4)
- giu 2016 (10)
- mag 2016 (13)
- apr 2016 (12)
- mar 2016 (4)
- feb 2016 (11)
- gen 2016 (12)
- dic 2015 (11)
- nov 2015 (4)
- ott 2015 (6)
- set 2015 (9)
- ago 2015 (6)
- lug 2015 (3)
- giu 2015 (6)
- mag 2015 (10)
- apr 2015 (8)
- mar 2015 (12)
- feb 2015 (11)
- gen 2015 (4)
- dic 2014 (7)
- nov 2014 (5)
- ott 2014 (10)
- set 2014 (6)
- ago 2014 (1)
- lug 2014 (6)
- giu 2014 (14)
- mag 2014 (10)
- apr 2014 (4)
- mar 2014 (11)
- feb 2014 (10)
- gen 2014 (12)
- dic 2013 (20)
- nov 2013 (9)
- ott 2013 (9)
- set 2013 (4)
- ago 2013 (8)
- lug 2013 (8)
- giu 2013 (20)
- mag 2013 (13)
- apr 2013 (9)
- mar 2013 (11)
- feb 2013 (16)
- gen 2013 (8)
- dic 2012 (10)
- nov 2012 (8)
- ott 2012 (16)
- set 2012 (12)
- ago 2012 (5)
- lug 2012 (12)
- giu 2012 (27)
- mag 2012 (35)
- apr 2012 (21)
- mar 2012 (19)
- feb 2012 (21)
- gen 2012 (26)
- dic 2011 (20)
- nov 2011 (16)
- ott 2011 (30)
- set 2011 (10)
- ago 2011 (5)
- lug 2011 (14)
- giu 2011 (19)
- mag 2011 (24)
- apr 2011 (15)
- mar 2011 (18)
- feb 2011 (25)
- gen 2011 (18)
- dic 2010 (14)
- nov 2010 (15)
- ott 2010 (10)
- set 2010 (9)
- ago 2010 (6)
- lug 2010 (8)
- giu 2010 (12)
- mag 2010 (18)
- apr 2010 (20)
- mar 2010 (12)
- feb 2010 (23)
- gen 2010 (22)
- dic 2009 (18)
- nov 2009 (26)
- ott 2009 (25)
- set 2009 (14)
- ago 2009 (12)
- lug 2009 (16)
- giu 2009 (11)
- mag 2009 (17)
- apr 2009 (15)
- mar 2009 (18)
- feb 2009 (6)
- gen 2009 (13)
- dic 2008 (18)
- nov 2008 (37)
- ott 2008 (30)
- set 2008 (22)
- ago 2008 (6)
- lug 2008 (35)
- giu 2008 (5)
- mag 2001 (1)
Copyright
Questo blog non può considerarsi un prodotto editoriale, ai sensi della legge n. 62/2001. Chi desidera riprodurre i testi qui pubblicati dovrà ricordarsi di segnalare la fonte con un link, nel pieno rispetto delle norme sul copyright.