Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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31 agosto 2013

I fondamenti del giornalismo

Il libro I fondamenti del giornalismo elaborato dai due giornalisti americani Bill Kovach e Tom Rosenstiel è un'attenta analisi del mondo dell'informazione che prende il via da uno studio sul settore iniziato nel 1997. Lo scopo di tale ricerca, compiuta attraverso numerosi sondaggi e interviste sia a giornalisti di professione sia a persone comuni che fruiscono varie tipologie di media, era quello di riuscire a elaborare una sorta di decalogo sulle leggi alla base del buon giornalismo. Il libro, benché pubblicato in Italia nel 2007, resta un vademecum utile a chi è chiamato a svolgere questa attività in maniera professionale, ma anche una guida per tutti i lettori, più o meno attenti, affinché sappiano orientarsi nel vasto mondo delle comunicazioni, così da poter discernere il buon giornalismo da quello meno buono.
I due autori presentano anzitutto il concetto del cosiddetto istinto di consapevolezza come quel bisogno, intrinseco a ogni essere umano, di avere informazioni al fine di poter vivere e convivere serenamente, con sé stessi e con gli altri. È per questo che la società moderna ha istituito il concetto di giornalismo come mezzo di diffusione di informazioni, perché proprio queste ultime sono in grado di determinare la qualità della nostra vita influenzandone idee, pensieri, cultura. In un mondo dove la “fame di conoscenza” e la necessità di informazioni sono sempre più presenti e diffuse nella società, l'informazione, invece, si trasforma in intrattenimento: ciò che in gergo viene identificato come infotainment (information and entertainment).  È come se a fronte di una richiesta di notizie di primo livello da parte della comunità, il giornalismo sapesse rispondere solo con del mero gossip. Ecco, dunque, che il sistema dell'informazione si mostra in tutto il suo paradosso; a dimostrazione che anche le notizie spesso sono chiamate a rispondere dei margini di profitto dell'azienda editoriale cui sono sottoposte.
È innegabile il fatto che ogni sistema editoriale, e conseguentemente anche quello dell'informazione, sia legato alle stessi leggi economiche che permeano qualsiasi altro mercato. Lo scopo primario del giornalismo però è, e rimane, quello di fornire ai cittadini notizie utili a creare le proprie libertà e ad accrescere la propria educazione affinché possano poi essere in grado di generare comunità democratiche. Parte proprio da questo aspetto centrale l'analisi critica che Kovach e Rosenstiel elaborano. La necessità di servire il più vasto e diversificato pubblico possibile, insieme alle leggi economiche che permeano il mondo dell'editoria e che hanno già spinto molti media a optare, appunto, per l'infotainment non rischiano di diventare una vera e propria minaccia all'autonomia dell'informazione che, invece, dovrebbe rappresentarne il punto di partenza? Ecco, dunque, che i due giornalisti si trovano a dover accuratamente riflettere sulla lenta, ma inesorabile, deriva che il giornalismo americano (e non solo) sta vivendo da qualche anno a questa parte. Una deriva che hanno cercato di arginare tracciando le linee guida dell'attività giornalistica; ovvero i suoi fondamenti.
La prima legge che i due autori menzionano come alla base di una corretta attività giornalistica è quella della verità. Essa è fondamentale per il cittadino che si serve della notizia per riflettere sulle proprie idee e crearsi una specifica idea del mondo. Verità che si lega a doppio filo con un altro principio centrale: la lealtà verso il cittadino. Il giornalista, dunque, è chiamato a svolgere il ruolo di garante della veridicità dei fatti nei confronti della comunità cui trasmette informazioni, e deve farlo  anzitutto perché si tratta di un obbligo sociale verso i fruitori e, in secondo luogo, per mantenere la propria credibilità di professionista, nonché quella della propria testata. Credibilità che deve essere mantenuta tale anche grazie alla responsabilità verso la propria coscienza, un obbligo, questo, di portare avanti la cultura dell'onestà, talvolta andando anche contro le direttive del direttore  della testata o, addirittura, dell'editore.
Il nuovo modello di giornalismo è permeato da fattori “pericolosi” come il continuo ciclo di informazioni in evoluzione, cui i giornalisti sono chiamati a rispondere con l'elaborazione di notizie sempre più in tempo reale  ̶  fattore tipico del mezzo di internet  ̶  e che portano a prediligere la velocità piuttosto che la qualità (il che va tutto a discapito del lettore). Così come il problema dell'aumento di potere delle fonti di informazioni su quello dei giornalisti stessi o la fine di un accurato gatekeeping (processo di filtraggio delle notizie) che lascia sempre più margine di avanzamento al puro gossip, che tra l'altro è in grado di ampliare il bacino dell'audience, rispetto a una buona e necessaria cultura della cronaca. Questi sono tutti fattori di cui Kovach e Rosenstiel sono perfettamente consci e a cui cercano di controbattere sottolineando i veri valori del giornalismo.
Ecco quindi che al rispetto della verità, alla lealtà verso il cittadino e alla responsabilità verso la propria coscienza, il giornalista deve garantire al pubblico: indipendenza dalle fonti di cui si serve e dal controllo di qualsiasi potere esterno, così come la possibilità di avere libero accesso alle notizie e ai documenti delle autorità tali da poter liberamente riferirne all'opinione pubblica. I due autori sostanzialmente puntano sul sottolineare che il giornalismo deve basarsi sulla sintesi, la verifica, e una fiera indipendenza che punti a soddisfare il pubblico interesse prima ancora del profitto privato.
A distanza di 16 anni le proposte deontologiche di questo libro restano valide e possono riconciliare molti lettori critici con il mondo dell'informazione. Kovach e Rosenstiel dimostrano, infatti, che il buon giornalismo non è morto, tutt'altro. Sta solo vivendo un periodo di crisi economica e di valori; questo però non significa che non possa rinnovarsi per mantenersi al passo con i tempi e contemporaneamente mantenere saldi i suoi principi. Questi, dunque, sono i Fondamenti del giornalismo, ovvero tutto ciò che i giornalisti dovrebbero sapere e il pubblico dovrebbe esigere.
Valentina Vettori
 
Bill Kovach, Tom Rosenstiel
I fondamenti del giornalismo.
Ciò che i giornalisti dovrebbero sapere e il pubblico dovrebbe esigere.
Torino, Lindau, 2007, 293 pp.
 

 

30 agosto 2013

Schierandosi

"Due aspetti in ogni questione, certo, certo....
 ma ogni tanto, schierarsi è la sola cosa
 a cui si può ricorrere e senza
 discolparsi o compatirsi".

Seamus Heaney, 1939-2013



*link al testo integrale della poesia Schierandosi di Seanus Heaney, Premio Nobel per la Letteratura nel 1995.

26 agosto 2013

Dal Caffè ai Blog

Il nuovo libro di Giorgio Zanchini in apertura si propone come un percorso di nascita, evoluzione e decadenza del giornalismo culturale. Scritto con immediatezza e  semplicità  nei primi capitoli affronta la spinosa definizione di cultura, che risulta attualmente essere definita sia come  la “sfera delle attività artistiche e intellettuali che presuppongono ingegno”, sia come “l’insieme di atteggiamenti, norme, valori, credenze, rappresentazioni di collettività umane presente in tutti i gruppi e gli strati sociali”.
L’esauriente chiarimento della materia trattata è seguito da un dettagliato e avvincente sunto storico che evidenzia in modo mirato le tappe più significative dell’evoluzione del giornalismo, compreso quello culturale, individuando nel Settecento la culla della stampa popolare con le prime riviste femminili e i periodici di intrattenimento. Viene poi affrontato capillarmente il periodo del XIX secolo in cui il boom della penny press americana e delle gazzette inglesi lancia un nuovo modo di fare giornalismo. Nello stesso periodo ricorda, con dovizia di particolari, l’ascesa delle riviste di settore e soprattutto il cambio di mentalità degli editori per i quali la stampa diviene una fonte di guadagno non indifferente viste le nuove generazioni alfabetizzate e assetate di notizie a cui risponde l’innovazione tecnologica.
Grande importanza viene data alla nascita della terza pagina in Italia, vera e propria incubatrice dell’articolo culturale. Sul Giornale d’Italia infatti viene riservata la terza pagina, delle sei che comprendeva, ad articoli legati alla critica artistica e letteraria. Se in un primo momento è servito un po’ di assestamento, una volta preso l’avvio questa iniziativa diviene fiore all’occhiello di un giornalismo nazionale fin troppo fossilizzato sull’educazione politica. Alle terze pagine dei vari quotidiani ottocenteschi partecipano le grandi firme della letteratura come Grazia Deledda e Gabriele D’Annunzio; ciò porta anche alla luce la scarsa considerazione che essi provavano per la professione giornalistica.  
Arrivati a questo punto della lettura si percepisce un cambiamento di atmosfera. Dalla rincorsa attraverso i secoli fino all’apice della stampa culturale si giunge ad un momento di impasse, caratterizzato dall’appiattimento degli articoli culturali, sempre meno esclusivi e stilisticamente distinti, per poi riprendere il ritmo in una discesa che pare senza freni.
Dalla seconda metà del Novecento, causa i mutamenti  politici e culturali avvenuti globalmente, lo spazio dedicato alla cultura cambia. Tra polemiche e frigidi ritorni al passato gli anni Cinquanta  segnano un punto di non ritorno per l’elzeviro e tutto il novero di articoli di cultura.
Scompaiono le recensioni dei libri, sostituite dai supplementi che vengono venduti insieme ai quotidiani nei giorni festivi, latitano le critiche musicali e teatrali che compaiono sporadicamente in qualche trafiletto di riempimento, per non parlare dei reportage di viaggio che già molto prima hanno attirato l’attenzione solo grazie alla loro assenza.
Zanchini qui si sofferma, come a prendere fiato dopo la discesa a rotta di collo, sulle possibili cause della “morte della terza pagina”. La rivalità tra scrittori e giornalisti è sempre stata un punto caldo nelle redazioni proprio a causa della partecipazione dei primi alla stesura degli articoli che figuravano in terza pagina affiancati ai diari di viaggio di reporter sparsi per il globo in quella che può essere definita un’avventura collettiva. L’autore però non crede, come me peraltro, che la causa del mutamento/decadimento del giornalismo culturale sia da riconoscere nella sana rivalità tra scrittori puri e giornalisti ma piuttosto nell’avvento delle televisioni, delle radio e infine, nell’ultimo decennio, di internet. Nell’arco di una quarantina di anni lo scenario della comunicazione è completamente cambiato.
Con la televisione i programmi di intrattenimento surclassano la stampa culturale, l’ascesa delle radio e dei programmi radiofonici dedicati al teatro e alla musica ruba un’altra importante fetta di informazione al giornalismo da terza pagina che, privato dei suoi cavalli di battaglia, si adagia in tiepidi articoli che spesso vengono bellamente ignorati dai lettori più interessati alle inchieste e alla politica.
La crisi della carta stampata è frutto della nascita dell’infotainment, che attraverso radio e televisioni surclassa  in immediatezza e coinvolgimento i quotidiani e i periodici.
L’avvento di internet ha definitivamente cambiato il modo di fare giornalismo e di vivere la trasmissione di notizie perché se attraverso i media del Novecento la circolazione di dati era prevalentemente unilaterale, adesso il rapporto tra media e fruitori si è trasformato in un rapporto simbiotico di interscambio.
I giornali hanno fatto un salto qualitativo trasferendo parte degli investimenti della redazione in una conquista di spazi web per interagire con la quasi totalità dei visitatori della rete. Qui Zanchini evidenzia l’attività di consulta e monitoraggio che i deskisti effettuano sui blog aperti e aggiornati da comuni cittadini.
Se nell’Ottocento i luoghi di cultura e dibattito sulle novità erano i Caffè o i circoli privati e durante il Novecento l’unilateralità della Terza Pagina ha in qualche modo sopito lo scambio di idee tra i lettori, ecco che nel XXI secolo rinascono i dibattiti tra privati cittadini, stavolta non nei caffè o nei salotti, ma sul web, dove è possibile trasmettere le proprie opinioni ad un pubblico esponenzialmente più vasto. Ad un pubblico globale.
In tutto questo travagliato cambiamento, il giornalismo culturale ha cambiato maschere, vesti, forme ed espressione fino a giungere ai giorni nostri completamente diverso rispetto alla nascita.
Adesso non esiste più l’articolo culturale o l’elzeviro, adesso la cultura permea l’intero quotidiano, l’intera macchina dell’informazione: dall’impaginazione dei giornali, alla gerarchizzazione delle notizie; dall’agenda setting al linguaggio usato in radio o in tv, dalle fotonotizie in prima pagina ai filmati dei giornali web.
Cultura non è più solo critica o scoperta o prodotto dell’ingegno umano, è tutto ciò che attira l’interesse del pubblico perché parla del pubblico e per il pubblico.
Nelle sue conclusioni, un poco frettolose Zanchini riconosce che la professione di giornalista culturale, un tempo ben definita e con incarichi precisi, adesso è invece una macrocategoria che comprende quasi l’intero entourage della redazione che però non è più caratterizzato dalla specializzazione personale.
Esiste ancora il giornalismo culturale in senso stretto? L’autore lo individua talvolta nelle riviste, nei periodici, spesso in radio e nell’ultimo biennio anche in televisione ma la terza pagina del quotidiano, scivolata nel tempo sempre più indietro, si può dire quasi perduta e sicuramente priva di quell’originalità e dello spessore artistico che la designavano punta di diamante del giornalismo culturale europeo.
Nel complesso Zanchini riesce a mantenere un linguaggio semplice e fresco affrontando i vari argomenti con semplicità riuscendo ad attirare l’attenzione sui punti essenziali della trattazione.
Ho trovato stimolante sia lo stile sia la semplicità di questo piccolo trattato, nato, a detta dell’autore, più per fare chiarezza tra i “non addetti ai lavori” che tra i giornalisti.
Marta Gaggero
 
Giorgio Zanchini
Il giornalismo culturale
Roma, Carrocci, 2013, 160  pp. (nuova edizione)
 
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20 agosto 2013

Le parole in libertà vigilata


Questo di Gustavo Zagrebelsky sembra un libro senza pretese, a una prima occhiata formale. A prenderlo in mano, soppesarlo, è sottile, leggero, viene da pensare che bastino pochi minuti per leggerlo. Pochi minuti per imparare qualcosa di nuovo da uno dei più noti e rilevanti giuristi italiani. Pochi minuti per sentirsi migliori e un po' più intelligenti, più capaci di analisi. E invece Zagrebelsky dimostra da subito che la questione non è così semplice - e del resto non sarebbe da lui un testo che non porti, anzi, non spinga ad una certa riflessione. Perché leggere e capire sono due cose diverse, così come lo sono sentire e ascoltare.
L'atmosfera generale del libro infatti è quella di una presa di coscienza di un ascolto mancato, di un'assenza di discernimento nell'uso e nella ricezione delle parole come chiave per la comprensione del tempo in cui si vive. La lingua è manifestazione di se stessi, ma anche il più forte strumento d'espressione e influenza dei cittadini di cui la democrazia disponga. Ha una sua forza plasmatrice, questa che l'Autore denomina Lingua Nostrae Aetatis (LNAe), la lingua dei nostri tempi, e che si forma in ognuno dei circuiti comunicativi di oggi. È una lingua formata da parole che conosciamo, che usiamo ogni giorno, e che si possono ritrovare in qualsiasi discorso politico, non importa di quale schieramento. Sorge allora spontanea una domanda: si tratta di omologazione o di co-appartenenza a un sistema di valori universalmente riconosciuti? Secondo l'Autore, si tratta soprattutto di carenza di spirito critico e di abitudine a lasciarsi trascinare e ad assecondare il corso delle cose come imposto da altri. Il linguaggio ha una sua forza che tende a conformare il senso comune in una stessa direzione, e quando viene particolarmente elaborato nella sua espressione e non viene elaborato affatto nella sua ricezione, allora ci troviamo all'interno di un sistema distonico, non equilibrato, e che continuiamo a chiamare democrazia.
Nello spazio di undici capitoli, Zagrebelsky analizza alcune di queste parole-chiave, nella prospettiva sostanziale di un'analisi del linguaggio berlusconiano basato sulla teologia politica e su una lingua degli assoluti.
Senza dubbio, questo sguardo rivolto soprattutto in quella direzione toglie qualcosa al libro, che potrebbe facilmente essere accusato di partigianeria, conferendogli un'intonazione che si avvicina a quella di un pamphlet, nonostante sia possibile trovarvi, a più riprese, una critica non meno pungente verso il Partito Democratico. L'accusa dell'Autore al PD è di eccessiva adeguazione alla terminologia della parte avversa e di una mancanza di originalità, una carenza espressiva che, anche da sola, sarebbe capace di annullare la carica e la valenza politica del partito.
Proprio a questa conformazione di pamphlet, forse, con la sua brevità e la sua forza non priva di un linguaggio colorito (ma non per questo volgare) dobbiamo gli scarsi accenni agli aspetti più prettamente legati agli operatori stessi, ai canali attraverso cui questa lingua del tempo presente, questa LNAe, si diffonde e si imprime, informa e difforma una società civile troppo abituata a non dar peso a quello che ascolta e a quello che legge. C'è un richiamo al subliminale, alla capacità delle parole di formare un frame come un campo magnetico tutto intorno alla nostra realtà, e lì confinarci.
I luoghi comuni della politica, le parole usate e riusate, le reti di significati in cui siamo intrappolati non devono pensare per noi, denuncia Zagrebelsky. E ciò che rimane, alla fine di questa lettura illuminante che scava nelle ombre proiettate da parole date troppo per scontate, non è tanto la polarizzazione tra berlusconiani e democratici, tra destra e sinistra, tra il bene e il male di questa teologia politica. Ciò che l'autore riesce a consegnare nelle mani del lettore è un piccolo scrigno di strumenti critici, il cui scopo vuole essere un risveglio delle menti all'analisi, alla riflessione, a un ragionamento che non riduca tutta la nostra vita alla mera essperienza del produrre e del fare. E poi, fare cosa?
Debora Nicosia


Gustavo Zagrebelsky
 Sulla lingua del tempo presente, 
Torino, Einaudi, 2010, 58 pp.

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14 agosto 2013

In libreria

Paolo Carelli
Confini mobili. I sistemi mediatici nazionali tra globalizzazione e digitalizzazione
Bologna, I libri di Emil, 2013, 286 pp.

(disponibile in formato pdf sul sito dell'editore)
Descrizione
Negli ultimi decenni, sotto la spinta di due fenomeni come la  globalizzazione e la digitalizzazione, lo stato-nazione ha visto un  indebolimento del proprio raggio d'azione mentre i media sono stati attraversati da profondi mutamenti tecnologici e culturali che ne hanno modificato gli aspetti produttivi, fruitivi e distributivi. Cosa accade ai sistemi mediatici nazionali quando sulla scena irrompono le nuove tecnologie della comunicazione, i fenomeni migratori, la costruzione di complesse articolazioni sovranazionali che ridisegnano l'identità culturale di una nazione? La tradizionale concezione nazional-statale del sistema mediatico può ancora essere considerata valida? Quali dimensioni sono in grado di spiegare meglio il mutamento in corso? Il volume fornisce alcune risposte a tali quesiti, individuando criteri d'analisi in grado di pensare i sistemi mediatici oltre la cornice chiusa e finita dei confini nazionali. Vengono affrontati, nello specifico, i casi di Spagna e Italia, due Paesi fondati su modelli istituzionali e comunicativi piuttosto simili e da tempo impegnati in percorsi di ricostruzione dell'identità mediatica che coinvolgono aspetti commerciali, culturali, normativi e di contiguità geografica o linguistica.
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11 agosto 2013

" Il giornalismo ha bisogno di voi e non ve lo dice"

"Come saranno i giornalisti di domani? Mi riferisco a quelle vaste schiere di giovani che in questo momento frequentano scuole di giornalismo pubbliche o private, vanno a caccia di stages presso quotidiani, settimanali, agenzie, testate radiofoniche e televisive, inseguono speranze e invocano quasi sempre invano promesse di una qualsiasi sistemazione redazionale. Chi esercita questo nostro mestiere da lungo tempo, e non è professionalmente ignoto, conosce l' ampiezza del fenomeno. Basta poi insegnare o avere insegnato in una di quelle scuole di giornalismo per diventare bersaglio consueto di una serie di sollecitazioni, suppliche, richieste di presentazione. A volte si cerca di aiutare qualcuno, perché tanti lo meritano. Molto più spesso l'esito che si dà è deludente, non certo per sadismo ma perché i poteri che il postulante attribuisce al suo interlocutore sono esorbitanti rispetto alla realtà. Ne conseguono lunghi discorsi rivolti al giovanotto o alla ragazza sull' affollamento delle redazioni, sullo spirito di difesa corporativo che gli occupati oppongono all' ingresso dei nuovi, sul timore, che le amministrazioni provano, di essere costrette ad assumere con contratto pieno qualcuno cui è stato ufficiosamente consentito di frequentare la redazione, di sedersi davanti a una scrivania. Ma poi sembrando crudele limitarsi a svogliare con un brusco non luogo a procedere una vocazione spontanea e in fondo legittima si fa un passo avanti. O meglio, di lato. Ci si impegna, cioè, a dimostrare che il giornalismo italiano è malato, pieno di difetti (fra i quali la difficoltà di entrarvi, per quanto atroce, non è il più grave). Si citano i misfatti più clamorosi che ha perpetrato, le congiure più turpi cui ha aderito, i buchi più ridicoli nei quali è caduto, le lottizzazioni più selvagge che ha promosso (e qui si parla a lungo della Rai), le transazioni equivoche che ha stipulato con i potentati economici più aggressivi. Si fanno frequenti cenni ai tre Pansa: quello dei comprati e venduti, quello dei giornalisti dimezzati e quello delle carte false. Infine, quando ci si accorge che questa forma di deterrente è inefficace (sarà pure un inferno fa capire l' aspirante ma mi ci butterei lo stesso con piacere), si passa ai consigli. Consigli relativi non tanto al modo di entrare nella corporazione, quanto sul come comportarvisi in un eventuale domani. Quanti consigli diamo ogni giorno a quelli che saranno i nostri posteri in questo mestiere! Chiunque, giornalista, parli di lavoro con una persona più giovane, diventa immediatamente un padre nobile, un pedagogo, un archivista di pericoli da evitare, di tentazioni cui resistere, di peccati da non commettere. Se proprio vuoi vivere quest'avventura ecco il tipo di approccio che si adotta, preparati a farlo in maniera da non dovertene vergognare. Tutti questi consigli che finora si tramandavano per tradizione orale sono oggi ordinati e catalogati in una sorta di breviario, vivace, utile e piacevole a leggersi. Ne è autore Sergio Turone. S'intitola Come diventare giornalisti (senza vendersi): Laterza, pagg. 307,  Ritorno qui, scusandomi per la digressione, alla domanda iniziale: come saranno i giornalisti di domani? Alla luce del libro di Turone la risposta è che i nostri successori (per poco che abbiano seguito i consigli di cui consta il breviario) dovrebbero costituire una falange di professionisti perfetti, muniti di una fiera coscienza deontologica e di un solido know how tecnico, incapaci di abbagli, corazzati contro le insidie del potere. Veri e propri sacerdoti della verità, si aggireranno per il mondo sempre pronti ad accorrere dove c'è qualche guasto da sanare, qualche scandalo da denunziare, qualche ribaldo da punire. Incorruttibili ma non provocatori, penetranti nelle loro indagini ma non inclini al clamore, pacati nelle opinioni ma non insensibili al fascino di leciti scoops: l'approssimativo, l'inesatto saranno i loro nemici capitali. Le nozioni che Turone fornisce nell' impartire i suoi consigli sono complete. Riguardano sia la struttura tecnica dei giornali che la genesi delle notizie. Si addentrano nei modi di scrivere, esplorano questioni di linguaggio, descrivono e distinguono i vari ruoli funzionali all' interno del lavoro, esaminano le tecniche che presiedono ai vari generi giornalistici: dalla cronaca all' intervista, dall' inchiesta economica al resoconto sportivo, dall'informazione televisiva alla divulgazione culturale. L'autore registra gli scontri fra i giornalisti lottizzati e i loro protettori politici. Si sofferma sulle vicende della concorrenza fra testate rivali. Elenca casi di giornalisti messi in castigo dalla proprietà, o di altri che, per coerenza, hanno subìto vicissitudini di carriera e pause di temporanea retrocessione professionale. Il panorama è dunque completo. Al giovane aspirante si rivolge un discorso del genere: ecco l'elenco delle insidie che certamente ti saranno tese. Se vuoi entrare in questa corporazione devi imparare a schivarle. Altrimenti, è meglio non farne nulla. Devi sapere, tra l'altro, che il potere politico, negli anni Ottanta, ha operato nella stampa una sistematica normalizzazione, promuovendo i giornalisti più mansueti ed espellendo o catturando i ribelli. Per te, insomma, educato da questi consigli, si prepara un futuro di dignitoso martirio. (Ma forse non sarà necessario: perché in un giornale difficilmente riuscirai ad entrare. E se ci entrerai vendendoti, tutto il discorso è inutile). A me queste pagine sono sembrate pessimistiche, ma non più di quanto il tema richieda. Non si tratta di un libro che induca alla speranza, che faccia troppe concessioni. Il lettore interessato desidererebbe, credo, qualche sforzo in più: se non un progetto, almeno un' indicazione, un disegno, un augurio che un giorno si possano adottare, in materia di arruolamento di nuovi giornalisti, criteri più obiettivi, più trasparenti, meno casuali e clientelari di quelli in uso oggi. Intanto, però, sembra che tutte questo fiorire di consigli all' aspirante giornalista qualche esito lo colga. Si sta stemperando intorno a questa professione, registra l' autore sulla base di un sondaggio fatto fra i laureandi dell'Ateneo milanese, l'alone di fascino che permaneva dai tempi degli avventurosi viaggi ai luoghi esotici. Man mano che declinerà la stantia leggenda, le vocazioni si faranno meno copiose ma in compenso più solide. Speriamo. Comunque, novizi del Duemila, preparatevi alla lotta! Il giornalismo ha bisogno di voi e non ve lo dice." 
Nello Ajello

*N.Ajello, I sacerdoti della verità, “la Repubblica”, 9 aprile 1987.

Libri di Nello Ajello (1930-2013):
- Lezioni di giornalismo. Com'è cambiata in 30 anni la stampa italiana, Milano, Garzanti, 1985.
- Italiani di fine regime, Milano, Garzanti, 1993.
- Il lungo addio. Intellettuali e PCI dal 1958 al 1991, Roma-Bari, Laterza, 1997.
- Illustrissimi. Galleria del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2006.

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08 agosto 2013

Italia e Francia: trovarsi, mancarsi

Occhio ai falsi amici, parole insidiose per gli ignari viaggiatori. Déjeuner  è un classico esempio di “falso amico” francese, non vuole dire “digiunare” ma addirittura qualcosa di opposto: “pranzo”. In linguistica i “falsi amici” sono appunto quei lemmi che, pur somigliando ad un'altra lingua, hanno  un significato diverso.   Francia e Italia sono falsi amici?  In questo libro,  Anais Ginori, giornalista franco-italiana de “La Repubblica”,  racconta, in modo scorrevole e gustoso, gli equivoci, le tensioni  e le passioni che hanno contrassegnato, in particolare negli ultimi anni, i rapporti tra i due paesi “cugini”. Italia e Francia  hanno grandi affinità storiche e culturali, ma ogni tanto affiorano tra loro incomprensioni e rivalità. Pensiamo ai due ex Presidenti Sarkozy e Berlusconi: hanno iniziato la loro carriera politica stimandosi, ma l’hanno finita odiandosi.  Ormai  è storica quella conferenza stampa a Bruxelles,  il 24 ottobre 2011, in cui Angela Merkel e Sarkozy, a una domanda  sulla credibilità di Berlusconi, si guardano in faccia e ridono.  In realtà, Silvio e Nicolas hanno avuto una parabola con diversi punti di contatto, persino  a  livello di vicende private (lasciati dalle rispettive mogli, sia pure con motivazioni diverse…), ed anche  un tramonto comune... Oggi c’è sicuramente maggiore consonanza  di vedute tra il premier francese Hollande e quello italiano Letta (dopo la parentesi Monti).  Anche sullo scenario  internazionale non sono mancati motivi di frizione negli ultimi anni, basti pensare alla questione della guerra in Libia, praticamente imposta a un Berlusconi riluttante e fino al giorno prima amico di Gheddafi. In realtà,  la rivalità-concorrenza tra i due paesi confinanti sembra non cessare anche nel dopoguerra, visti i rilevanti  interessi economici  tuttora in  gioco in quel paese. Lo stesso problema dell’immigrazione è stato al centro della disputa fra i due paesi “amici-nemici”, peccato che in gioco  c’era la  vita di persone in carne e ossa: quando centinaia di tunisini sbarcano a Lampedusa, l’Italia allarga le maglie dei controlli sui migranti  e inventa vari trucchi  per spingerli  verso la Francia. Si arriva al punto che al confine di Ventimiglia viene bloccato il traffico ferroviario dall’Italia.  E molti  tunisini che riescono ad arrivare  in Francia vengono rispediti indietro. Un caos. Eppure i due paesi non avevano sostenuto le rivoluzioni arabe  insieme e, ovviamente “per motivi umanitari”,  non erano alleati contro il  dittatore libico Gheddafi?
Un altro motivo di frizione riguarda  il tema del terrorismo.  In questo senso Sarkozy è stato coerente   con la  cosiddetta “dottrina Mitterand”, tesa a negare l’estradizione  a persone imputate o condannate, in particolare italiani, per atti violenti ma di ispirazione politica. Di fatto, in oltre trent’anni solo una estradizione è stata concretamente eseguita, quella di Paolo Persichetti. Caso emblematico è stato quello di Cesare Battisti, ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo, che ha vissuto molti anni in Francia, e che quando viene arrestato nel 2004 riesce a fuggire, semina i poliziotti nel metrò, si imbarca per il Sudamerica, dove verrà poi arrestato nel 2007 a Rio de Janeiro. Dirà di essere stato aiutato nella fuga dai servizi segreti francesi.
Anche nei media non manca la competizione. Qui un aspetto interessante è  stata l’avventura della “Cinq”, un canale privato francese, utilizzato da  Berlusconi, dal 1986 al 1992, per  esportare in Francia il modello “Canale 5”.  In realtà, quella  fu un’esperienza breve e travagliata, che finì con un dissesto finanziario, la  prima grave  sconfitta di Berlusconi, che, probabilmente, ha segnato il suo  declino come imprenditore internazionale e l’inizio della sua contrastata  avventura politica in Italia, in concomitanza di Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica.
Nel cinema un tempo Italia e Francia  avevano diversi punti di incontro, anche  per contrastare l’invasione dei film americani e rafforzare le proprie affinità elettive. Ma l’idillio di una volta oggi  è terminato, la concorrenza è aperta, tanto che  le pellicole italiane nel circuito  francese continuano a essere poche, mentre solo di recente sono aumentati i film francesi in Italia. Per il cinema italiano resiste però Cannes, dove hanno avuto successo film come Il Caimano, Il Divo, Gomorra. Forse da lì bisognerebbe ricominciare per rilanciare un discorso comune, dalla Croisette.
Il confronto fra i due paesi potrebbe continuare, dalla gastronomia allo sport.
Il libro, che avrebbe potuto anche essere titolato Falsi nemici, è ricco di testimonianze e aneddoti, anche gustosi,  su questa rivalità, fatta di incomprensioni, di scoperte reciproche,  ma anche di attrazione fra  due paesi,  così storicamente e culturalmente vicini, che  si guardano, si confrontano, competono, in una sorta di relazione più o meno amorosa, in cui è bello cercarsi, ritrovarsi, ma anche mancarsi.
Alessandra Panetta


Anais Ginori
Falsi Amici. Italia e Francia, relazioni pericolose
Roma, Fandango, 2012, pp. 206.



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01 agosto 2013

Zacinto mia!

Cari materani, una città è fatta innanzitutto di persone e inizia a morire se viene abbandonata.







Matera di qui, Matera di lì, Matera di su, Matera di giù...
Come molti altri, sono una materana che ha studiato a lungo fuori sede e che, tuttora, pur avendo tentato senza troppa convinzione di restare, ha scelto la via più "semplice": partire ancora.
Amo la mia città e a volte bastano quei due-tre caffè che pago in centro, quando ci sono, perché la mia coscienza si plachi, convinta di aver contribuito all’esistenza di Matera in vita, alla sopravvivenza della sua economia. Il peccato da cui quei pochi euro non mi assolvono di certo è quello di essermene andata. 
Credo che un po’ tutti noi fuorisede ci sentiamo colpevoli nei confronti di Matera, specie quando leggiamo le parole dure di chi è rimasto e forse ha più voce in capitolo di noi.
Il mio semplice contributo al dibattito vuole essere un invito a tornare per chi crede di potercela fare. In fondo, per quella che è la mia esperienza, la vita a Matera è meno dispendiosa e meno caotica di quella in un’altra città ics da Roma in su. E, a chi potrebbe ribattere che è meno dispendiosa e meno caotica perché ha meno da offrire, rispondo d’anticipo che si tratta di una caratteristica della nostra città, quella della placidità, che forse può non piacere a tutti in tutti gli stadi della vita ma che prima o poi si ricerca.
A mio avviso torneremo, con o senza il mio appello, perché Matera ci chiama, ci manca, e torneremo a maggior ragione se dovesse chiamarci in soccorso, qualora dovesse malauguratamente avverarsi la catastrofe, vagheggiata da alcuni, solo teorizzata da altri, della sua "fine".
Sabrina Colandrea


 
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