Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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31 gennaio 2012

Il cammino dei media

La Storia sociale dei Media copre un lunghissimo percorso che parte dall’invenzione in Europa del torchio tipografico (in realtà gli autori non si limitano all’Europa, ma cercano di espandere questa invenzione cruciale nella società in uscita dal Medioevo nei paesi dell’oriente) fino ai mezzi di comunicazione contemporanei. Epoca per epoca Briggs e Burke trattano i problemi sollevati dall’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione nel senso più ampio: non solo stampa e libri, ma anche le infrastrutture e le innovazioni tecnologiche come il telegrafo,il telefono, la radio, la televisione e finalmente internet. In modo semplice e talvolta persino troppo dettagliato sono rivelate le connessioni implicite tra questi fenomeni, non allontanandosi mai però dal contesto sociale, cioè dai mutamenti della cultura e della società.
La prima parte del libro tratta l’alba dell’era dell’informazione, andando oltre la società Europea e spiegando perché la diffusione del nuovo mezzo era rapida nel mondo occidentale e invece era ostacolata in Russia e nel mondo arabo. Gli autori pongono a se stessi e ai lettori la domanda, se l’avvento della stampa può veramente essere considerata la rivoluzione in se, oppure se chiamare questo fenomeno l’agente del mutamento è un’esagerazione. In ricerca di una risposta obiettiva Briggs e Burke consultano i rinomati storici come McLuhan, Ong, Eisentstein e altri. Più avanti questa domanda si trasforma nel dubbio che la rivoluzione tecnologica sia veramente il punto di rottura trai media “vecchi” ed i “nuovi”. Un’attenzione notevole è prestata alle tendenze di comunicazione orale e scritta nel contesto della Riforma, e di conseguenza ai diversi passi attuati in Europa ed in oriente verso l’alfabetizzazione e alle conseguenze politico-economico-sociali create da questo processo. A partire dall’800 Briggs e Burke parlano della “santa trinità” della comunicazione: informazione, educazione e intrattenimento, e se all’inizio i confini tra queste tre funzioni erano abbastanza definiti; durante il percorso ciò diventa chiaro perché negli anni duemila esse hanno perso la capacità di soddisfare il lettore autonomamente.
Gli autori offrono uno sguardo nuovo sulla storia dei media. Il trattato infatti non è una semplice raccolta precisa e accurata di dati, bensì una riflessione profonda e quasi psicologica sullo sviluppo dei media e della società trattati non come due cose autonome, ma come due fenomeni che dipendono l’uno dall’altro, controllano, alterano e si creano l’uno con l’altro. Lo sforzo di fornire sempre sia il lato positivo sia quello negativo su ogni innovazione nel campo delle comunicazioni dal punto di vista dei diversi settori della società, contribuisce all’obbiettività con la quale vengono trattati gli argomenti. Il libro risulta un ottimo approfondimento per due diverse categorie di lettori: quelli alla ricerca di dettagli (l’esempio adeguato è lo studio sulla resistenza alla censura seicentesca: gli autori individuano i diversi modi di resistenza, ognuno dei quali è scrupolosamente descritto) e quelli più affascinati dall’analisi dei fenomeni sociali. Colpisce la teoria sulla coesistenza del vecchio e del nuovo che penetra in tutto il lavoro. La tesi viene applicata a diversi campi dello sviluppo sociale: la coesistenza del linguaggio scritto e orale, l’uso del latino e delle lingue volgari, i giornali e internet ma anche dell’uso della bicicletta e delle macchine. Nonostante il titolo Storia sociale dei media, il saggio non si limita solo all’analisi della stampa, dei libri e degli altri mezzi di comunicazione, ma prende in considerazione anche lo sviluppo del sistema dei trasporti, l’istruzione, l’arte e a tanto altro – il contesto che porta la società medievale alla sfera pubblica e infine alla “società dell’apprendimento". - .
Julija Kuznecova



Asa Briggs e Peter Burke
Storia sociale dei media. Da Gutenberg a Internet

Bologna, Il Mulino, 2010
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29 gennaio 2012

La giornata della memoria

Alla fine del mese scorso ho ricevuto un invito alla presentazione di un libro, il cui tema: per non dimenticare l’Olocausto, alcuni giovani artisti hanno esposto le loro opere, allestite per, ed in ricordo dello sterminio nazista contro gli ebrei, vi è compreso un Workshop di progettazione: La stanza delle memorie: giovani artisti e Shoah. Si finirà con la pubblicazione di un libro che racchiuderà l’intero lavoro espositivo e testo letterario.
E’ un momento un pò caotico ed intenso per me, ma quasi sicuramente parteciperò; l’argomento mi rattrista ed avvilisce ma è bene non dimenticare ed è opportuno che alcuni si facciano carico di ricordarcelo ed ancora oggi ci si domanda, ma com’è che è potuto accadere tutto ciò? La società civile ed illuminata del tempo dove era?
Si ricordano fatti tragici e non degni dell’agire umano. Ha significato ancora oggi tentare di ripercorrere tali inaudite sofferenze e morti?
Al telegiornale nel frattempo riportano un passaggio del presidente iraniano, che proclama una futura guerra santa contro Israele, ed afferma che l’olocausto non è mai avvenuto... Ripenso al quesito sulla società civile e decido senza più alcun dubbio che parteciperò all’evento.
Per rispettare la memoria di quanto è accaduto in Europa prima del 1945 ed in ricordo degli olocausti odierni e passati (Ruanda, Congo, Asia, Armenia, Cile ecc.), io, quale membro di una società civile, ho il dovere di partecipare.
Sono tornata a casa con il mio nuovo libro: “La stanza delle memorie”. Sono triste perchè ho partecipato ad un lutto collettivo, ma sono stranamente appagata ed arricchita, posseggo un bel libro in più e ho preso le distanze da quella società dei miei progenitori che non hanno potuto o saputo opporsi affinchè non accadesse lo sterminio.
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da La stanza delle memorie. Giovani artisti e Shoa,  a cura di Renato Carpi, Genova, Libero di scrivere, 2010.
"Memoria storica: è quella componente delle memorie collettive e della memoria sociale che viene riconosciuta e codificata come “storia”.
Memoria individuale: capacità di un organismo vivente di conservare tracce della propria esperienza passata e di servirsene per relazionarsi al mondo ed agli eventi futuri.La funzione in cui si esprime la memoria è il ricordo, la cui diminuzione o scomparsa determina l’oblio; o peggio ancora come avviene oggi in alcune parti del mondo, la negazione dell’accaduto, la manipolazione degli eventi storici attraverso la distorsione, per far sì che possa essere giustificato l’agire e l’aggressione di oggi o in preparazione di un attacco futuro.
La memoria non è semplice conoscenza del passato sedimentata nella nostra mente, è anche capacità di sentire il proprio e l’altrui passato come qualcosa che continua a vivere dentro di noi, che segna i nostri comportamenti, le nostre scelte, che genera i nostri sentimenti, i nostri stati d’animo, che determina la qualità delle nostre relazioni sociali, che segna profondamente il nostro presente e prefigura il nostro futuro.
La memoria è un atto creativo".
                                                                                                            Marialuisa Paciello
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28 gennaio 2012

Scegli da che parte stare ...

Fiorella Mannoia nel suo ultimo album Sud" canta insieme a Franky Hi'nrg e Natty Fred il brano Non è un film, dedicato a chi scavalca il mondo per raggiungere le coste  italiane per costruire il proprio futuro.

Ascolta

Testo
Non è un film quello che scorre intorno che vediamo ogni ogni giorno che giriamo distogliendo lo sguardo. Non è un film e non sono comparse le persone disperse sospese e diverse tra noi e lo sfondo, e il resto del mondo che attraversa il confine ma il confine è rotondo si sposta man mano che muoviamo lo sguardo ci sembra lontano perchè siamo in ritardo, perenne, costante, ne basta un istante, a un passo dal centro è gia troppo distante, a un passo dal mare è gia troppo (battaglia ?), ad un passo da qui era tutta campagna. Oggi tutto è diverso una vita mai vista questo qui non è un film e non sei protagonista, puoi chiamare lo stop ma non sei il regista ti puoi credere al top ma sei in fondo alla lista
Questo non è un film e le nostre belle case non corrono il pericolo di essere invase, non è un armata aliena (mandata?) sulla terra, non sono extraterrestri che ci dichiaran guerra, son solamente uomini che varcano i confini, uomini con donne vecchi con bambini, poveri con poveri che scappan dalla fame gli uni sopra gli altri per intere settimane come in carri bestiame in un viaggio nel deserto rincorrono una via in balia dell'incerto per rimanere liberi costretti a farsi schiavi stipati nelle stive di disastronavi come i nostri avi contro i mostri e i draghi in un viaggio nell'inferno che prenoti e paghi sopravvivi o neghi questo il confine perchè non è un film non c'è lieto fine
scegli da che parte stare, dalla parte di chi spinge, scegli da che parte stare, dalla parte del mare
questo sembra un film di quelli terrificanti
dalla Trasilvania non arrivano vampiri ma badanti,
da Santo Domingo non profughi o zombie,
ma ragazze condannate a qualcuno che le trombi
dalle Filippine ... pure dal Bangladesh
dalla Bielorussia solo carne da lap dance
scappano per soddisfare vizi e sfizi nostri
loro son le prede noi siamo i mostri
loro la pietanza noi i commensali
e se loro son gli avanzi noi siam peggio dei maiali
pronti a divorare a sazietà
pronti a lamentarci per la puzza per la ... umanità
che ci occorre, ci soccorre, ci sosttenza
questo non è un film ma vedrai che lo diventa
tu stai attento e tienti pronto che al momento di girare i buoni vincon sempre, scegli da che parte stare.
scegli da che parte stare, dalla parte di chi spinge, scegli da che parte stare, dalla parte del mare
scegli da che parte stare, dalla parte di chi spinge, scegli da che parte stare, dalla parte del mare
scegli da che parte stare, dalla parte di chi spinge, scegli da che parte stare, dalla parte del mare.

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27 gennaio 2012

Libri ri/trovati

Dino Buzzati 
La «nera». Crimini e misteri-Incubi
Milano, Rizzoli, 2002, 2 voll., 651 pp.
Descrizione
I volumi raccolgono gli articoli di cronaca nera scritti da Dino Buzzati per il "Corriere della Sera" e il "Corriere d'informazione" in un arco di quasi trent'anni. L'autore di Il deserto dei Tartari fu, infatti, prima ancora che narratore, giornalista. Entrato nella redazione del quotidiano milanese nel 1928, Buzzati fu cronista, redattore e quindi inviato, e questi testi offrono interessanti spunti di riflessione sull'attività giornalistica nonché su quella narrativa dello scrittore di Belluno.
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26 gennaio 2012

Libera e Don Ciotti

"Libera a Genova, Libera in Liguria. Per festeggiare a Genova la giornata della memoria e dell'impegno del 17 marzo 2012. E' una scelta naturale. Un'altra grande e storica città del nord, dopo le esperienze di straordinaria partecipazione di Torino e di Milano. Perchè ce lo stanno raccontando i processi, ce lo stanno dicendo ripetutamente le cronache e gli studi: è il nord ormai la vera terra di conquista delle mafie."

Così comincia la prefazione al Dossier Liguria presentato oggi da don Ciotti ai ragazzi del liceo scientifico e classico "Martin Luther King" di Genova. Don Ciotti, sacerdote sempre attivo nella lotta contro la mafia, riesce ad incantare ancora una volta la platea di giovani, raccontando le storie che vive per combattere la criminalità organizzata.
L'associazione strappa a fatica le terre sequestrate alle mafie, coltiva queste terre per poi rivedere i prodotti con il marchio Libera terra e togliere così tanti giovani che sarebbero ottima manodopera per la criminalità. Don Ciotti racconta quanto sia importante non lasciare sole le famiglie delle vittime della mafia e chi cerca di ribellarsi a questo mondo corrotto, collaborando con la giustizia. Come Rita Atria, una ragazza di diciotto anni, della provincia di Trapani, che nel '91 decide, dopo l'uccisione del padre e del fratello, di collaborare con la giustizia, contro il volere della madre. La famiglia la disconosce e le fa da secondo padre Borsellino. Ma dopo la sua morte, la ragazza viene abbandonata dalla giustizia ed arriva, esasperata, al suicidio. La ragazza è sepolta in una tomba senza nome, senza una foto sua, ma con quella di una donna di cinquant'anni. La storia risuona nella palestra della scuola quasi come una storia di barbarie commesse in un luogo lontano; una ragazza chiede, infatti, quando nasce la mafia, come fosse solo un pezzo di storia, ma forse la domanda corretta sarebbe: quando finisce?
Già, perchè Don Ciotti viene proprio nelle scuole a raccontare che non solo il fenomeno non scompare al Sud, ma si espande al Nord, intaccando anche la Liguria.
Tendiamo a pensare che il "Male mafioso" riguardi solo una parte del corpo-Italia, e che quindi sia facilmente "curabile", ma in realtà comprende vastissime aree.
Ad esempio, nella nostra regione sono, purtroppo, ben radicate associazioni mafiose che gestiscono il riciclaggio, il gioco d'azzardo, e soprattutto i rifiuti.
Le cosiddette Ecomafie sono in crescita del 12%, con 233 infrazioni penali accertate, 194 denunce, 2 arresti e 32 sequestri. E di beni confiscati alla mafia nella nostra regione ce ne sono 32, forse ancora troppo poche per essere efficace strumento di lotta.
E purtroppo ci sono anche delle vittime, come Dario Capolicchio, studente di architettura di La Spezia, di 22 anni, morto a Firenze in una strage terroristica nel 1993. Piacerebbe dire "l'ultima strage", ma è utopia; o forse è utopia credere che questo possa essere dimenticato fino a che esisteranno persone come don Ciotti, pronte ancora a raccontare.
Manuela Prigelli

25 gennaio 2012

Little Italy

Leggere questo libro porta con sé, fin dalla prima pagina, l’idea di addentrarsi in un lungo viaggio racchiuso e suddiviso in piccole matrioske che si aprono, una dopo l’altra, capitolo per capitolo. E’ una storia dell’Italia che percorre luoghi, tempi, spazi e idee attorcigliandosi dentro se stessa come una scala a chiocciola che scende in uno stretto pertugio. E’ una sorta di mini-dizionario e contemporaneamente un’enorme enciclopedia di una Storia dell’informazione letteraria, intesa nel suo significato più esteso, che spazia dalla notizia alla critica ad altre forme, una storia che è anche storia della politica, della società e della cultura, del giornalismo, dell’editoria libraria, della letteratura italiana. E’ un cassetto che racchiude un’essenza della nostra storia e ha sicuramente il merito di rappresentare un primo discorso unitario sui diversi processi finora studiati separatamente o non ancora studiati andando decisamente a colmare un vuoto bibliografico e storico critico.
La scelta di Ferretti e Guerriero è stata quella di dividere e periodizzare quest’opera in sei fasi distinte dal 1925 fino al 2009 sulla base di ragioni storico-politico-culturali generali e critico-informativo-letterarie spesso convergenti tra loro, distribuendo questo viaggio in tante diverse "Little Italy", ognuna da assaporare in tutta la propria fragranza.
E cosi via col primo periodo (1925-1945) che passa attraverso i totalitarismi e la Seconda Guerra Mondiale, dal superamento della crisi Matteotti e all’approvazione della nuova legge di stampa, alla presa totale di controllo dell’informazione, da Galeazzo Ciano agli "insegnamenti" di Goebbels fino ai giornali in camicia nera, la radio ( Uri 24, Eiar 28, Rai44) e i nuovi settimanali; Radio Firenze liberata nel 1944 e un puzzle di antifascisti, fascisti, cattolici, il partito comunista, Gramsci e Togliatti. Il rilancio del romanzo, la Mondadori, Bompiani, passando per Moravia,Vittorini e Buzzati: il bavaglio del Fascismo e la fine del conflitto.
Il secondo periodo spazia dal 1945 al 1956, con la frattura del dopoguerra, le epurazioni fasciste e il progetto democratico, la scissione di Palazzo Barberini del 1947 con l’allontanamento di Saragat dal PSIUP e la fondazione del PSDI; le elezioni del 1948 che portano verso la normalizzazione, e che aprono la lunga serie di governi democristiani centristi. La settorizzazione della produzione verso il capitalismo, la narrativa regina del mercato, l’importanza della terza pagina, Montale, Bo, Pampaloni, Bassani, Sereni, Cajumi e Fortini.
Il ventesimo congresso del PCUS nel 1956 apre il terzo periodo, con Cruscev che denuncia le purghe e le limitazioni alla libertà decise da Stalin, passando per lo sviluppo industriale e il boom economico italiano, la legge-truffa del 53, la nascita nel 1954 della tv, il Giorno di Cino Del Duca nel 1956, la parabola di Mattei fino al 68.
Il quarto periodo, dal 1968-80, si apre con le contestazioni studentesche e operaie con le loro istanze anti istituzionali e anticapitalistiche, precedute e accompagnate dai contraccolpi e dalle suggestioni della guerra del Vietnam: hanno un marcato valore simbolico e una decisiva pregnanza politica, avviando e improntando un periodo di conflitti e trasformazioni per la società italiana con esiti contraddittori, fino al 1980 che rappresenta la caduta di questa tensione e il nascere della rivoluzione dei consumi culturali. La fine del centrosinistra, la strage di Bologna nel 1980, il terrorismo rosso e l’ uccisione di Aldo Moro nel 1978; il boom delle televisioni e delle radio locali nel 1975 fino ai primi passi di Fininvest nel 1978.
Il penultimo periodo (1980-1992) è considerato quello della rivoluzione nei consumi. La morte di Berlinguer 1984, il declino del Pci negli anni del craxismo, il crollo del muro di Berlino il 9 novembre 1989 e il successivo crollo dell’unione sovietica e dello stesso Pci nel1991. Nel 1992 una grave crisi economica , sociale e politica investe l’Italia, la nuova era digitale, l’impero di Berlusconi e la scalata Fininvest, la legge Mammì che regolamenta il sistema televisivo e sancisce il duopolio Rai-fininvest, i fogli trovati a Castiglion Fibocchi in provincia di Arezzo a casa di Licio Gelli e lo scandalo P2.
L’ultimo periodo parte dalla crisi del 1992 fino all’attuale crisi dei giorni nostri, passando da tangentopoli alla dissoluzione del vecchio sistema partitico, dagli squilibri del capitalismo al G8 di Genova, all’attentato dell’11 settembre 2011 alle torri gemelle.
La grande innovazione di questo libro risiede nel metodo unitario e sistematico con il quale sono state seguite, selezionate e misurate sia le pagine culturali di quotidiani e periodici d’attualità, sia le riviste letterarie, sia le diverse forme d’informazione letteraria. Ad esse si affiancano, a mano a mano, informazioni estrapolate da radio, tv e internet, dando una prima ricostruzione anche del reticolo di intellettuali che le attraversa tutte e che appare sempre più esteso nel tempo, oltre a notiziari editoriali, bollettini di Club del libro, pubblicità, festival, fiere, convegni, mostre; oltre a trattare le diverse politiche e formule dell’informazione letteraria: recensione, scheda, articolo, intervento, servizio, testo, inedito, necrologio, notizia e alla consultazione di archivi, teche, biblioteche, spogli diretti, parziale o completi di argomenti di cultura primaria quali teatro, cinema, musica, e radiotelevisione.
Storia dell’informazione letteraria è un diario di viaggio di non facile interpretazione, dotato di un orientamento elitario; è un’opera robusta, corposa, complessa, in cui non tutti sono in grado di seguirne la rotta, a causa dell’immensa mole di variegate informazioni che vi sono contenute. Ma allo stesso tempo è un prezioso trolley di conoscenze nonché una bussola affidabile per coloro i quali intendono affrontare un lungo viaggio nel mare sconfinato dell’informazione letteraria.
Stefano Ciccone

Gian Carlo Ferretti - Stefano Guerriero
Storia dell'informazione letteraria in Italia.
Dalla terza pagina a internet (1925-2009)
Milano, Feltrinelli, 2010, 451 pp.

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24 gennaio 2012

In libreria

Francesco Prisco
Bomba carta. Processo al Sistema delle concentrazioni editoriali
Napoli, Guida Editore, 2011, 331 pp.
Romanzo. Sei grandi gruppi controllano il 90% del mercato dell'editoria, un'organizzazione eversiva di scrittori anonimi infligge pene esemplare a critici, giornalisti e uomini d'affari "asserviti al sistema delle concentrazioni editoriali", un commissario della Digos di Roma prova a sbrogliare i fili dell'intricata matassa che avvolge l'intero Paese. Bomba Carta è un fantapolitico sui limiti e le possibili derive di ogni concentrazione di potere.
*Link al sito dell'autore e alla presentazione del libro sul sito dell'autore.
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23 gennaio 2012

...Azzurro, grigio e verde: Raffaella Marinacci....

Un alone di luce fioca attraversa, come d’incanto, le tapparelle semisocchiuse del suo studio, illuminandole il volto per un preciso istante…. un quadro. Il sorriso dietro la tela, il suo odore inconfondibile di acquaragia: questa era Raffaella Marinacci, in arte Lella Ciccone, una tavolozza sempre in mano, i pennelli ordinati e il cavalletto a vista, la sua pennellata distinta e riposante.
Lella nasce ad Avezzano il 6 agosto 1920, ultimogenita di 4 figli. Il padre, Luigi Marinacci, è uno dei tre capofabbrica dello Zuccherificio di Avezzano. La mamma di Raffaella, Giulia Galletti, muore di tifo qualche settimana dopo averla data alla luce. Raffaella, incomincia a prendere in mano i pennelli fin da piccola, e nonostante non riesca a seguire gli studi che avrebbero desiderato fare, inizia a disegnare e a dipingere, esercitandosi per anni e anni nella copia delle opere di altri artisti. All’età di 18 anni copia una natura morta ottocentesca molto bella, unica tela della sua giovinezza che viene conservata.
Dopo essersi sposata interrompe la pittura per qualche anno, riprendendola dal 1955, per non abbandonarla mai più. E’ in questa epoca che inizia a produrre dal vero tutto ciò che la colpisce: “fiori in vaso”, “tavola con pesci”, “riva del mare con stelle marine”, “ricci e gambero”, “tavolo con selvaggina”, sono alcune delle sue prime opere. Dal 1960 vive con la famiglia a Treviso, dove il ricco paesaggio veneto di verde e di acque la ispira a produrre paesaggi, case, viali alberati, marine veneziane. Numerosi sono anche gli interni con figure. Trasferitasi con la famiglia a Padova nel 1972, inizia a viaggiare e a trarre ispirazione dai paesaggi di regioni italiane del sud e della Liguria. Nel 1979 consegue il Certificato di Studio dell’Accademia di Roma in “Storia e tecnica del disegno e delle arti grafiche”. Studia la tecnica del nudo e l’arte dell’incisione, iniziando a produrli. In quel periodo è massimala sua partecipazione a mostre e concorsi. Con uno di questi nudi vince nel 1979 il primo premio assoluto di corrente al Concorso Nazionale Gran Premio Veneto che si svolge a Vicenza.
La sua pennellata è carica di calde e dense tonalità di una tradizione figurativa paesaggistica, che oltre alle nature morte, ai fiori e agli scorci urbani, si esprime nelle intense vedute di Venezia e della riviera ligure, palpitanti di colori caldi e di luce, nonché di una grande carica emotiva.
L’immagine in questi casi porge contorni quasi magici e al classicismo elegante si innesta una vivace sintassi impressionistica. L’eleganza formale, la preziosità cromatica e il sapiente gioco dei riverberi luministici in lei non sono mai in termini di un freddo descrittivismo accademico ma spesso connaturati ad una sincera sensibilità poetica ed emozionale, ad una ispirazione spontanea, ad una serena affabilità umana e sentimentale. Azzurro, grigio e verde: nei suoi oli possiamo ammirare lo spettacolo incantevole di paesaggi luminosi come il Brenta, Asolo e dintorni, dove Lella Ciccone rivela l’amore per la semplice ma vera poesia utilizzando un linguaggio pittorico intriso di un fascino e una sensibilità fuori dal comune. Ogni sua opera è frutto di una elaborazione impegnata e costante, un’innata purezza tecnica e concettuale da cui nasce un quadro pulito, sereno, non privo di malizia, ma dolce, leggero ed elegante. La disinvoltura del tocco, la vivacità della tavolozza e l’aderenza alla realtà sono un’ esigenza spirituale del profondo animo della pittrice che dimostra, con evidenza, il suo profondo anelito a realizzare un mondo sereno, pacato,libero.
Alla prematura età di 74 anni, un male oscuro offusca la luminosità dei suoi occhi e spegne la dolcezza del suo sorriso, ma fallisce nell’intento di portare via con sé quel frammento della sua interiorità, riconducibile a una foto, un ricordo, un’immagine o meglio un quadro … cantore dell’anima, rapsodo di una speranza immortale. Era mia nonna.
Stefano Ciccone

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22 gennaio 2012

Concordiamo l’accaduto

Cosa è accaduto realmente nella nave Costa Concordia? Alle ore 21.42 del 13 gennaio c’è stata la collisione, avvenuta in seguito ad una manovra azzardata (finalizzata a fare il saluto con “l’inchino”). Manovra che a sentir Schettino fu effettuata da lui già altre volte in passato. Alle 22.05 la nave comunica il black out ma non la collisione con gli scogli e l’acqua imbarcata. Solo alle 22.58 Schettino ordina di abbandonare la nave. Una delle domande che sorgono spontanee è per quale motivo siano trascorsi ben 53 minuti tra l’urto e l’ordine di Schettino. Ordine seguito diligentemente dallo stesso Comandante, il quale ha abbandonato per primo il transatlantico e ha tentato di discolparsi affermando di essere caduto nella scialuppa di salvataggio insieme agli altri ufficiali (evidentemente anch’essi scivolati sbadatamente nella scialuppa con lui). I primi passeggeri vengono portati in salvo sulle scialuppe alle 23.15 (ben un’ora e un quarto dalla collisione) e Schettino non risale sulla nave nemmeno in seguito alle esortazioni del Comandante della Capitaneria di Livorno, De Falco. Tante, troppe, le domande che sorgono e poche sono le risposte credibili. Credibilità è infatti una parola che si incontra sovente stampata sui giornali esteri per descrivere gli accadimenti della tragedia della Costa Concordia. Ad affondare insieme alla nave non è dunque il Capitano, ma la credibilità degli italiani. Presto il numero delle vittime e le vite dei familiari andate in pezzi verrà dimenticato, perché in quest’epoca del presente lo stesso presente diventa passato troppo in fretta e la memoria brucia e si disperde nel nulla. Le fasi che attraversiamo sono: stupore, indignazione, rabbia e rassegnazione. Cerchiamo una vendetta imminente (che non ricade quasi mai su nessuno in realtà perché la maggior parte dei reati finisce in prescrizione), ma i problemi che stanno a monte rimangono dove sono. La soluzione migliore sarebbe quella di porre (e attuare) sanzioni severe per chi viola i regolamenti e non solo; anche per coloro che, complici, non denunciano la trasgressione di tali regole. Ma leggendo le righe soprastanti la maggior parte dei lettori penserà: «Si, vabbè, ma siamo in Italia, ognuno fa ciò che vuole», ed ecco manifestarsi l’ultimo stadio di cui parlavo poc’anzi: la rassegnazione che ci pervade. Questo è però l’atteggiamento che alimenta gli errori e l’imperizia. Concordiamo allora almeno su questo punto: sulla necessità cioè di non dimenticarci della tragedia della Costa Concordia non appena questa verrà rimossa dagli scogli dell’Isola del Giglio.

Silvia Civano

21 gennaio 2012

Scaffale amico

Francesca Astengo
Le grandi firme della critica televisiva in Italia (1954-2000)

Tesi italiane, 2012.

Introduzione

"Faccio un’ipotesi. La televisione è arrivata soltanto quarant’anni fa. Loro sono un po’ distratti. Si sa come sono fatti, gli intellettuali. Tanto intelligenti, ma anche un pochino lenti. Non si sono ancora accorti che è stata inventata."
BENIAMINO PLACIDO


Sergio Saviane era solito dire, con il suo brillante e generoso anticonformismo, che la critica ha una figlia legittima che si chiama satira. Apparentemente – e il lettore si accorgerà di quanto questo avverbio sia fondamentale per cambiare continuamente l’ordine delle carte, già ben rimescolate, di questa tesi – la matrice teorica del “giudizio”, autonomo e autoritario, lega a filo doppio le due discipline esegetiche. In realtà, nessun cittadino del “secolo dei media” si sentirà disposto a negare, se interpellato, che tra satira e critica scorre un fiume immenso, di autorevolezza e di credibilità, di stroncature indorate dall’alto e di trovate geniali miseramente cestinate. Non vi è dubbio, nella prassi e nella storia, che tra Francesco De Sanctis, il buco nero da cui nacquero Benedetto Croce e tutta la scuola critica italiana del Novecento, e Bobo - per citare il personaggio da vignetta forse più famoso - intercorrono differenze non ignorabili, che fomentano l’interpretazione della presunta filiazione individuata dal critico dell’”Espresso” in termini essenziali di grandezze. La satira è più piccola, pesa meno, parla a bassa voce anche quando urla, perché sa di pronunciare parole meno degne; la critica, dall’alto – e in molti casi è pur vero – della sua scienza infusa e sterminata, ha il pollice di Cesare, decide cosa è vivo e cosa deve morire.
Tutto vero, se si tralascia la critica della televisione. Il “convitato di vetro”, come amava chiamarlo Luciano Bianciardi nel simposio del suo divano, sconvolse da subito sia le caratteristiche estetiche a cui le accademie erano abituate, sia quelle temporali. D’improvviso, nei pochi giovedì che servono al televisore per raggiungere i salotti più comodi della penisola, s’instilla il bisogno di analizzare uno spettacolo innovativo e inconsueto e di renderlo fruibile, allo scritto sul quotidiano del mattino, tralasciando che l’evento è ormai passato per sempre.
Parole buttate al vento, la critica televisiva.
Al vento nella dimensione in cui, come Umberto Eco coglie dal principio, la televisione non è arte e gli strumenti dell’estetica tradizionale non possono rovistare tra la monnezza. Al vento perché chi non è scoliaste di un fenomeno creativo puro, non ha nessun diritto di essere annoverato nell’Olimpo della critica e il suo giudizio perde, istantaneamente, ogni brillio di verità e di autorevolezza. A queste deformazioni congenite del mezzo televisivo si aggiunge, prepotentemente, lo spunto virale del pregiudizio. Non solo – si legge tra le righe nei giorni paleotelevisivi – la televisione è poca cosa e per giunta brutta, ma, per occupare il suo palinsesto, è costretta a filtrare e triturare le “cose che contano”. È il caso degli sceneggiati televisivi tratti dai grandi classici della letteratura che si rialzano, alla fine del round, sempre stanchi e tumefatti; fa la stessa fine, con implicazioni logistiche oltre che etiche, il cosiddetto “teatro televisivo”, snaturato dalla compressione del palcoscenico e del loggione in venti pollici piatti. Infine, anche l’arte più bistrattata prima dell’avvento, salvifico, della tv e ultima ruota del carro dell’evoluzione umana – per come era considerato all’inizio del secolo, non è un nostro giudizio -, il cinema, ha le sue rimostranze da fare. Perché il cinema, anche se trasmesso in televisione, resta cinema ed è competenza del critico cinematografico.
Si sarà compreso, a questo punto, che le “grandi firme” di cui si parla nel titolo difficilmente furono considerate tali nel pieno della loro attività. C’è chi per sposare la televisione diventò asceta, come Ugo Buzzolan nel suo stanzino, c’è chi, come Achille Campanile, fu, forse per sua fortuna, sempre considerato “altro” e preso poco sul serio, come se l’etichetta da “umorista” che gli erano valsi i suoi strabilianti romanzi fosse la patente per uscire dai giochi. Sergio Saviane fu sempre tacciato d’alcolismo; Beniamino Placido fu ferocemente invidiato. Anche dopo la riforma della Rai e, in seguito, il crollo del monopolio che spalanca le porte dell’etere alle emittenze private, se la televisione è lentamente e progressivamente accettata, la critica resta una spina nel fianco. Suoi delatori, che prima erano gli intellettuali di cartello e i settori culturali dei giornali che fanno opinione, diventano nientemeno che gli addetti ai lavori. Via Teulada, corso Sempione, viale Mazzini e il Babuino sono fortezze stravaganti e blindate, da cui l’informazione esce rimasticata e addolcita secondo i voleri di palazzo, mentre l’intrattenimento fa la muffa nei suoi schemi del passato.
Ritornando all’affermazione iniziale di Saviane, credo che la filiazione da lui individuata volesse suggerire ben altro. La critica, ma solo il magnifico e pessimo mondo della televisione ha saputo dimostrarlo, conserva al suo interno una radice comune a quella della satira. L’aveva dentro in origine, ma i secoli di bambagia a cui la connivenza, derivata dal necessario scambio, con le arti riconosciute e affermate l’hanno fatta scivolare nell’oblio dei velluti e degli ori. La critica, avendo a che fare con la televisione, deve tornare a combattere e quel che di satirico si nasconde nei soldati di questa battaglia – soldati apocalittici e soldati integrati – è la capacità di togliersi i guanti e sporcarsi le mani.
Edoardo Sanguineti, nella sua Critica in poltrona (1978), incalza la polemica brechtiana contro la critica teatrale definita “culinaria” – quella che nella lingua catodica si traduce in anteprime, promozioni, interviste, servilismi – suggerendo che il critico perfetto, quello che la scampa, dovrebbe essere un po’ miope e un po’ presbite; non solo difettato, ma anche distaccato e sornione. Il recensore ideale, per Sanguineti, va a teatro con un grosso sigaro e si guarda bene dal dimenticarlo, evitando di farlo spegnere sebbene sotto i suoi occhi scorrano le meraviglie più stupefacenti sulla faccia della terra. Il critico televisivo – l’esempio è illustre e arguto – dev’essere tutto questo e anche, suo malgrado, turarsi il naso. Solo con i sensi appositamente allenati si coglie il giusto atteggiamento verso un media così controverso, che racchiude in sé istanze artistiche poco palesi e discutibili, che si impone, per natura, il fine irrealizzabile di essere al contempo “popolare” – con tutti i difetti che la definizione si porta appresso dai meandri reconditi dell’attestazione della grande cultura – e di qualità. La denuncia del critico televisivo, che non sviscera dal proprio contesto le discussioni sul metodo e sui paradigmi che sono propri della critica sui generis, si scontra con poteri che vanno aldilà dello spettacolo, che si addentrano nella più viva lotta politica e che toccano da vicino le corde della manipolazione dell’opinione pubblica e della propaganda neanche troppo subliminale.
Parole controvento, la critica televisiva.
Lo scopo di questo lavoro è, in sostanza, quello di fare criticamente chiarezza sulle figure - Luciano Bianciardi, Achille Campanile, Sergio Saviane e Beniamino Placido – che sole, o quasi, hanno saputo, con stratagemmi, convinzioni e disposizioni spesso opposte, atterrare nell’arena dello spettacolo televisivo per sconfiggere il pregiudizio e denunciare, senza mai scendere a compromessi, i sotterranei accordi, le viltà e le contraddizioni di trent’anni d’Italia, fuori e dentro la tv.
Una precisazione è doverosa per quanto riguarda l’apparato del lavoro. Storie della critica televisiva ne sono state scritte alcune. L’obiettivo, in questa sede, era duplice e nasceva dalla necessità del confronto che proprio i testi-guida, di fine ricercatezza e memorabile suggestione, hanno saputo stimolare. Si è cercato, con i pochi mezzi a disposizione, di conservare, e se possibile, ampliare la sistematicità propria del testo di Elena Dagrada (A parer nostro. La critica televisiva nella stampa quotidiana in Italia, 1992) che è il vero punto di partenza di questa tesi ma, focalizzandosi in maniera più tecnica sul contesto degli anni ’90 e sulle specifiche editoriali delle testate, si conforma come un libro per gli addetti ai lavori. Questo non vuole esserlo e si ripropone, senza ambizioni, di abbozzare le linee guida, storiche e interpretative, che al lettore “esterno” possano suggerire almeno un’idea del contesto in cui si muovono i nostri personaggi.
In secondo luogo - e il rimando va alla brillante ricostruzione famigliare della critica televisiva redatta da Nanni Delbecchi (La coscienza di Mike, 2009) - si è sentito il bisogno di ridurre la fortunatissima parte aneddotica dei racconti dei critici, per dare invece più spazio ai testi e all’analisi, essenzialmente letteraria, dello stile e della composizione, come il corso dei miei studi umanistici mi ha reso propensa a fare.
La conclusione, tutta personale, è un invito alla rilettura di questi autori che non meritano di essere dimenticati. Mai come oggi la loro parola è attuale, il loro stile raggiante, il loro insegnamento una guida per sopravvivere alla modernità. Non solo televisiva.
Francesca Astengo

*Francesca Astengo si è laureata in Informazione ed editoria (laurea magistrale) presso l'Università degli studi di Genova con la tesi ora pubblicata da Tesi italiane. Il libro è acquistabile sul sito tesi italiane.it.
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20 gennaio 2012

Strindberg in scena al Teatro della Corte di Genova

Valeria Solarino porta in scena al Teatro della Corte di Genova La Signorina Giulia, spettacolo tratto dalla tragedia in atto unico del 1888 di August Strindberg, Fröken Julie.
Le rappresentazioni, che hanno avuto inizio lo scorso martedì 17 gennaio e proseguiranno fino a domenica 22 gennaio, hanno finora riscosso alto successo e la Signorina Giulia della Solarino sembra essere stata molto apprezzata dal pubblico genovese.
La tragedia di Strindberg si svolge nella Svezia conservatrice di fine '800, precisamente durante la "Midsommarnatten", la notte di mezza estate, che -si pensi a Shakespeare- occupa tanta parte dell'immaginario dei paesi del nord Europa: tradizione vuole che durante questa notte dedicata a San Giovanni, si cada preda della voluttà dei sensi e ci si abbandoni a scatenamenti orgiastici. È in questa notte magica che la contessina Giulia, la padrona, e Giovanni, il servo di suo padre, varcando la soglia della distinzione di classe e andando contro al perbenismo imposto dalla retriva società svedese dell'epoca, si abbandonano al piacere, superando la consueta distinzione tra uomo e donna, servo e padrona, ritrovandosi preda di un vorticoso gioco un po' perverso, in cui tutti i ruoli sembrano invertirsi in modo inverosimile e paradossale. Sconvolgimento dei ruoli ed esperienza del diverso, dunque. Con tanto di discesa agli inferi. Il tema della discesa di Giulia è costante (scende nella cucina, regno sprofondato della servitù, dove ha luogo tutta la tragedia, compreso l'epilogo tragico, e discende nel sogno, richiamata da una forza che la attira verso il basso, cui non sa resistere). Ella scende fisicamente, recandosi nella "funesta" cucina, e metaforicamente, poiché desiderosa di contravvenire alle regole imposte, spogliandosi dei suoi abiti nobili e mischiandosi alla servitù. A fare da contraltare alla discesa c'è, dall'altro lato, il movimento in senso opposto, verso l'alto, che caratterizza il personaggio del servo Giovanni: opportunista sfacciato, Jean brama con cupidigia ossessiva la scalata sociale e sogna di arrampicarsi su un albero, sempre più su, fino a raggiungerne le vette più alte.
Valeria Solarino, attrice nata artisticamente alla Scuola dello Stabile di Torino (dove lo spettacolo è stato presentato in anteprima assoluta lo scorso 11 gennaio) e di ritorno a teatro dopo i successi cinematografici (La felicità non costa niente, Fame chimica, Manuale d'amore, e molti altri, fino al più recente Ruggine, del 2011, al fianco di Filippo Timi, Stefano Accorsi e Valerio Mastrandrea) interpreta una Giulia che diventa, in linea con gli intenti strindberghiani, una giovane donna in biblico spregiudicatezza ed isteria. Proprio l'autore del dramma, infatti, "ispirato" da un esperimento di ipnosi cui aveva assistito a Parigi presso l’ospedale della Salpêtrièreaveva, aveva voluto da subito una Giulia che andasse oltre, nevrotica e isterica, che scandalizzasse. E non è certo casuale che proprio con una singolare seduta di ipnosi, cui l’autore invita a partecipare tutta la comunità degli spettatori, si chiuda tragicamente la parabola della signorina Giulia. Valter Malosti, regista e attore a fianco della Solarino nel ruolo del servo, riesce abilmente a dare rilievo ai temi e alle atmosfere nordiche, comuni alla tradizione di Strindberg e Ibsen, e ad interpretare un Giovanni spregiudicato, a tratti romantico, a tratti di un'inquietante malvagità. Bravissima anche Federica Fracassi nei panni di Cristina, cuoca legata sentimentalmente a Giovanni: espressiva e verace, nei panni della popolana povera ma dignitosa, con uno spiccato accento tra il bresciano e bergamasco, a sottolineare la provenienza dagli strati più bassi e la mancanza di istruzione.
Al rispetto della migliore tradizione del teatro scandinavo, Malosti affianca elementi palesemente innovativi e moderni: tutta la piècesi svolge nell'ambito di una scenografia (voluta da Margherita Palli) povera ed essenziale, quasi scarna, sempre uguale e claustrofobica. In questa sorta di gabbia, con antri che accolgono i protagonisti sempre più in basso, nel ventre del palcoscenico,"Malosti e la Solarino si scatenano in un gioco ritmato da musiche techno che sembrano alludere al tonfo inarrestabile di un cuore impazzito." (La Stampa)
Elettra Antognetti
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19 gennaio 2012

In libreria

Gianpaolo Pansa
Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani

Milano, Rizzoli, 2011, 428 pp.


"Ho cercato di scrivere pagine schiette, al limite del sarcasmo. Spero che i tanti vip narrati in Carta straccia mangino un po’ di rabbia per l’irriverenza di un vecchio giornalista che non appartiene a nessun clan. E si diverte ancora a tirare sassi contro i vetri blindati di molte eccellenze.” G.P.

Descrizione
Carta straccia non è un pedante trattato sui media. È un libro carogna, un racconto all’arma bianca, sornione e beffardo, pieno di ricordi. Mette in scena una quantità di personaggi, tutti attori di una recita alla quale ho partecipato anch’io: l’informazione stampata e televisiva, di volta in volta commedia o tragedia. Sono un signore che ha trascorso cinquant’anni nei giornali, lavorando in molte testate con incarichi diversi. Che cosa ho capito della mia professione? All’inizio pensavo che avesse la forza di un gigante, in grado di vincere su chiunque. Poi ho cambiato opinione: in realtà, il nostro è un potere inutile, serve a poco, non conta quasi nulla rispetto a quello politico, economico e giudiziario. Il perché lo spiego in Carta straccia. Dopo un’occhiata al passato, la mia prima macchina per scrivere e l’apprendistato ferreo imposto da direttori senza pietà, vi compaiono i capi delle grandi testate di oggi. E i misfatti delle loro truppe. La faziosità politica dilagante. Gli errori a raffica. Le interviste ruffiane. Le vendette tra colleghi. Lo schierarsi in due campi contrapposti, divisi da un’ostilità profonda. Il centrodestra, dove si affermano Maurizio Belpietro e Vittorio Feltri, con le campagne di stampa condotte senza guardare in faccia a nessuno. E il centrosinistra, dominato dalla potenza guerrigliera di Ezio Mauro e dalle ambizioni politiche di Carlo De Benedetti, nemici giurati di Silvio Berlusconi. Accanto è esploso il bubbone dei talk show televisivi. In gran parte rossi anche quando si fingono imparziali, come è accaduto con il programma di Fabio Fazio e Roberto Saviano. Il tutto sullo sfondo di un paese diventato violento che assiste dilaniandosi al tramonto del Cavaliere, eroe di un mondo finito.
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In libreria

Alessandro Marzo Magno
L'alba dei libri. Quando Venezia ha fatto leggere il mondo
Milano, Garzanti Libri, 2012, 209 pp.
Descrizione
Dov'è stato pubblicato il primo Corano in arabo? Il primo Talmud? Il primo libro in armeno, in greco o in cirillico bosniaco? Dove sono stati venduti il primo tascabile e i primi bestseller? La risposta è sempre e soltanto una: a Venezia. Nella grande metropoli europea - perché all'epoca solo Parigi, Venezia e Napoli superavano i 150.000 abitanti - hanno visto la luce anche il primo libro di musica stampato con caratteri mobili, il primo trattato di architettura illustrato, il primo libro di giochi con ipertesto a icone, il primo libro pornografico, i primi trattati di cucina, medicina, arte militare, cosmetica e i trattati geografici che hanno permesso al mondo di conoscere le scoperte di spagnoli e portoghesi al di là dell'Atlantico. Venezia era una multinazionale del libro, con le più grandi tipografie del mondo, in grado di stampare in qualsiasi lingua la metà dei libri pubblicati nell'intera Europa. Committenti stranieri ordinavano volumi in inglese, tedesco, cèco, serbo. Appena pubblicati, venivano diffusi in tutto il mondo. Aldo Manuzio è il genio che inventa la figura dell'editore moderno. Prima di lui gli stampatori erano solo artigiani attenti al guadagno immediato, che riempivano i testi di errori. Manuzio si lancia in progetti a lungo termine e li cura con grande attenzione: pubblica tutti i maggiori classici in greco e in latino, ma usa l'italiano per stampare i libri a maggiore diffusione. Inventa un nuovo carattere a stampa, il corsivo. Importa dal greco al volgare la punteggiatura.
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18 gennaio 2012

La religione da Giove a Cristo

Il ciclo di lezioni Noi e gli antichi, ideato da Editori Laterza e realizzato dalla Fondazione Edoardo Garrone con la collaborazione di Genova Palazzo Ducale Fondazione per la cultura, è giunto, ormai, alla sua terza edizione. Lo stimolo culturale, le riflessioni e l’interesse  che questa occasione genera sono testimoniati dalla notevole affluenza di pubblico che ogni lunedì sera a partire dal 5 dicembre invade letteralmente la Sala del Maggior Consiglio.
Ciò è accaduto anche il 16 Gennaio scorso, quando la lectio in programma aveva un titolo particolarmente suggestivo: La religione da Giove a Cristo. Presentata da Laura Sicignano, regista e direttrice del Teatro Cargo, e discussa dal professor Giovanni Filoramo, docente di Storia del Cristianesimo presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino, la conferenza ha tentato di approfondire un evento epocale qual è stato la conversione di Costantino, cercando di spiegarne cause e conseguenze, punti di rottura e di contatto con la società dell’epoca. La rivoluzione religiosa dell’individuo, non di uno qualunque ma dell’imperatore romano, coincise, come noto, con il passaggio dal Paganesimo al Monoteismo esclusivista: il Cristianesimo, passante fortunato che arriva sul palcoscenico della Storia al momento giusto, si trasforma, in un tempo relativamente breve, da religione dei perseguitati a vessillo dell’ Impero. E’ il 312 d.C. Si inaugura, in quell’anno, una tradizione che andrà avanti per secoli, vale a dire, la necessaria coincidenza tra la confessione religiosa dell’ imperatore, prima, del sovrano poi, e quella del suo popolo. Ergo: la libertà religiosa e la possibilità di vivere la fede come fatto essenzialmente intimo e privato restano un’utopia per molti secoli. La distinzione tra ciò che è pubblico e ciò che è privato o, al contrario, l’assenza di tale separazione, conduce ad una diversa concezione  della libertà dell’individuo: se non esiste una sfera nella quale quest’ultimo possa decidere autonomamente, significa, allora, che ogni decisione è soggetta al giudizio dell’autorità. Nella celebre conferenza parigina del 1819 di Benjamin Constant  La libertà degli antichi e la libertà dei moderni si richiama l’ostracismo, strumento tipico della democrazia ateniese per allontanare uomini politici poco graditi ma nulla impedisce di cogliere una realtà simile a proposito delle confessioni religiose, in particolare in occasione della Riforma Protestante. Il concetto di base è: chi ha una fede differente da quella riconosciuta dall’autorità è costretto ad emigrare. Non a caso, quindi, l’ultimo incontro di questo Ciclo di Lezioni si chiama proprio La libertà degli antichi e la libertà dei moderni.  E non si può fare a meno di notare, inoltre, come il Cristianesimo diventi lo strumento perfetto per rafforzare e legittimare le istituzioni a partire proprio dall’epoca di Costantino: si è al cospetto di un unico imperatore, il quale regna su un unico Impero, pertanto, sembra quasi naturale abbandonare il Politeismo per dichiarare l’esistenza di un unico Dio.
Eppure, ed è questo il fulcro della lectio del Professor Filoramo, non tutto il passato viene spazzato via in questo passaggio da una religione ad un altra e, d’altronde, sarebbe poco credibile da un punto di vista storico: si sa che gli eventi epocali servono a memorizzare la lezione in vista di un’interrogazione ma è sufficiente accostarsi con più calma e lucidità alla Storia per capire che il suo fluire presenta pieghe nascoste e sfumature trascurate da un occhio distratto. Ecco, quindi, che l’iconografia del Cristo richiama quella di Zeus-Giove: la barba e il trono, che è anche il trono dell’Imperatore e che, di conseguenza, evoca un legame fortissimo tra quest’ultimo e la divinità. Il Cristo cosmocratore è, allo stesso tempo, Dio dei cieli e della Terra, così come Costantino è il capo supremo del più grande Impero di tutti i tempi. La tradizione, come sappiamo, si consoliderà a tal punto da sancire un legame profondo tra chi regna e Dio, in modo da legittimarne la posizione di potere e insinuarne l’infallibilità. Jacques Julliard, nel suo La Reine du monde. Essai sur la dèmocratie d’opinion (Marsilio Editori, Venezia 2009 ), sostiene, addirittura, che la democrazia non ha affatto cancellato questa sorta di credenza superstiziosa: essa ha, semplicemente, spostato l’oggetto del suo culto dalla persona del sovrano al concetto più sfumato, ma non meno potente, di maggioranza.
Ed eccoci qui, con un volo pindarico forse spregiudicato ma non del tutto infondato, ai giorni nostri e ad un presente che si caratterizza per la complessità dei rapporti umani e la gestione delle diversità: il problema dell’integrazione e la sua ombra, vale a dire quell’emarginazione che è spettro per molti e paura da cavalcare per i demagoghi del nostro tempo. La convivenza, anche forzata, può generare tanto conflitto quanto forme produttive di integrazione: questo è quanto accadde tra Cristiani e Pagani nel IV secolo d.C. ed è quanto si verifica costantemente sotto i nostri occhi. A noi la scelta se voltarci dall’altra parte e far finta di niente o provare a capire il marasma in cui ci muoviamo senza una rotta precisa, alla luce delle nostre esperienze individuali e, a maggior ragione, ritrovando spiegazioni e cause nella continua Lezione che ci dà la Storia.
                                                                                                  Michele Archinà

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16 gennaio 2012

Storia di due secoli attraverso l'occhio fotografico

La fotografia vive all’interno di un più articolato sistema di relazioni, non è solamente una forma d’arte, è una pratica” che si sviluppa e si definisce all’interno dei vari ambiti nei quali la si applica, ed è con questa frase che l’autore, Walter Guadagnini, racchiude tutta l’essenza della storia della fotografia e dell’approccio che ha scelto per raccontarla. Una storia della fotografia del XX e del XXI secolo è, dunque, un insieme di storie; storie degli artisti che per primi hanno colto l’effimera essenza dell’arte fotografica; storie di mostre, libri e riviste che nel tempo hanno permesso a quest’arte di diventare Arte con la A maiuscola; storie di informazione, propaganda, documentazione e reportage.
Il libro combina così una lettura per appassionati fotografi, professionisti o amatoriali, e un manuale di storia dell’arte contemporanea, di cui peraltro l’autore è titolare di una cattedra all’Accademia di Belle Arti di Bologna.
Vengono ripercorse le tappe fondamentali della  storia della fotografia attraverso una carrellata di personaggi, i quali, mediante le loro opere, raccontano l’evoluzione del nuovo strumento fotografico a partire da un percorso che ha inizio dalla nascita della tecnica fotografica, dalla Brownic prodotta dalla Kodak, fino a giungere alla fotografia digitale dei giorni nostri. Un percorso che si concretizza agli inizi dell’Ottocento, e col tempo permette alla fotografia di imporsi come mezzo artistico al pari delle altre arti figurative.
Guadagnini prosegue con la storia fotografica attraverso le riviste che per prime hanno dato ampio spazio alla nuova tecnica; ci si può così render conto di come anche semplicemente un’immagine possa aver cambiato la percezione della realtà.
Infatti la fotografia cattura la realtà di quell’istante, coinvolgendo il lettore a una partecipazione emotiva che lo avvicina maggiormente agli avvenimenti discussi.
La fotografia diventa in questo modo il trampolino di lancio per cambiare, col tempo, la ricezione dell’informazione, mostrando la realtà così come effettivamente è; tale considerazione, al giorno d’oggi può apparire come un discorso retorico, in quanto si dispone di potenti mezzi per effettuare il fotoritocco, e che talvolta vengono usati a sproposito.
L’autore ricorda anche le più importanti mostre d’arte, e analizza come la fotografia si sia evoluta nelle innovative scuole delle avanguardie del primo Novecento, come il Bauhaus, e ancora nei movimenti Dada e Cubismo.
Proseguendo lungo questo percorso, si incontrano i primi cambiamenti che portano ad allontanare la tecnica fotografica dall’iniziale imitazione della pittura, fino a imporsi non più come ‘sostituzione/imitazione’ ma come ‘alternativa’ alla pittura stessa. Tale evoluzione trova terreno fertile negli Stati Uniti con il movimento della ‘straight photography’, il quale invita a ritrarre la gente comune, che si incontrava lungo la strada.
A queste innovazioni si accompagnano anche esperimenti di nuove tecniche, che vedono la nascita, o la crescita artistica, di grandi fotografi che si ritrovavano in gruppi artistici, come ad esempio il ‘Gruppo f/64’ dal valore in cui il diaframma fornisce la profondità di campo maggiore.
Questo vademecum fotografico è sicuramente una lettura interessante per tutti gli appassionati fotografi, soprattutto per coloro che volessero studiarne la storia senza esser costretti a leggere un manuale di storia dell’arte; e a parte qualche errore di battitura o disattenzione, è un’ottima occasione per scoprire questo ramo dell’arte contemporanea, che dimostra come non basti possedere uno strumento fotografico per essere dei bravi fotografi.
Federica Stirone

Walter Guadagnini
Una storia della fotografia del XX e del XXI secolo
Bologna, Zanichelli, 2010, pp. 379.
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15 gennaio 2012

Mr. Gwyn esiste davvero?

Siamo ormai entrati nel 2012 e si moltiplicano le vendite di accessori tecnologici: Ipod, Ipad e tablet.
I libri stessi da cartacei si trasformano in pagine virtuali, da sfogliare senza più sentire l'odore della carta stampata.
Esiste, però, anche un'altra realtà, un po' silenziosa, che tenta timidamente di accostarsi a questo mondo futuristico.
Nasce, infatti, una nuova professione: quella dello "scrittore di vite". L'originale mestiere si svolge in questo modo: si ingaggia uno scrittore che, ascoltando la storia della nostra vita e della nostra famiglia, prende appunti e seleziona tra le nostre foto-ricordo, quelle più adatte per essere inserite nel libro che sta prendendo forma.
Il compito di questo particolare biografo, è quello di riportare alla luce la nostra storia di famiglia, a partire da anni anche lontani, per far sì che nessun ricordo si perda nel tempo.
Non posso fare a meno di notare una velata somiglianza tra questa nascente professione e quella inventata dal protagonista dell'ultimo libro di Alessandro Baricco: Mr. Gwyn (Feltrinelli, 2011). Il romanzo racconta la vicenda di uno scrittore che ad un certo punto della sua vita, decide di interrompere una ben avviata carriera e dedicarsi ad un mestiere differente. Dopo aver vagliato una serie di ipotesi, Jasper Gwyn sente il bisogno di cambiare prospettiva e nel farlo inventa una professione del tutto nuova e che racchiude in sè qualcosa di magico.
Da scrittore, quale era, inizia a produrre non più romanzi ma ritratti. La magia sta nel fatto che questi ritratti non sono dipinti ma raccontati, portando alla luce la vera personalità dei modelli che poseranno per lui.
La genialità di Baricco si intravede nelle intenzioni di questi nuovi scrittori che, non senza compenso, si fanno "ritrattisti" delle nostre vite.
Mr. Gwyn con il suo lavoro voleva "riportare a casa le persone", riuscendo a trovare il loro vero essere con i suoi ritratti, che svelavano un'identità il più delle volte sconosciuta, anche a coloro che lo ingaggiavano.
I nostri scrittori di vite, invece, sembrano aiutarci a ritrovare pagine perdute della nostra storia personale, che senza il loro aiuto potremmo rischiare di perdere, magari perchè le conserviamo in modo sparso nella nostra memoria senza mai rilegarle per trovare un nesso o un ordine che ci spieghi da cosa deriva il nostro presente.
Questa convivenza tra attenzione per il futuro e ricerca e dedizione al passato sembra un' arma vincente per la società. Permette di creare e apprezzare la tecnologia senza mai perdere di vista le nostre origini.
Perchè indagare solo la Storia nel suo senso più vasto?
Abbiamo un patrimonio inestimabile tra i rami del nostro albero genealogico che se abbandonato a sè stesso, nessuno potrà mai restituirci.
Lo "scrittore di vite" potrebbe accingersi a diventare un mestiere nobile, riuscendo a far vivere per davvero un simil-Mr. Gwyn.
Sara Azza
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14 gennaio 2012

In libreria

Augusto Valeriani
Twitter Factor.
Come i nuovi media cambiano la politica internazionale
Roma-Bari, Laterza, 2011, 188 pp.
Descrizione
Cosa accade al giornalismo professionale quando CNN, Al Jazeera e BBC possono coprire alcune crisi internazionali solo attraverso il contributo – messaggi, fotografie e video – di comuni cittadini? Cosa accade alla diplomazia quando ministri e capi di Stato aprono account Twitter e Facebook, ma soprattutto quando le loro pagine sono meno seguite di quelle di un blogger egiziano? Cosa accade alla politica internazionale – e alla sua narrazione – quando nel variegato sottobosco degli attori non governativi compaiono organizzazioni come Wikileaks in grado di sfidare il paradigma della segretezza nella relazione tra gli Stati?
Augusto Valeriani spiega e ricostruisce questo nuovo contesto comunicativo internazionale attraverso numerosi esempi e attraverso le parole di reporter, funzionari diplomatici e uomini delle Ong che si trovano di fronte nuove figure ‘non professionali’ con cui non è più possibile non interloquire: semplici cittadini, ‘dilettanti’, capaci – grazie all’ambiente comunicativo del web 2.0 – di partecipare alla definizione del ‘lessico’ e della ‘grammatica’ della politica internazionale. Una realtà che determina inevitabilmente la nascita di rapporti di competizione, ma anche di insospettabili collaborazioni: nella nuova sfera pubblica internazionale nessuno può più fare da sé.
*link all'Indice del libro

12 gennaio 2012

"L'industriale"

Il nuovo film di Giuliano Montaldo, tra polemica sociale e dramma privato
E' stato presentato il 12 gennaio nelle sale del cinema Corallo di Genova L'industriale, anteprima assoluta dell'ultimo film del regista Giuliano Montaldo (in uscita il prossimo venerdì, 13 gennaio 2012). Ospiti in sala, non solo personalità di spicco del panorama politico italiano - tra gli altri, l'On. Sergio Cofferati -, ma anche una delegazione di operai di Fincantieri, che ha preso spunto dall'evento mondano per portare avanti le loro ragioni ed avvicinare tutto il pubblico in sala alle problematiche dell'industria del Ponente ligure. La proiezione del film, inoltre, è stata anticipata da una breve introduzione dello stesso Montaldo e dell'attore genovese Mauro Pirovano.
Il chiaro riferimento del titolo fa presagire una storia improntata su tematiche sociali: luci ed ombre sul mondo dell'industria italiana. E sotto questo segno sembra, infatti, aprirsi il film. Ad essere raccontata è la storia di Nicola Ranieri, figlio di immigrati approdati dal sud dell'Italia a Torino, dove hanno dato vita ad una fiorente fabbrica, di cui oggi resta solo un carico immenso di debiti a gravare sulle spalle di Nicola e dei suoi operai. Da questo spunto iniziale, tuttavia, la vicenda si allarga e la narrazione penetra fin nella vita privata della famiglia Rinaldi: i fallimenti lavorativi di Nicola influiscono sempre di più sulla sua sfera personale; il suo sentirsi inadeguato come leader riflette la sua inadeguatezza di marito e di uomo. Il crollo definitivo di tutti i pezzi che Nicola Ranieri non tarderà ad arrivare.
La direzione assunta dal film è a dir poco insolita: lo spettatore in sala, che ingenuamente pensava di trovarsi davanti un film impegnato nel sociale (in stile Il posto dell'anima di Riccardo Milani) resta spiazzato quando scopre che il film cela risvolti noir sul genere di Delitto perfetto, o assume le caratteristiche del banale triangolo amoroso io-lei-l'altro che, da Otello in poi, tanto ci appassiona.
Peccato che il regista abbia voluto così divagare e abbandonarsi, talvolta, alla facile retorica perbenista dei luoghi comuni. Montaldo ha messo sul fuoco troppe tematiche scottanti che, per essere raccontate veramente bene, avrebbero avuto bisogno ciascuna di un film a parte: il problema del rapporto dell'integrazione degli extra-comunitari nelle città del nord Italia (si veda il personaggio del rumeno Gabriel), le difficoltà all'interno di una coppia che, dopo otto anni, vive una fase di stallo, la rappresentazione di una tanto ricca quanto vuota classe di "borghesucci" strafottenti, il tutto orbitante attorno alle vicende del protagonista, che perde via via sempre più i tratti dell'industriale per assumere quelli del giovane uomo che deve fare i conti con l'ingombrante spettro paterno. L'appellativo "industriale" si fa progressivamente più inadeguato e lascia intravedere l'universo "umano, troppo umano" che vi si cela dietro.
Il lavoro di Montaldo alla regia, durato ben un anno di lavori ininterrotti, è sicuramente molto ben fatto: ottima la scelta delle ambientazioni, ben girato il film, di alta qualità gli interpreti, a partire da Pierfrancesco Favino, fino a Roberto Alpi, passando per la Crescentini.
Da vedere, comunque.
Elettra Antognetti

11 gennaio 2012

La meglio gioventù

Esce in questi giorni per Rizzoli l'ultimo libro di Carlo Azelio Ciampi A un giovane italiano, l'immaginaria lettera inviata da un “giovane” novantenne alle presenti e future generazioni.In chiave epistolare, quasi ottocentesca, viene analizzata la “questione giovanile”, grave problema per una società che deve uscire dalla recessione. La decadenza dei valori, dell'etica politica, del senso dello Stato insieme alla crisi finanziaria iniziata nel 2008 hanno infatti reso i giovani inerti, rassegnati ad un destino di precarietà.Senza un lavoro non c'è casa, non c'è famiglia, c'è solo lo squallido destino di “bamboccioni”, avvinghiati alle gonne della mamma in attesa della svolta. Siamo una generazione delusa, scoraggiata e, spesso, rinunciataria. E' sintomatico che dal rapporto statistico Stella del Cilea, il consorzio di cui fanno parte otto università lombarde, emerga che un intervistato su due non è disposto a spostarsi in altre città per completare gli studi universitari; mentre il viaggio è fonte di conoscenza di nuove realtà, di nuove esperienze.Tuttavia le testimonianze delle terribili esperienze giovanili vissute da questo grande saggio della repubblica cercano di spingere i ragazzi a guardare più in là, a ritrovare fiducia nel futuro e, soprattutto, a conquistarselo.“Sta in te” spesso ripete l'ex presidente della Repubblica, sta in noi giovani scegliere la strada giusta. E' un monito per ognuno di noi, scritto in un periodo di grande cambiamento, in cui si avverte aria di novità, con un governo che sembra, finalmente, voler attuare quelle riforme, magari impopolari, che l'Italia, prima ancora dell'Europa, aspettava da tempo.Il messaggio del Presidente è chiaro: spetta a noi cambiare gli eventi adesso, tocca a noi ragazzi voltare pagina nella storia. E pensando agli “angeli del fango”, che hanno ripulito Genova dal disastro dell'alluvione del 4 novembre, c'è da sperare che la meglio gioventù sia già pronta.
Manuela Prigelli

10 gennaio 2012

In libreria

Alberto Cavallari
La forza di Sisifo  a cura di Marzio Breda
Torino, Aragno, 2012
Descrizione
La forza di Sisifo di Alberto Cavallari è il terzo volume della collana «Classici del giornalismo», diretta da Alberto Sinigaglia, dedicata ai protagonisti di una grande epoca dell’informazione. Gli scritti raccolti nel libro (cronache, reportage, inchieste, interviste e commenti) costituiscono una biografia professionale di Cavallari, facendo emergere il suo bagaglio culturale, gli strumenti di lavoro, il metodo d’indagine, il ritmo di scrittura, l’alta tensione morale. Qualità, questa in particolare, che ha fatto di lui, secondo Claudio Magris, «il più camusiano dei giornalisti e degli scrittori italiani».
Alberto Cavallari (Piacenza, 1 settembre 1927-Levanto, 20 luglio 1998) è stato uno dei più importanti innovatori del giornalismo italiano nel secondo Novecento. Inviato speciale, corrispondente da Parigi e commentatore di diverse testate (tra le quali «Epoca», «La Stampa» e «la Repubblica»), ha svolto gran parte del suo percorso professionale al «Corriere della Sera», che ha diretto tra il 1981 e l’84. Ha insegnato metodologia dell’informazione all’Université Paris II ed è stato vicepresidente dell’European Institute for the Media di Manchester. Tra i suoi libri più ricordati: L’Europa intelligente, La Russia contro Kruscev, Il Vaticano che cambia, Il potere in Italia, La Cina dell’ultimo Mao, La Francia a sinistra, Vicino & lontano, La fuga di Tolstoj, La fabbrica del presente, L’Atlante del disordine. Sua, nel 1965, una memorabile intervista a Paolo VI, la prima mai concessa da un pontefice.
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09 gennaio 2012

La storica compagnia Baistrocchi al Politeama Genovese

Un tuffo nella cultura e nei costumi della Superba
La Baistrocchi, storica compagnia goliardica genovese, è di nuovo in scena al Politeama Genovese con lo spettacolo Si fa ma non si dice. Si tratta del novantanovesimo spettacolo della mitica Bai, storica compagnia teatrale d’avanspettacolo, tutta “made in Genova”, composta da attori e ballerini non professionisti, rigorosamente maschili. La sua fondazione risale al 1913, quando Mario Baistrocchi, studente universitario iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza dell'ateneo della Superba, si fece promotore del progetto di dare vita ad uno spettacolo teatrale i cui interpreti fossero soltanto studenti maschi. Ancora oggi, infatti, la compagnia è formata esclusivamente da studenti ed ex-studenti che annualmente mettono in scena spettacoli di varietà articolati su scenette con gag di satira sociale, politica e di costume, sul modello del più noto Bagaglino di Pingitore e Castellacci. Come nella migliore tradizione dell’avanspettacolo, infatti, non mancano sketches, satira, intermezzi musicali, balletti, tutto rigorosamente suggellato dall’uso di costumi luccicanti, parrucche e trucchi di scena ambiziosi e un po’ in stile "sciantosa". Le rappresentazioni sono prevalentemente concentrate a riprodurre soggetti del mondo politico-sociale genovese, senza trascurare tuttavia i personaggi e le situazioni di richiamo nazionale.
Anche in Si fa ma non si dice (spettacolo di due ore che, dopo la permanenza al Politeama approderà al Teatro Govi di Genova-Bolzaneto), per non tradire la consuetudine Bai, ad essere presi di mira sono i politici locali (il sindaco Marta Vincenzi, il presidente della giunta della Regione Liguria Claudio Burlando, ecc), le istituzioni (imprenditoria, sport, ecc.), senza risparmiare la comunicazione (i giornali e le televisioni) e, più in generale, tutto il sistema del potere e della cultura ufficiale, facendo, nei casi più fortunati, nome e cognome del malcapitato di turno e, in quelli più sfortunati, mettendone in scena una vera e propria parodia con stilemi che ricordano quelli di Oreste Lionello e Leo Gullotta. Particolarmente gradevoli, inoltre, gli intermezzi ballati dei giovani studenti che, con bravura ed auto-ironia, intrattengono il pubblico con performance di can-can, parodie di balletti classici, improvvisazioni rap, balli sudamericani, ecc.
Con ironia e uno sense of humor un po’ spiccio e sempliciotto, con battute a volte un po’ datate che puntano alla risata facile, il teatro dei baistrocchini chiama il pubblico a sé e lo incita a partecipare, a far sentire la propria voce. Bando al “siete pregati di spegnere i telefoni cellulari”, gli spettacoli della Bai interagiscono col pubblico in sala, ascoltandone le battute, commentandone gli interventi, invitando signori e signore sul palco per “giocare” con loro. Come nella migliore tradizione del teatro elisabettiano di Marlowe e Shakespeare, perchè no.
Inoltre, importantissimo ricordare l’impegno civico della compagnia, la quale dal 1976 ha scelto di devolvere in beneficenza il ricavato dei suoi spettacoli. Attraverso l’associazione benefica “Giovanni Borghi”, infatti, la Bai ha collaborato all’acquisto di strutture e mezzi per diversi istituti e dato un apporto per incentivare la ricerca su malattie.
Elettra Antognetti
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07 gennaio 2012

È necessario riflettere…

Alcuni recenti episodi di cronaca hanno dato modo di meditare su tematiche riguardanti l’intolleranza, il rispetto e la convivenza. Tematiche sulle quali è importante porsi le domande giuste.
Firenze. Un militante di estrema destra uccide due persone, Samb Modou e Diop Mor, e ne ferisce altre tre: Moustapha Dieng, Sougou Mor e Mbenghe Cheike; poi si toglie la vita. Lo sparatore era iscritto a CasaPound. Nella piazza del Mercato Centrale esplode la rivolta da parte dei connazionali delle vittime, membri della comunità senegalese.
Torino. In seguito alla denuncia di falso stupro da parte di una sedicenne, il campo nomadi dal quale sarebbero dovuti provenire i due extracomunitari responsabili della supposta violenza è stato dato alle fiamme. La vendetta che ha condotto all’incendio del campo rom ha portato il nome di un abuso che in realtà non c’è mai stato.
Roma. Durante il pomeriggio del 12 dicembre un gruppo di uomini ha aggredito, insultato e infine inseguito alcuni venditori ambulanti stranieri.
Siamo probabilmente dinanzi a casi di esecuzione e violenza a sfondo razziale. Oggi bisognerebbe analizzare la questione non sulla base di una concezione biologica della razza m -, come ci suggerisce il sociologo francese Taguieff - è necessario cercare una descrizione di razzismo che possa essere adatta al presente. Si tratta di analizzare le medesime forme di rifiuto che però si presentano sotto le vesti di nazionalismi, rivendicazioni etniche, integralismi religiosi; insomma, la stessa sostanza sotto una vernice diversa. Il nuovo razzismo è un’enfatizzazione delle differenze culturali ma contiene in ogni caso la paura dell’altro, la paura del diverso.
Mi sembra che in generale si cada sempre nel medesimo errore: viene costruita un’identità unica dell’immigrato, e così il distacco, la diffidenza e il timore nascono nei confronti del mucchio indefinito e omogeneo accomunato da una dissomiglianza assoluta. In questo modo le individualità vengono totalmente appiattite, tanto che troppe volte non vengono riportati nemmeno i nomi di queste persone alle quali dovrebbe essere riconosciuta una dignità e che invece sembrerebbero non esistere come soggetti sociali e giuridici. Quella massa compatta che annulla la dimensione individuale viene costruita spesso dall’informazione, quella stessa informazione che raggruppa migliaia di individui sotto il comun denominatore dell’emigrazione senza mai interrogarsi sulle cause che possono averli condotti verso quest’esperienza.
Conseguente alla mancata attenzione nei confronti dei singoli è la generalizzazione: viene creata così la categoria dello straniero, pericoloso, cattivo e non meritevole di fiducia. La sua malvagità non merita il benché minimo dubbio. Due romeni avrebbero abusato di una ragazza? Bene, la vendetta è semplice: basta dare alle fiamme tutto il campo da cui proverrebbero. Mentre noi tendiamo a immaginarci come una comunità felice e buona, loro sarebbero i cattivi. Basterebbe un po’ di spirito critico di fronte alle notizie di cronaca per capire che in tutte le comunità sono presenti dei delinquenti, e che quello che in realtà è un problema sociale non andrebbe etnicizzato.
Ciò che è certo è che siamo in un momento di crisi radicale che, sempre con maggior durezza, spinge gli individui a stringersi nel cerchio ristretto della difesa, con ogni mezzo, del proprio spazio vitale e dei propri interessi. Ma dove sta il confine tra problema sociale e razzismo? La sedicenne di Torino, in un’intervista comparsa su "Repubblica", dichiara di non essere razzista e giustifica la reazione del paese facendo riferimento all’esasperazione causata dai furti subiti. Ma davvero la sola rabbia può portare a tanto?
La vicenda di Firenze ha incanalato l’attenzione su CasaPound, un centro sociale d’ispirazione fascista nato a Roma nel 2003. Mi sembra interessante citare un punto di vista controcorrente, quello di Emanuele Toscano. Il sociologo di sinistra insieme a Daniele di Nunzio ha scritto un libro intitolato Dentro e Fuori CasaPound. Capire il fascismo del terzo millennio (Armando editore, 2011). Secondo Toscano l’idea di chiudere CasaPound è irragionevole, e questo per diverse ragioni: prima di tutto associare le responsabilità di un singolo a un gruppo è pericoloso e discriminante; in secondo luogo un’ipotetica chiusura potrebbe generare reazioni di ritorsione; inoltre certe idee sbagliate vanno combattute discutendole nel merito per contrastarle socialmente, politicamente e culturalmente. Queste considerazioni non negano che si sia trattato di un gesto di matrice razzista: gli spari non sono stati diretti alla folla, ma contro obiettivi scelti sulla base del colore della pelle. Toscano si è chiesto perché tanti giovani si avvicinano a questo movimento, perché una realtà come questa stia prendendo piede, mentre in genere si dice solo che bisognerebbe vietarla. Ma la storia dimostra che il proibizionismo non è così efficace, e d’altronde la stessa legge Mancino (che condanna gesti, azioni e slogan legati all'ideologia nazifascista e aventi per scopo l'incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali) non è riuscita a debellare le simpatie per il fascismo.
Della tragedia di Firenze è opportuno analizzare le parole utilizzate per riportarla. Le notizie parlavano spesso di un “folle”. Da un lato c’è chi sostiene che impiegare questo termine sia un modo per giustificare Casseri, il quale invece avrebbe scelto lucidamente le sue vittime; dall’altro c’è chi crede sia importante usare le espressioni giuste perché definire la tragedia di Firenze come razzista significa contribuire in qualche modo all’esistenza del razzismo stesso che invece non sarebbe mai episodico.
Nominare le cose significa dare un senso. A me pare che il paesaggio antropologico nostrano sia sufficientemente preoccupante. Forse allora bisognerebbe stare più attenti al linguaggio, perché la conseguenza (ovviamente su un terreno già predisposto) è quella di condizionare e fomentare sentimenti negativi. Questi sono i frutti che ora raccogliamo.
Francesca Pani

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