Lo sappiamo, la nostra dipendenza dal mondo di Gutenberg muterà quasi radicalmente, nonostante il nostro amore per l'invenzione tra le più usate al mondo: la carta stampata dei tipografi, oggi prodotta sinteticamente dall'industria.
Ciononostante consumiamo ancora una grande quantità di informazione cartacea: libri, giornali, rotocalchi, ecc. Circa metà di tutti noi interagisce, anche fino a 80 ore settimanali, con il PC, ma il resto si identifica ancora in quel carnale mcluhaniano Typographic Man che intorno al 1450-55, a Magonza, generò il suo primo manufatto, convenzionalmente la Bibbia delle 42 linee, due ingombranti volumi in stile gotico.
L'Uomo tipografico ha cambiato in oltre cinque secoli tutti i parametri della vita civile e culturale del pianeta, naturalmente in meglio, tranne per i poveri amanuensi, che inesorabilmente e progressivamente rimarranno senza lavoro; essi protesteranno, ma alla fine soccomberanno.
Gutenberg si è beccato un sacco di maledizioni per essere stato la causa di una rivoluzione occupazionale senza sbocco che lasciava migliaia e migliaia di uomini disoccupati e senza futuro (e non è neppur certo che la paternità dell’invenzione fosse sua!)
Le gravi difficoltà economiche in cui oggi versa il quotidiano "il manifesto" e non solo, rimandano a quella lontanissima storia. La sua eventuale chiusura riaccende il dibattito sui nuovi media e la fine della carta stampata, così come fu per le copisterie a causa del proliferare dei gutenberghiani.
Verrano fermate, quasi certamente, le macchine da stampa. E’ in drastica riduzione il numero dei tipografi e dei giornalisti, soprattutto quelli che hanno vissuto la coda della tipografia pre-elettronica. Possiamo parlare delle ragioni ma solo empiricamente, per la complessità dell'argomento. L'incapacità o l'impossibilità di esprimere l'informazione secondo le esigenze dei lettori, una scarsa produttività, una conduzione del giornale paralizzata su sé stessa, incapace di proporsi efficacemente nel confronto con i nuovi media e, ancora, la concorrenza della televisione e in particolare quella del web.
Ma soprattutto pesa l'inettitudine della nostra politica verso la formazione e l'apprendimento dei nuovi linguaggi: il nostro Paese entrerà in competizione con ingiustificabili ritardi rispetto a quasi tutto il resto d'Europa e le conseguenze sono evidenti nella difficoltà ad aggiornare persino i sistemi di interazione tra cittadino e amministrazione pubblica.
La vocazione digitale nella popolazione è stata ottusamente rallentata: troppi lettori restano analfabeti digitali e resistono all'idea di doversi svezzare dal prodotto di carta. Gli stessi giornali, fatte le dovute eccezioni, si muoveranno con ritardo e con scarsa convinzione nell'occupare sapientemente lo spazio web.
Ora è il tempo della simulazione, il giornale può scegliere di rifiutare le regole convenzionali e inventarsene di volta in volta di nuove. Il nostro homo oeconomicus, il presidente del Consiglio Monti, è alla ricerca del bene collettivo preferibilmente con un’identità digitale, ma “è la stampa bellezza” ancora nel cuore.
Sarebbe un grave errore non sostenere i giornali di carta e non permettergli di percorrere una strada parallela al web, sbarriamo piuttosto la strada a certi grotteschi epigoni tenuti in vita per sottrarre fondi pubblici.
Giornali popolari, di informazione, di opinione, non rappresentano solo un'impresa produttiva in crisi: restano giganti della nostra formazione che hanno contribuito, lottando e pagando anche con la vita dei loro giornalisti, alla nascita della Repubblica, alla sua crescita, allo sviluppo socio-economico del nostro Paese e ancora oggi rappresentano un punto di forza per sperare in una società civile più obiettiva.
Per la storia che hanno, quindi, i giornali di carta non possono essere liquidati se non vengono aiutati a traghettare tutti i propri lettori, fino all'ultimo, in una 'Second Life', sul pianeta digitale.
Francesco Pirella
*pubblicato per gentile concessione dell'autore.
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