Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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30 gennaio 2016

Raccontare Cernobyl

“Noi siamo l'aria non la terra” (M. Mamardasvili)

Il libro  più noto del Premio Nobel Svetlana Aleksieviç racconta il disastro di Cernobyl’. Il titolo che l’autrice ha scelto per descrivere un mondo profondamente sconvolto e avvolto in un misterioso male di cui l’uomo ha poco conoscenze è Preghiera per Cernobyl. Perché preghiera? Non sono le credenze religiose della scrittrice ma è un invito di umile compassione e di una totale rassegnazione di fronte al grido del dolore che la gente di Cernobyl’ ha affrontato, appunto una preghiera poiché l’uomo è incapace di risolvere la catastrofe  che ha creato a se stesso. Ci sono due esplosioni  globali; una la discesa dell’impero comunista e l’altra Cernobyl’. Nell’intervista che l’autrice fa a se stessa dichiara le sue intenzioni più sincere del perché si è presa il disturbo di raccontare un tema trascorso, un evento irraccontabile. Avrebbe potuta intitolarla  “La storia mancata” racconta, il ché la dice lunga di come è rimasta nell’ombra un avvenimento così sconvolgente nonché il grande investimento che si è fatto per dimenticarlo. Da qui il genio e il coraggio della scrittrice di risorgere una realtà sepolta.

Accanto alle diverse testimonianze delle vittime della tragedia nucleare  c’è una realtà stereotipata, come si vede Cernobyl’, cosa credono che sia stato, come si presenta al mondo? La vita di tutti i giorni della gente che abita accanto al centrale nucleare sta per essere cambiata per sempre, le loro abitudine più banali, come fare il pane, uscire per strada giocare con i sassolini, mungere la mucca, i loro affetti per le persone, per gli animali, per la terra, per le loro case, altri oggetti saranno stravolte. Non avendo equivalenti nella storia tutto viene comparato alla guerra, non sapendo a cosa riferirsi, l’evacuazione di notte di bambini, la demolizione delle case, essere circondati dagli soldati. Poi si accorgono che il nemico da combattere è un disastro radioattivi con cui bisogna senza alcun scelta, conviverci. All’inizio si comportano come se nulla fosse cambiato. Nessuno capisce cosa realmente stia accadendo. Tutto viene nascosto tra patti militari segreti e una superficialità spaventosa.  Poi la pioggia nera, bambini malformati, piaghe nel corpo.

“Volevo dimenticare. Dimenticare tutto. Pensavo di aver già vissuto la cosa più terribile che potesse capitarmi  … La guerra.. Ma poi sono andato nella zona di Cernobyl’. È il futuro non il passato a distruggermi” Psicologo (p. 43).

Cernobyl’ si è trasformato in un mito, i giornalisti hanno rivelato il lato terrificante senza mai indagare sul destino delle singole persone, del loro stato fisico ma soprattutto psichico, della loro vita prima e dopo la disgrazia. Svetlana apre davanti al lettore un mondo estraneo fino a quel momento, con un stile semplice e attraverso la voce di chi ha vissuto in prima persona.  Una scrittura polifonica valicata da diversi personaggi, dall’intellettuale alla casalinga, dall’ufficiale dell’esercito al registra e fotografo, madri, mogli, mariti, anziane, bambini, animali, natura, cibo, persino la polvere delle terra, le strade, gli alberi tutti elementi che sono state vittime dell’esplosione hanno potuto aver voce nel libro, nessuna cosa è stata trascurata per riflettere una realtà ampia e più vicina alla verità.  Spalanca davanti al lettore diverse scene vissute, storie approfondite, descrizione dettagliata dello stato mentale e sentimentale delle persone coinvolte  tanto che sembra esserci dentro.  Come hanno vissuto la notizia che il centrale nucleare è esploso, che idee avevano, come sono cambiate queste idee e sentimenti dopo aver visto morire in modo disumano i propri cari, gli animali, la fauna e flora, le strade, le loro case. Com’è stata trasformata la loro vita, la loro psiche dopo che le cause di Cernobyl non ritardarono a farsi sentire.
Attraverso monologhi, pochi dialoghi si dà voce alle storie della gente e piano piano si costruisce un panorama sempre più ampio di quello che è Cernobyl’.  Non lascia in ombra nulla e naturalmente si chiede se si poteva evitare l’incendio o se si poteva comportare diversamente, se potevano risparmiare tante vite? Ma quell’evento unico nel suo genere ha trovato impreparati tutti. La politica e il forte nazionalismo  con oscura tenacia insistevano che tutto andava per il meglio, che avevano tutto sotto controllo. Unione Sovietica voleva dimostrare la sua forza anche di fronte alle leggi della fisica. L’ordine  di mettere una bandiera rossa sopra il tetto della centrale senza minimamente preoccuparsi di chi ogni volta saliva sul tetto era un condannato ad una morte bruttale.  Una descrizione dettagliata e senza retorica della tragedia da un lato e dall’insensibilità dello stato.
“il decadimento dell’uranio ha un tempo di dimezzamento fa conto 1 miliardo di anni.” Scienziato (p. 143).
Cercavano di trovare la causa, alcuni pensavano fosse il terrorismo ma nessuno sapeva come andava affrontato la situazione, sapevano solo le sue devastanti conseguenze.

 Viviamo in un mondo editoriale in cui c’è un numero sempre più crescente di libri “bestseller” e sempre un numero decrescente di capolavori. I primi sono concentrati sul sensazionalismo, attenti alla sceneggiatura, ricchi di colpi di scena, intrighi, gli eventi scorrono in modo da attirare l’attenzione del lettore "pigro". Un linguaggio pieno di retorica, calcolato e pensato per fare colpo sul lettore, spesso frasi fatti e giri di parole. Poche volte ci imbattiamo in un capolavoro. “Preghiera per Cernobyl” è la testimonianza che in mezzo al mondo frenetico e commerciale che ci regala una realtà superficiale, personaggi stereotipati, storie simili e adatti ai film c’è un romanzo in grado di tirare fuori “l’anima” di un evento, di un popolo, di una grande sofferenza, di una verità che non possiamo ignorare. Un romanzo coraggioso che indaga, approfondisce, scava e rivela il vero volto di Cernobyl’. Attraverso un linguaggio forte e diretto,  poche metafore, niente ironia o sarcasmo, con una scrittura obbiettiva e asciutta  è stata in grado di raccontare la realtà in modo trasparente, una realtà complessa,poco chiara, perfino misteriosa per certi aspetti.  Svetlana è una cronista, una giornalista che attraverso la letteratura ha raccontato la realtà politica e sociale di Cernobyl’ in questo caso, della guerra in Afganistan, dei suicidi in massa dopo lo scioglimento della Unione Sovietica che ha costato la scrittrice la fuga dal paese di nascita e lo ha costretto a vivere in esilio. La stessa impresa che ha intercorso Roberto Saviano nel suo romanzo d’inchiesta “ Gomorra” nel quale descrive la realtà  della criminalità organizzata. 
Eralda Xibraku

Svetlana Aleksieviç

Preghiera per Cernobyl,  
Edizioni e/o, 2015, 300 pp. (prima edizione 2004)

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28 gennaio 2016

David Bowie, artista da leggenda

Mi sveglio la mattina di lunedì 11 gennaio, apparentemente un giorno come un altro. Un nuovo lunedì di studio e di lavoro. Il cielo è plumbeo su Genova, il termometro segna 12 gradi. Apro il mio portatile e clicco sul sito dell’ANSA, e mi rendo conto che no, non è un giorno come gli altri. L’articolo in primo piano recita “Addio al Duca Bianco Bowie”. Dalla Cnn al Financial Times fino ad Al Jazeera, la notizia della sua morte si trova sulla homepage di tutti i principali siti internazionali. Per chi come me è innamorato della musica, appassionato di tutta la musica in tutte le sue sfumature, questo è un giorno triste: una delle figure artistiche di maggiore successo della storia della musica, “un artista rivoluzionario, poliedrico, inarrivabile ed eclettico” (come lo definisce giustamente Veronica Bolognese in un articolo pubblicato sul sito www.staycool.it) è morto nella notte dopo una battaglia di 18 mesi contro il cancro. Solo tre giorni prima aveva compiuto 69 anni, e nello stesso giorno era uscito Blackstar, il suo ultimo album, che resterà il suo testamento.
David Robert Jones (questo il vero nome) nasce a Brixton, Londra, l'8 gennaio 1947. Il suo primo singolo, Can't help thinking about me, viene pubblicato nel 1966 a nome di David Bowie e The Lower Third. Nel 1967 avviene l'incontro cruciale per la sua carriera: quello con Lindsay Kemp. Dall'artista apprende i segreti della teatralità, della mimica, dell'uso del corpo, elementi fondamentali della sua personalità artistica che si affermerà attraverso le sue numerose “personalità”. L'album The rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars è un disco incredibile, venerato dai fan e non solo, che racconta la storia del primo dei suoi alter ego scenici, Ziggy Stardust, un extraterrestre bisessuale e androgino trasformato in rockstar che fa di Bowie lo speaker della libertà sessuale. Ma Ziggy è solo uno dei tanti personaggi interpretati dall’artista, da Aladdin Sane ad Halloween Jack al Duca Bianco, “una continua reinvenzione di sé stesso che gli ha permesso di mostrare varie sfaccettature della sua arte nel corso della sua prolifica carriera” (“E’ morto David Bowie, il trasformista del rock”, Repubblica.it). Nel 1973, con uno straordinario concerto all'Hammersmith Odeon di Londra, Bowie annuncia la fine di Ziggy Stardust. All'inizio degli anni Ottanta è un mito, uno dei pochi artisti in grado di conciliare rock e teatro, pop e avanguardia, ambiguità sessuale e arti visive, trasgressione e letteratura.
“Dal folk acustico all'elettronica, passando attraverso il glam rock, il soul e il krautrock, David Bowie ha lasciato tracce che hanno influenzato tantissimi artisti. Artista prolifico, non si è mai adagiato sugli allori del successo continuando a sperimentare fino all’ultimo disco. Ha attraversato e inventato generi anche molto diversi tra loro: dal beat al R&B bianco, dal glam rock all'electro pop intellettuale al rock colto e raffinato” (“Addio a David Bowie, il camaleonte del rock è morto a 69 anni”, Il Mattino).
Non si fa mancare le incursioni nel cinema: dopo alcune piccole apparizioni arriva al successo nel 1976 come protagonista del film di fantascienza L'uomo che cadde sulla Terra di Nicolas Roeg. Tra le sue interpretazioni più note si ricordano Absolute beginners e Labyrinth del 1986 fino Basquiat di Julian Schnabel del 1996, dove interpreta il ruolo di Andy Warhol.
Nel 1997 viene quotato in borsa grazie all'emissione dei Bowie Bonds effettuata offrendo a garanzia le royalties ricevute per i dischi venduti fino al 1993 (circa un milione di copie l'anno). Nel 2007 riceve il Grammy alla carriera e nel 2008 viene inserito al 23º posto nella lista dei 100 migliori cantanti secondo la rivista Rolling Stone.

Un artista a tutto tondo che è già leggenda. 
Silvia Marcenaro

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27 gennaio 2016

Shoah: spunti per la persistenza del ricordo

In occasione della Giornata della Memoria mi è parso interessante portare qui di seguito alcune testimonianze di sopravvissuti al campo di sterminio di  Auschwitz i quali raccontano la loro esperienza in ambito scolastico e l’idea che hanno maturato della Shoah, e come questa venga presentata oggi nelle scuole dopo 71 anni.
Una delle testimonianze presentate da Repubblica per la commemorazione della Shoah è quella di Alberto Mieli ebreo di Roma che nel 1943 venne fermato dalla Gestapo, mandato ad Auschwitz e liberato nel maggio del 1945 dopo una lunga marcia verso l’Austria.
Un particolare della sua testimonianza è stato il racconto di un giorno di scuola qualunque in cui fu chiamato dal preside il quale piangendo gli disse che non poteva più frequentare il corso.  Quello fu il suo ultimo giorno di scuola. I bambini ebrei non potevano più accedere alle classi.
Alberto Mieli,oggi novantenne, ha appena pubblicato un libro di testimonianza individuale: Eravamo ebrei. Questa era la nostra unica colpa.
Questa testimonianza nasce dagli incontri con i ragazzi delle scuole, dai ricordi evocati con dolore e sofferenza. Alberto Mieli, infatti, non è mai tornato nei luoghi della sua deportazione, bensì ha scelto il dialogo con i giovani ai quali dice “per avere rispetto di noi stessi dobbiamo imparare ad avere rispetto per gli altri”.
Un’altra “immagine” che ritengo significativa presentare è quella di Liliana Segre, ebrea di famiglia laica milanese segnata dalle leggi razziali del 1938, in seguito alle quali venne espulsa da scuola. Dei 776 bambini italiani di età inferiore ai 14 anni che furono deportati ad Auschwitz, Liliana è tra i soli 25 sopravvissuti.
La donna, la quale di solito offre la sua testimonianza nelle scuole, sollecitando gli insegnanti a spiegare ai ragazzi cosa sia accaduto, fa notare quanto i giovani siano disabituati al dolore, tenuti al riparo sia dalle famiglie sia dall’ambiente scolastico. Ciò che è necessario, invece, è conoscere ciò che è accaduto e rialzarsi, andare avanti.
Un’ulteriore testimonianza rilevante è quella di Aharon Appelfeld, scrittore israeliano, sopravvissuto alla Shoah in cui perse i suoi familiari, dove riuscì a fuggire da un campo di sterminio nazista in Transnistria e si unì all’Armata Rossa dove prestò servizio come cuoco.
Oggi, ci rende edotti della sua tragica esperienza con i suoi romanzi che hanno come centro la Shoah, come ad esempio “Oltre la disperazione”. L’autore racconta la sua fuga dal lager a 8 anni e l’esperienza da sopravvissuto.
Nell’intervista rilasciata a Repubblica gli viene chiesto cosa ne pensa del modo in cui viene onorata la Shoah oggi, con gite scolastiche e lezioni in classe. Lo scrittore, che vive a Gerusalemme, spiega come per i ragazzi israeliani le visite nei campi di sterminio non siano un’esperienza accettabile in quanto quei luoghi sono ancora fonte di dolore, dove hanno perso i propri familiari. Sugli europei si riserva di rispondere, dicendo come sia difficile da spiegare il genocidio e il disprezzo per gli ebrei che i tedeschi avevano inculcato nella popolazione.
Queste testimonianze di alcuni bambini privati della loro istruzione, di altri addirittura delle loro vite, di altri ancora distrutti nell’anima da esperienze travolgenti e inenarrabili per la loro brutalità, certamente svolgono un ruolo preponderante nella conservazione e memorizzazione di uno dei passi certamente più indimenticabili della storia dell’umanità.
 Francesca Catrambone
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24 gennaio 2016

Arnasco-gate. Aspettando la misericordia


Il destino si è accanito nei confronti di Aicha Bellamoudden, marocchina morta a soli 56 anni nello scoppio di una palazzina nel centro storico di Arnasco. Non è bastata la fuga di gas, forse evitabile, a provocarne la morte. Non è bastata la mancata benedizione della salma da parte del parroco durante i funerali. Non è bastato l’imbarazzo che la vicenda ha creato con la diocesi di Albenga, recentemente commissariata.
Aicha muore ancora, ogni giorno.
Muore perché ancora non si  riconosce il suo diritto alla cittadinanza nel mondo. Ancora non si tollera il suo diritto a professare una religione diversa dalla nostra. E non basta. Ancora, ad accrescere questa vergogna, è la totale mancanza di rispetto per una donna che ha perso la vita.
 L’Arnasco-gate solleva antichi polveroni, suscita sentimenti creduti ormai sopiti, accende la discussione mediatica. A conferma che parole come accoglienza, tolleranza, misericordia, tanto evocate anche dal Papa, nella coscienza delle persone, non sono altro che parole.
Belle parole, certo. Ma pur sempre lontane anni luce dalla realtà del pensiero prevalente.
Lo stereotipo del migrante, dello straniero pericoloso, del musulmano indegno di ricevere sacramenti, resiste incontrastato. Anche in un piccolo borgo dell’entroterra ligure, dove tutti si conoscono e dove ci si dovrebbe sentire accolti come in famiglia.
 La misericordia, quella di cui scrive papa Francesco nel suo libro, è un sentimento nobile di pietà verso l’infelicità o la disgrazia altrui. La stessa pietà e compassione che dovremmo provare verso la miseria umana di un parroco che non risulta comportarsi da  cristiano. O la stessa ambiguità di spirito che serpeggia tra l’ignoranza popolare che considera la religione musulmana un elemento discriminante.
 Aspettiamo, quindi. Aspettiamo ancora. Ancora, aspettiamo.
Aspettiamo di percorrere la strada che conduce alla residenza del rispetto.
Aspettiamo di capire dove vive la dignità della religione.
Aspettiamo la carezza della misericordia che, in futuro, ci porti lontano da spregevoli luoghi comuni e assurdi stereotipi.    

 Anna Scavuzzo       
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20 gennaio 2016

Le voci della storia

Antonio Ferrari e i retroscena delle sue grandi interviste

Sgretolamento non è una semplice raccolta di interviste, ma molto di più. In primis è l’emblema di parte della lunga carriera di un grande giornalista italiano, Antonio Ferrari.
Firma illustre del “Corriere della Sera”, dopo aver seguito gli anni del terrorismo italiano, Ferrari è passato all’estero. Prima in Europa e nell’Est comunista, poi nei Balcani, in Medio Oriente e in Nord Africa. Ferrari racconta le sue interviste più salienti ai grandi leader politici, quei burattinai che nel bene o nel male hanno deciso le sorti di un delicatissimo decennio storico come quello degli anni Ottanta. Con uno stile semplice e un linguaggio affabile, tra ironia e autoironia, Ferrari ci insegna che cosa significa essere giornalista. Coraggio, arguzia, sagacia sono solo alcune delle sue qualità. È un provocatore che non teme chi ha di fronte, poco importa se si tratti  di scavalcare la censura romena per l’intervista a Ceausescu,  o di definire il primo ministro israeliano Yitzhak Shamir un terrorista, o di sfidare i servizi segreti siriani con una intervista telefonica nella sua stanza di albergo a Damasco al leader libanese Aoun. Una irriverenza e una spregiudicatezza a volte punite, è il caso del suo avvelenamento a Bucarest e il conseguente divieto di ingresso in Romania in quanto “persona non gradita”.
Ferrari non ha paura di ammettere che oltre al merito più volte ha contribuito anche una buona dose di fortuna. È alla fortuna infatti che attribuisce la sua più cara intervista, quella a Helmut Schmidt, ormai ex cancelliere della Repubblica Democratica Tedesca.
Dalle sue parole trapela la voglia di verità, spesso però una verità ben nascosta negli intrighi politici internazionali, tanto che per trovarla il giornalista rischia di diventare una pedina di un gioco pericoloso. Fa riflettere il suo incontro con il giornalista turco Mumcu alla fine della guerra fredda a proposito dell’attentato a papa Giovanni Paolo II e la presunta pista bulgara. Durante una cena Mumco confessa:
 So però che la pista bulgara è un clamoroso falso. Sono stato preso in gio. Siamo stati buggerati tutti. Questa storia della pista bulgara è stata costruita per colpire, anzi per distruggere il comunismo sovietico”
 E poco dopo continua:
 “Noi non siamo solo responsabili di quel diciamo o scriviamo. Siamo anche responsabili dei nostri silenzi. Non posso tacere. Mai.”
 Ma Sgretolamento è anche altro. È la ricostruzione attraverso incontri e interviste di un decennio decisivo, quello in cui si verificò lo sgretolamento appunto del Muro più alto e doloroso d’Europa, quello che separava due mondi, l’Occidente libero e l’Oriente comunista. È il decennio che vede il tramonto dell’impero dell’Est con le sue conseguenze nei Balcani, in Medio Oriente e sulle sponde del nostro Mediterraneo. Ferrari ci propone un viaggio nella storia. Dalla guerra civile libanese con l’intervista a Gemayel, all’Iraq di Saddam Hussein e alla Grecia di Andreas Papandreou, passando attraverso la Turchia, la Romania e la Bulgaria.
Le voci degli intervistati compaiono senza filtro, a nudo, facendo emergere inattese verità o sorprendenti bugie. Una in particolare colpisce e diverte. È il 4 ottobre del 1985, poche ore dopo dell’attentato israeliano al quartier generale dell’OLP a Tunisi. L’intervista è rivolta al leader palestinese Arafat che alla domanda su cosa stesse facendo nel momento dell’attentato risponde:
 Lo jogging come lo chiamate voi. E poi liberi esercizi fisici. [] Prima ho cercato un cavallo, ma non sono riuscito a trovarlo. Allora sono tornato a casa, ho indossato la tuta e ho raggiunto la spiaggia.”
 La verità era un’altra. Anni dopo si venne a sapere dell’esistenza di un accordo non scritto tra i vertici del potere mondiale di non uccidere i leader. Arafat si salvò soltanto perché una telefonata lo avvisò in tempo mentre invece palestinesi e tunisini morirono, come, scrive lo stesso Ferrari, carne da cannone.
Benedetta Federica Rovero


Antonio Ferrari
Sgretolamento. Voci senza filtro
 Jaca Book, Milano, 2013, pp. 175.


18 gennaio 2016

In libreria

Bruno Barba 
Meticcio. L’opportunità della differenza
Effequ, Orbetello, 2015, 232 pp.

Descrizione
L'umanità è fatta di mescolanze: come insegnano le culture mediterranee, caraibiche, sudamericane, il meticciato rappresenta un destino ineluttabile; destino non da subire passivamente, ma da considerare come un'occasione imperdibile per una decisa apertura alla diversità e alla scelta. È il momento, perciò, di promuovere l'essere transculturale, la nuova mobilità planetaria, di affrontare i nuovi tempi con strumenti interpretativi idonei, senza alcun timore: nessuno perderà la propria identità, al contrario la rafforzerà, la celebrerà, la eleverà, attraverso il processo di ibridazione. Questo saggio destruttura, anzi decolonizza la nostra mente, e prova a pensare per nuove categorie. Partendo dalla storia si intraprende un percorso che si pone come il 'manifesto' del meticciato contemporaneo: una riflessione cruciale per il nostro tempo, un'affilata antropologia dell'indifferenza.
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15 gennaio 2016

Blasfemia del pensiero libero

 Credo nel diritto di credere 
In Dio, in Allah, in Budda 
E in tutti gli Dei dell’universo;
Credo nel diritto di non credere.
 
L’uomo nasce schiavo di cultura, fede, società.
La libertà è una conquista,
L’affrancatura dalla convenzione,
La scelta consapevole del proprio essere.
La scelta che non sempre si ha il coraggio di fare, 
Lo schieramento che cambia la vita, 
Plasma la persona,
La salva o la condanna alla mediocrità.
 
Noi che viviamo la nostra piccola vita, 
Nel nostro piccolo mondo, 
Dimentichi del costo della libertà 
E del peso delle parole.
Noi lontani da questo giovane poeta
Eppure a lui così simili.
 Assuefatti al diritto alla libertà,
Indifferenti alla sofferenza,
Distratti da un'illusoria distanza.
 
Si vuole spegnere una vita!
 Ashraf Fayadh, un nome,
Una storia, un figlio, un amico.
Falciare con la brutalità,
Interrompere la precarietà dell’essere.
La superbia del potente che si fa Dio, 
Le presunzione dell’uomo che decide della vita dell’uomo.
La condanna dell'inaccettabile colpa del libero pensatore.
 
Credo nell’essere umano e nella luce della ragione 
Ché illumini i bui recessi dell’arroganza umana.
Prego perché 
Dio , Allah, Budda,
L’universo tutto e gli uomini
Salvino insieme Ashraf Fayadh, 
Un uomo come  noi. 
Forse peggiore di me,
Forse migliore di me,
Comunque uomo, un diritto alla vita, incatenato dalla sua stessa libertà.
 Cristina Pongiluppi




'Salviamo il poeta e artista palestinese Ashraf Fayadh'.





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14 gennaio 2016

In libreria

Julia Cagé 
Salvare i media. Capitalismo, crowdfunding e democrazia 
Bompiani, Milano, 2016, 128 pp. 
disponibile anche in formato ebook

Descrizione

I media sono in crisi. Non solo la carta stampata, ma tutta la catena di produzione dell’informazione. Di fronte a una concorrenza spietata e a un calo inesorabile degli introiti pubblicitari, i giornali, le radio, le televisioni sono tutti alla ricerca di un nuovo modello. Basato su un’indagine inedita sui media in Europa e negli Stati Uniti, questo libro propone di creare un nuovo statuto di “associazione non profit”, a metà strada tra lo statuto delle fondazioni e quello delle società per azioni, che concili attività commerciale e attività senza fini di lucro. Un simile statuto consentirebbe ai media di essere indipendenti dagli azionisti esterni, dagli inserzionisti e dai poteri pubblici, e di operare invece contando sui lettori, sui dipendenti e su metodi innovativi di finanziamento, incluso il crowdfunding. Julia Cagé propone un metodo ambizioso, che incrocia le sfide della rivoluzione digitale e la realtà del XXI secolo, e che si ispira a un presupposto fondamentale: che l’informazione, come l’istruzione, è un bene pubblico, e come tale va difeso. Il dibattito è aperto: ne va, molto semplicemente, del futuro della nostra democrazia.

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11 gennaio 2016

In libreria



Lella Mazzoli , Giorgio Zanchini (a cura di )
Info cult. Nuovi scenari di produzione e uso dell'informazione culturale
Franco Angeli, Mi
lano, 2015, 192 pp.


Descrizione
Di cultura in Italia si parla molto. I dati sconfortanti sui consumi culturali e sul tasso di lettura hanno persino incrementato il discorso pubblico su questo tema. In generale sui media l'informazione culturale c'è.  E tuttavia è un campo ancora poco frequentato dalla riflessione sociologica e da ricerche empiriche. Il volume vorrebbe anzitutto rispondere a questa parziale lacuna. Basato su un'articolata ricerca dell'Osservatorio News-Italia dell'Università di Urbino Carlo Bo su dati e fonti dell'informazione culturale, Info Cult offre una ricognizione sistematica della produzione e degli usi dell'informazione culturale di oggi e dei suoi effetti sociali. E risponde a molti degli interrogativi più urgenti della nostra contemporaneità: quali sono le fonti di informazione privilegiate? Qual è il ruolo giocato da internet e dagli altri media digitali? C'è ancora bisogno di mediazione e mediatori? Quale piattaforma conta di più nelle scelte di consumo? Quali sono i temi che gli italiani associano maggiormente all'idea di cultura? Quali sono i nuovi linguaggi e i nuovi scenari?
Indice del libro
Piero Dorfles, Le culture divergenti
Lella Mazzoli, Giorgio Zanchini, Perché Info Cult
Lella Mazzoli, Giulia Raimondi, Conoscere, condividere, partecipare: l'Info Cult come benessere della società
Giorgio Zanchini, Mappe culturali: in cerca di bussole per nuovi mondi
Roberta Bartoletti, Informazione e consumi culturali: scenari di uso
Federico Montanari, Stili, pratiche, forme e strategie nella ricerca di informazione culturale: fra offline e online
Fabio Giglietto, Il futuro dell'industria culturale fra algoritmi sociali, democrazia e nuovi autoritarismi
Chiara Checcaglini, L'informazione culturale e il settore audiovisivo: il caso dell'informazione cinematografica
Riferimenti bibliografici


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10 gennaio 2016

Il buon giornalismo dell'informazione interculturale


Sembra di assistere ad una lezione universitaria, ad una di quelle dove il professore camminando per l’aula parla per ore e tu, rapito dalle parole, non ti accorgi del tempo che in un attimo vola. Perché Giornalismo interculturale e comunicazione nell’era del digitale non è semplicemente un manuale sui problemi del giornalismo odierno, ma è una riflessione su come viviamo e ci rapportiamo con gli altri. Dove gli Altri sono arrivati da un paese, non lontano dal Nostro, per scappare spesso da una guerra che riteniamo sia solo Loro.
Etichette, pregiudizi, stereotipi dati in primis da chi dovrebbe occuparsi di educare e formare la collettività: il giornalismo, tradizionale e online. Da qui il sottotitolo “Il ruolo dei media in una società pluralistica”, perché come scrive l’Autore: “I mass media, la comunicazione, i social media, finanche il web marketing possono diventare strumenti di mediazione interculturale e di peace building”.
Non pensiamo che Corte proponga del buonismo; non si mette sul piedistallo criticando il settore dell’informazione, ma lo analizza cercando di capire come si potrebbe passare dal giornalismo etnocentrico o multiculturale, ad un Giornalismo interculturale. Un percorso faticoso, che prevede prima di tutto una conversione culturale e dell’anima. Perché di cuore, per come vede lui questo mestiere, ce ne vuole tanto.
Non promette la ricetta segreta, l’ingrediente nascosto per ottenere la comunicazione perfetta. Regala però consigli su come organizzare il lavoro in una redazione, su come un reporter dovrebbe rapportarsi con le fonti e sul linguaggio da scegliere per scrivere un articolo. Perché saper trovare le parole, può fare la differenza. E maestro nel raccontare l’Altro è Guccini, le cui canzoni accompagnano, di capitolo in capitolo, l’intera lezione di Corte.
Questo libro ha il grande merito di far riscoprire un valore che spesso per fretta o superficialità si dimentica: il rispetto per gli Altri. Principio che dovrebbe mettere in pratica in particolar modo chi si occupa di comunicazione.
  Federica Traversa



Maurizio Corte
Giornalismo interculturale e comunicazione nell’era del digitale.
Il ruolo dei media in una società pluralistica.
Cedam, Padova 2014, 214 pp.
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07 gennaio 2016

Guerre di serie B

"Si muore così qui: senza preavviso. Un’esplosione, dal nulla, il lampo, uno schiaffo di vento, e l’aria che si fa rovente di fiamme, sangue, schegge – e nella polvere, tra le urla, solo questi stracci di carne, questi bambini di carbone."

Crudele. Ecco come definire il libro di Francesca Borri, la coraggiosa reporter freelance che ha scelto Aleppo, in Siria, per raccontare. La Siria, che spesso viene dimenticata, o meglio confusa, perché gli occidentali ignorano dove sia e che cosa sta accadendo lì da anni. Viene confusa con l’Iraq, con la Libia. A chi importa DAVVERO della Siria? Perché, a che scopo raccontare cosa succede davvero in quel paese straziato, che ormai vive solo di cadaveri e disperazione? Più volte nel corso del libro la freelance spiega che né una ONG, né una Croce Rossa, né le Nazioni Unite si preoccupano di aiutare Aleppo. Perché? Ci sono guerre di serie B, a cui nessuno fa caso, eppure i morti e i rifugiati crescono, di stagione in stagione. Se nell’autunno 2012 i morti erano 60mila e i rifugiati 400mila, a settembre dell’anno dopo sono diventati 130mila e 2milioni e mezzo i rifugiati. I numeri servono a capire e, più si fanno i calcoli, più viene da chiedersi che senso ha tutto questo. Perché nessuno aiuta? Francesca Borri lo racconta in modo preciso, crudele, scioccante. Questa è la guerra, non avere più nulla, se non la speranza, ma forse nemmeno più quella. La Guerra Dentro, perché una volta che la vedi, che la vivi, che la sopporti, non esce più, diventa parte di teQuesto libro è più che un reportage, più che una cronaca: è un diario, pieno di sentimenti, sensazioni e soprattutto ricco di storie, una guerra che diventa letteratura. Persone incontrate che raccontano un pezzo di vita, storie incredibili, impensabili per gli occidentali. Ma al direttore di testata cosa interessa? Quello che fa scalpore, forzando la realtà, costruendo la notizia, creando lo scoop. Il pendolare al mattino, in metro, sarà colpito dal bambino-medico, dalla donna-soldato, col marito talebano magari. A chi importa se qualcuno, che un tempo faceva parte di una grande famiglia numerosa, è rimasto solo per colpa di mine e cecchini? È la disperazione. La giornalista vuole scandalizzare, vuole lasciare una traccia della guerra anche dentro di noi. Leggendo, ci sembra di essere con lei tra le macerie, a rischiare la morte, a vivere con chi non ha più nulla e non può scappare. Ciò che fa innervosire ancora di più è la disinformazione, anzi, l’ignoranza nel vero senso della parola. Mancanza di una conoscenza sufficiente. Perché noi occidentali non sappiamo davvero quello che accade in Siria. Sentiamo distratti qualche informazione al tg, ma non siamo informati a sufficienza. Forse non ci vogliono informare. Non c’è empatia con quei luoghi, non ci rivediamo in loro perché sono lontani. Ma sono come noi e Francesca Borri ha cercato, indignata, come si percepisce in ogni pagina, di spiegare, di raccontare. Crudele ed emozionante. Ci svela realtà che ci vengono nascoste. Ci fa entrare nel conflitto, ma non in quello spettacolare che passa sul piccolo schermo. Il conflitto della vita quotidiana, della ricerca di acqua e pane, o del proprio figlio di cui non si hanno più notizie.
Valeria Camarda

Francesca Borri
La guerra dentro
Bompiani, Milano, 2014, pp. 236.
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02 gennaio 2016

In libreria

Rita Marchetti
La Chiesa in Internet. La sfida dei media digitali
Carocci, Roma 2015, 160 pp.
Descrizione
Il volume offre un contributo per pensare criticamente il ruolo della rete e dei media digitali nella vita quotidiana in rapporto alle istituzioni tradizionali, in particolare alla Chiesa cattolica in Italia. I rapporti della Chiesa con i processi di modernizzazione sono stati spesso controversi e caratterizzati da un’alternanza di intuizioni e chiusure, di accettazione e cautela, tanto da rendere legittima, inizialmente, l’ipotesi di un atteggiamento di resistenza nei confronti dei mutamenti creati dalla diffusione di internet. Al contrario, il mondo ecclesiale in rete si è dimostrato una realtà estremamente e inaspettatamente ricca, con migliaia di utenti anche tra le persone e i parroci più anziani, come mostra l’importante mole di dati e informazioni raccolte sul campo di cui il volume rende conto.
*link all'Indice del libro.

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