*Timothy Garthon Ash, Il potere nascosto dei media globali, la Repubblica, 23.11.2006.
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30 maggio 2018
Il giornalismo ha bisogno di verità
"Credo che i giornalisti dovrebbero continuare a considerare un importante componente della loro missione l'impegno di testimoniare la verità di fronte al potere. Ma se il giornalismo stesso é diventato un potere, ha anch'esso bisogno di verità."
Timothy Garthon Ash
*Timothy Garthon Ash, Il potere nascosto dei media globali, la Repubblica, 23.11.2006.
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27 maggio 2018
Informazione delegittimata
Il
titolo del libro di Paolo Pagliaro, Punto non è che l’incipt di un’analisi
approfondita che ha come obbiettivo quello di trovare basi solide per debellare
l’affezione, colpevole e colposa, alla disinformazione.
La
rete è il luogo virtuale nel quale l’informazione ha subito un drastico
mutamento. Il web è territorio fertile per l’ascesa di estremismi, per la
fomentazione dell’odio razziale, politico, religioso, sessuale. Ci troviamo in
un mondo che ha indirettamente accettato di far parte dello storytelling del
potere: disposto a restare una stringa di numeri e calcoli di mercato a
servizio dei colossi del Web.
La
costruzione del nemico e di situazioni nemiche che, seppur virtualmente,
riescono a permeare la realtà ed a concretizzarsi in atti di violenza; come
accaduto durante la campagna referendaria sulla Brexit, nel 2016. Joanne Cox,
deputata laburista, è stata assassinata da un neonazista, il quale al motto di “Britain
First”, ha giustificato il suo gesto come una missione di liberazione della
Gran Bretagna dai traditori.
La
smania del web di rispecchiare sempre le preferenze di ogni singolo utente,
illudendoli di lasciar loro libera scelta, quando, al contrario, gli utenti
stessi sono il prodotto finale; la fucina di idee per il marketing e per il
mondo pubblicitario. Staccare pian piano l’attenzione, bombardando con molti
stimoli la vista, già distratta da suoni e da immagini sempre più animate, al
fine di creare una sorta di bipolarismo sociale; creare dimensioni virtuali come
i social network che annullano le distanze e accorciano i tempi di contatto.
Esaltare
la qualità dell’immediatezza e deplorare l’attesa e la riflessione. Attendere è
sinonimo di pensare come pensare è sinonimo di attenzione e di concentrazione,
non solo su stessi ma su ciò che crea la realtà quotidiana in cui siamo
immersi. Il clima d’odio che cresce come addensante di correnti di pensiero, finisce
per agitare le menti nel ricercare, per compiacimento personale e riconoscimento
di gruppo, la cosiddetta disinformation o
peggio ancora missinformation. La verità
è diventata scomoda e non produttiva ai fini del “successo” webete. Ogni utente
diventa medico, insegnate, professionista e con un post, giornalista; quando
uno smartphone basta per padroneggiare il mondo e ricreare, al tocco di
Photoshop, l’immagine più gradita di noi stessi, tanto da divenire personaggio
dell’anno 2006 per il Times. Uno schermo a mo’ di specchio ci risucchia in copertina,
come Narciso che, innamorato di se stesso, cadde nel lago; a differenza sua non
diventiamo un fiore ma una semplificazione che ci vuole tutti “amici
sconosciuti” e che ci spinge a modificare il lessico e a diffidare di un
rispettoso “lei” al posto di un “tu”. Quel potere che non ha volto se non
quello di un capitale umano pronto a non conoscersi pur di essere conosciuto e
riconosciuto dagli algoritmi, prima ancora che dagli altri cittadini virtuali.
Quel progetto iniziale costruito con intelligenza collettiva e generosa è stato
trasformato in uno strumento di interessi economici e politici.
Come
sostiene Bernabè, la rete vive una libertà vigilata nella quale il vuoto
normativo mina la democrazia; se una volta la privacy riguardava la protezione
dei dati personali, oggi deve essere rivalutata come una protezione della
persona da condizionamenti indesiderati a cui suo malgrado è esposta. Tramontata
l’era degli dei omerici -dimenticando il potenziale comunicativo della
tecnologia di oggi a dispetto del medioevo in cui c’erano pochi libri ma almeno erano letti, come ricorda l’antropologo
Roberto Niola- la gente crea un legame conviviale con i potenti e siedono sul
trono di un’illusoria parità. Diventano sostenitori della comunicazione
politica dei loro leader; indipendentemente dalla veridicità di quanto
affermato, ciò che conta è la qualità della storia. Il desiderio di sognare,
quello stesso desiderio che finisce per renderci volontariamente schiavi di un
meccanismo capace di mettere a repentaglio persino la salute fisica. Basti
pensare alla campagna “No Vax”; quelle
non notizie che come sostiene Luca Sofri,
sono diventate notizie. Fake news che nonostante siano state smentite da fonti
scientifiche, continuano ad essere prese per buone, sviluppando una sorte di
credo religioso per cui si arriva al paradosso di dire “io credo/non credo ai vaccini”. L’assurdo piace e non a caso alcuni
blog politici, come il blog di Beppe Grillo, detentori a loro dire della nuova democrazia
diretta, diffondono quotidianamente notizie false o verosimili approfittando dell’analfabetismo
funzionale di cui, secondo l’Ocse, il pubblico italiano è maggiormente
“affetto”; ovvero la non abitudine a verificare le fonti, comprenderle e
valutarle. L’anticasta, tematica tipica del populismo, diviene uno slogan di
minimizzazione dei reali problemi di un Paese che fonda la sua credibilità sul
desiderio di una democrazia non mediata. I leader populisti promettono di tagliare
le distanze tra i palazzi del potere e la piazza, realizzando una fidelizzazione
al partito o meglio ancora a loro stessi, in un epoca in cui le ideologie forti
non esistono più ed a prevalere è l’incertezza. La politica è il leader e l’elettorato
è un pubblico di reclute il cui parere resta importante solo per la divulgazione
dei messaggi elettorali; pur non credendo nel messaggio del suo partito è
disposto a condividerlo e diffonderlo come un mantra. Notizie irreali, statistiche
fuorvianti e battute violente entrano nelle eco
chambre, dove falsità e verità abdicano per lasciare voce alle opinioni che
alimentano la propaganda. I media e in particolare la televisione, hanno la
loro fetta di responsabilità nell’uso semplicistico del linguaggio che una
volta era sinonimo di “paradigma della
superiorità” ed oggi è divenuto, secondo il linguista Giuseppe Antonelli,” rispecchiamento”. Se ieri si parlava
meglio di come si mangiava, oggi si parla come si mangia e cioè usando un linguaggio
ruvido, volgare, capace di perpetrare l’illusione che la sovranità popolare è tale
solo se il politico è “uno di noi”, solo se l’autorità abbandona quel sano
distacco, solo se si è consapevoli che niente può essere detto meglio di ciò
che è falso. Il falso presuppone la semplificazione e necessita solamente di un
bacino d’emozioni comuni che colpiscono i più deboli, riducendoli a capi
espiatori; il forestiero che entra nel Paese e pretende di imporre la sua
cultura e l’immigrato che porta via il lavoro ai tanti giovani italiani disoccupati.
Il tema “immigrazione”, stendardo delle campagne politiche sia di destra che di
sinistra; tematica affrontata in nome del patriottismo e farcita di frottole,
tutt’altro che innocue. Essa in realtà è un fenomeno complesso che ha due
aspetti; un aspetto mediatico, incline a far aumentare gli ascolti -anche
servendosi di immigrati pagati per testimoniare il falso come accaduto nella trasmissione
“Quinta Colonna”- e un aspetto silenzioso che nessuno è interessato a conoscere.
Il vero problema è che non siamo disposti a condividere la situazione con gli
altri paesi europei; non esiste un’Europa
matrigna ma esiste un mancato dibattito serio sull’accoglienza. I nuovi italiani hanno affrontato
tutt’altro che un’accoglienza a 5 stelle e di certo non sono loro ad aver tolto
le casette ai terremotati. La gente non vuole informarsi, preferisce tamponare
i propri timori armandosi di ruspe e distruggendo i valori dell’Europa che non
sono solo il rispetto della concorrenza di mercato ma anche valori di libertà,
tutela dei diritti umani, cooperazione tra stati diversi. Tutto questo è molto
più di una emojii postata in un commento; è libertà di informazione che nulla ha
a che vedere con il narcisismo di massa né con il narcisismo del potere e
tantomeno con le post-verità. La libertà di informazione dovrebbe garantire ad
ognuno la libertà di farsi un’opinione critica, e di guardare la realtà non con
gli occhi della politica ma con gli occhi propri. Se la televisione ci ha
coinvolti in una realtà sempre monitorata e sempre meno intima e riservata;
ecco che le fonti d’informazione dovrebbero tornare a esercitare il loro antico
mestiere di cani da guardia. Il mondo del giornalismo sembra ormai non esistere
più anche perché nessuno investe sulla buona informazione a causa dei costi
elevati. La notizia siamo noi; i giornali si trovano tra due fuochi, quello
della verifica delle informazioni e quello della tempistica di pubblicazione.
Spesso ci si concentra più sul timore di pubblicare una notizia bruciata
piuttosto che sulla veridicità di quest’ultima. Le rettifiche o le smentite, sempre
più frequenti, passano in secondo piano e non hanno la stessa risonanza della
prima pubblicazione. I giornalisti, secondo Pagliaro, dovrebbero tornare a occuparsi
in prima persona, ad esempio, dell’estremismo islamico che ha trovato terreno
fertile grazie alla visibilità ottenuta con i social media ed in particolare
con Twitter. Tornare ad occuparsi di terrorismo e delle sue dinamiche, come fecero
i giornalisti con gli ultimatum delle Brigate Rosse; per avere credibilità un
giornalista deve avere responsabilità e buona reputazione. Non tutti possono
essere giornalisti. Non basta avere un blog su World Press, piattaforma su cui
ne fiorisce uno ogni 5,7 secondi. Essere giornalisti vuol dire avere una morale,
un etica; vuol dire, come sostiene Matteo Finotto, essere consapevoli di avere dieci
secondi a disposizione per catturare l’attenzione del lettore e che se si
fallisce, il lettore passerà con un clic ad un’ altra notizia, più ad effetto. Catturare
l’attenzione e allo stesso tempo dare informazioni veritiere, attinenti alla
realtà dei fatti. Il trasformismo del web e la sua non mediazione porta alla demagogia,
al trionfo dell’irresponsabilità al “dar voce non alla testa ma alla pancia”.
Il
premio Nobel Herbert Simon sosteneva, nel 1971, che l’informazione consuma
attenzione e che quindi l’abbondanza di informazione genera povertà di
attenzione. Secondo Luca De Biase, l’attenzione diventa una merce che, a
discapito della consapevolezza individuale, viene sfruttata da una scrittura
ipnotica colma di promesse volte a distrarre, fino a diventare la prima idea
che viene in mente. Solo con la conoscenza l’informazione crea un ecosistema
sano e scardina quella che Marshall Mclhuan definì “costante attenzione parziale”.
Lo storytelling non fa altro che creare questo circolo vizioso tra
riconoscimento ed esaltazione, garbage in,
garbage out; quel rumore tipico delle pubblicità volto a quegli eterni
fanciulli che sono gli elettori o comunque gli utenti. Una realtà che rasenta i
tratti della docufiction dove non si riesce a comprendere dove finisce la
finzione e dove inizia la narrazione reale dei fatti. Se fossimo consapevoli di
questo inganno mediatico, potremmo rivendicare il diritto alla disconnessione. De Biase propone la creazione di zone
franche utili alla riflessione, dove ogni persona possa staccare la sua
attenzione dallo smartphone, dalle mail e dalle notifiche; oggi che la tecnologia
corre veloce non c’è più il tempo per soluzioni lente ma occorre fare forza
sulle proprie capacità di distacco e diventare padroni della tecnologia. Essere
consapevoli e sviluppare quel crap detector,
ovvero quel sensore di boiate, capace di riconoscere immediatamente una notizia
falsa. Leggere e attribuire un senso a ciò che si legge; cercare di non provare
disagio nel pensare e andare oltre la comodità delle opinioni, come sosteneva Kennedy.
Essere critici e porre domande; guardare oltre il territorio nazionale,
interessarsi alle questioni estere, non solo quelle vaticane. E’ possibile
arrestare questa frammentazione esterna e interna agli individui; più siamo
isolati in noi stessi e più il potere riesce a controllarci. Le proposte per interventi
repressivi ci sono state ma tutte hanno suscitato polemiche. Paolo Attivissimo,
noto debunker, ha parlato della
possibilità di sviluppare un sistema che consente agli utenti di sapere immediatamente
se la notizia che stanno leggendo è considerata attendibile; un sistema di
etichettatura delle notizie che può essere esteso a tutta la comunicazione
digitale. L’idea di multare i siti che ospitano notizie non veritiere risulterebbe
inutile in quanto sarebbe trascurabile qualunque sanzione per i colossi “Over the Top” come Facebook. Un modo
per disciplinare il web e disincentivare la pubblicazione di notizie false può
essere quello del ritiro della pubblicità da quei siti che devono la loro popolarità
alla sistematica falsificazione dei fatti. Tornare alla reputazione come valore commerciale, comprendendo che il vero
mercato non è propriamente quello delle fake news quanto quello del mistero, delle
emozioni e del pensiero magico. Noi utenti possiamo adottare le seguenti
accortezze: a) Seguire i siti di fact checking ; b) Non fidarci di siti con
nomi bizzarri e domini strani; c) Controllare la sezione “About” dei siti e
verificare la presenza della testata su Wikipedia; d) Verificare se la storia
in questione è stata ripresa anche da altre testate o siti; e) Verificare la
presenza di una fonte ed il nome dell’autore; f) Controllare la data di pubblicazione
e ricordare che esiste la satira e che molti di questi siti adottano, in forma
alterata ma con stesso stile grafico, i nomi di testate famose.
Il
buon giornalismo, quindi, non si basa solo sul citizen journalism; occorre che i giornalisti tornino all’onestà con
coraggio e orgoglio professionale. Questo, secondo Pagliaro, è l’unico modo per
debellare l’epidemia di disinformazione che ha investito i media.
Federica
Frasconi
Paolo Pagliaro,
Punto. Fermiamo
il declino dell’informazione,
Il Mulino,
Bologna, 2017.
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26 maggio 2018
Lo spettacolo della cronaca nera
Nel libro La cronaca
nera in Italia. I perché della sua spettacolarizzazione Davide Bagnoli cerca
di riflettere sulle origini della spettacolarizzazione mediatica in Italia.
L’autore analizza cinque casi eclatanti di cronaca nera: l’incidente di
Vermicino del 1981, il caso Cogne del 2002, il rapimento di Tommaso Onofri nel
2006, l’omicidio di Meredith Kercher del 2007 e quello di Avetrana del 2010.
Secondo l’autore questi snodi principali rappresentano altrettante tappe di uno
sviluppo dell’interesse morboso dell’opinione pubblica verso i casi di cronaca.
Parallelamente è aumentato anche l’interesse e la spettacolarizzazione messa in
atto dai media per informare – e spesso per intrattenere – i propri utenti su
questi avvenimenti. Questi meccanismi vengono favoriti grazie a un’empatia
dovuta all’attenzione che gli esseri umani hanno verso le situazioni di
pericolo, da cui vogliono sfuggire. Proprio in questo duplice rapporto nasce il
paradosso delineato da Bagnoli: il pubblico è portato ad avvicinarsi a questi
avvenimenti da cui non vorrebbe essere colpito. Si tratta di una scelta
difficile ma resa necessaria dall’esigenza umana di restare al sicuro.
Dal lato del
consumatore di notizie gli effetti di tale scelta sono tra i più vari:
attrazione e assuefazione all’orrore, semplificazione della realtà con arbitrarie
indicazioni dicotomiche (bene o male; colpevole o innocente) e
interiorizzazione di fatti macabri. Contemporaneamente i media scoprono la
possibilità di manipolare il pubblico tramite le emozioni, finendo –
volontariamente o meno – per: favorire l’accanimento dell’opinione pubblica nei
confronti delle persone coinvolte nei casi di cronaca nera; acuire sempre di
più il fenomeno del turismo nei luoghi in cui questi fatti si sono consumati;
rendere le persone pericolosamente abituate alla rappresentazione della
violenza.
Il dolore privato
assume una dimensione sociale e virale e in alcuni casi si fissa nella memoria
collettiva; in altri si perde nell’oceano di informazioni quotidiane. Sebbene
il confine tra informazione e spettacolarizzazione sia labile, la seconda ha
iniziato a prevalere sulla prima a partire da giovedì 11 giugno 1981, con la
trasmissione della voce di Alfredo Rampi nell’edizione delle 13 del Tg2. Da
quel momento e in modo graduale il racconto di queste vicende si è trasformato
in una prova di forza dei media, capaci di destare un interesse morboso delle
persone verso la cronaca nera. Così media e pubblico si sono trovati
all’interno di un ciclo focalizzato sulla crescita della spettacolarizzazione a
discapito della prassi giudiziaria.
Negli anni il problema
si è ulteriormente accentuato. L’emergere delle tecnologie e delle piattaforme
digitali hanno moltiplicato il numero delle fonti e attribuito agli utenti una
maggiore possibilità di partecipazione. L’immediatezza e la velocità di pubblicazione
della notizia sono essenziali per il funzionamento di una redazione
giornalistica nel nuovo ambiente online; d’altra parte passano in secondo piano
la verifica delle fonti, la precisione e l’accuratezza della notizia. Con
Internet i fenomeni analizzati prima producono infinite imprecisioni sui casi
di cronaca nera. Il pubblico si trova inserito in questi processi di
disinformazione; le redazioni sono costrette al difficile compito di mantenere
un equilibrio tra velocità e correttezza dell’informazione. In questi contesti
vi è una spettacolarizzazione superiore e aggiuntiva rispetto a quella
esistente nei media tradizionali.
Solo abbandonando le logiche della rapidità in favore di quelle sull’approfondimento e sulla riflessione è possibile contrastare gli effetti
aggiuntivi della spettacolarizzazione sul web.
Gabriele Altea
Davide
Bagnoli
La cronaca nera in Italia.
I perché della sua
spettacolarizzazione
Temperino Rosso Edizioni, Brescia 2016.
25 maggio 2018
Tracciare confini
“Di confini non ne ho mai visto uno.
Ma ho sentito che esistono nella mente di alcune persone”. Questa citazione
attribuita all’esploratore norvegese Thor Heyerdhal si sposa in maniera
eccellente con la questione etica affrontata da Marco Binotto, Marco Bruno e
Valeria Lai nel libro Tracciare confini. L’immigrazione nei media italiani (edito da Franco Angeli, 2016). Confini che vengono subdolamente tracciati dai
mezzi di comunicazione di massa, nel tentativo di descrivere i fenomeni migratori
nel nostro paese. Confini che inibiscono la capacità del lettore di comprendere
compiutamente le dinamiche dei processi migratori. Confini che dividono noi
da loro. Gli autori propongono alcuni spunti di riflessione attraverso,
tra gli altri, varie indagini da loro condotte tra il 2008 e il 2012 sulle
principali testate di informazione italiane, con l’obiettivo di fare chiarezza
sui problemi scatenati dalla rappresentazione pubblica dei fenomeni migratori.
Il risultato è un testo chiaro e interessante, decisamente utile per
comprendere gli effetti di una comunicazione ambigua.
I media
vestono un ruolo da protagonista nella rappresentazione dei fenomeni migratori,
incidono sull’agenda politica e verso le opinioni dei cittadini. L’approccio
giornalistico al tema immigrazione, però, non considera quei valori di
obiettività propri del codice deontologico che sono necessari per
un’informazione neutra. Attraverso un uso della lingua colmo di metafore, icone
e simboli, attraverso una gerarchizzazione e una selezione mirata delle
notizie, i media italiani offrono un’immagine deviata del fenomeno in questione
che viene puntualmente sfruttata da una politica interessata a porre sempre
nuove questioni in agenda. Rappresentazione sociale dell’alterità che si
contrappone a una rappresentazione sociale della realtà, per usare due
termini presenti nel volume. La tendenza dei media è quella di offrire
un’immagine alterata nelle forme e nelle dimensioni, concentrandosi sui
dettagli negativi del fenomeno. Questo porta ad avere un’immagine immobile, “un
fotogramma fermo da quasi quaranta anni su un fenomeno in perenne movimento”. Gli
autori ci mostrano come il giornalismo italiano si sia dedicato quasi
esclusivamente alla parte problematica, quella “legata al vocabolario del
delitto, alle sue emozioni e ai suoi dolori, al terrore di essere invasi e al
timore del degrado”; questo ha portato all’inevitabile risultato
dell’immigrazione vista come “problema da risolvere”. Analizzando le notizie
dei vari siti d’informazione è evidente come il termine immigrazione sia troppo
spesso affiancato a fatti violenti: il crimine dell’immigrato fa notizia. Come
possiamo allora avere una buona informazione, se la cronaca tralascia alcuni
aspetti delle vicende e si concentra solo su quelli negativi?
Altra
riflessione che vien spontanea riguarda l’integrazione dello “straniero”. I
processi sociali e culturali necessari per formare uno spirito collettivo di
inclusione trovano numerosi ostacoli, non avverranno mai completamente finché
non cambia l’opinione pubblica riguardo il fenomeno dell’immigrazione. Il
problema fondamentale è proprio questo: in Italia non potrà esserci un’idea
positiva di integrazione nell’assetto culturale del paese se non mutano le
modalità di comunicazione. La prassi giornalistica comune è quella di
descrivere lo straniero come una minaccia per l’economia, per la sicurezza, per
lo status di società civile; questo anche a causa di violazioni deontologiche
ricorrenti: manipolazione di dati, utilizzo senza troppe distinzioni di termini
come “extracomunitario” o “rifugiato”, sovra-rappresentanza della “devianza
immigrata”. Le analisi degli autori parlano chiaro: l’immagine dell’immigrato è
associata a quella del criminale, e questo non può che ostacolare il processo
di integrazione. Processo che può nascere solo con una conoscenza più approfondita
della questione, che presti attenzione anche alle dinamiche e ai dettagli che
si nascondono dietro la superficiale e distorta immagine che viene proposta dai
media. Siamo di fronte ad un problema di comunicazione, piuttosto che di
immigrazione.
Il lavoro
proposto da Binotto, Lai e Bruno in questo volume suona come un j’accuse
rivolto ai giornalisti e, più in generale, a tutti i mezzi di comunicazione di
massa. Le routine giornalistiche, le dinamiche della cultura professionale, la
competizione tra testate, le relazioni con le fonti (soprattutto nella cronaca
nera), sono solo alcuni degli aspetti che incidono negativamente sul lavoro dei
giornalisti, e questo non può che gravare la condizione di trasparenza che
l’informazione dovrebbe avere. Non è, quindi, un’accusa di complotto verso i
giornalisti, ma solo un’analisi su come le dinamiche di creazione delle notizie
portino i media a plasmare una realtà distorta. Per risolvere questi problemi
di ricostruzione di una pseudo-realtà, gli autori propongono una soluzione
tanto semplice da sviluppare quanto difficile da mettere in atto: ci vuole
maggiore responsabilità. Uno spirito di cronaca responsabile da parte dei
media, da una parte, e una visione critica delle notizie, da parte dei lettori,
dall’altra. Viviamo in un mondo sempre più interconnesso, che ci offre
grandissime possibilità di conoscenza, ma non riusciamo a sfruttare
completamente queste opportunità per migliorare qualitativamente i contenuti
dell’informazione. Piuttosto che incrementare la quantità di notizie, i media
dovrebbero soffermarsi a raccogliere più dati e dettagli possibili per offrire
una visione più accurata delle vicende che vogliono raccontare. Non è
sicuramente semplice, ma questo potrebbe facilitare uno sviluppo culturale e,
di conseguenza, un’apertura ideologica dell’opinione pubblica verso il tema
dell’immigrazione. Forse, così facendo, il concetto di integrazione, prima o
poi, entrerà a far parte dell’assetto culturale del nostro paese. Forse, quel
giorno, non vi saranno più confini a dividere noi da loro.
Gerardo
Baldassarre
Marco Binotto, Marco Bruno, Valeria
Lai
Tracciare confini. L’immigrazione nei
media italiani
Franco Angeli, Milano 2016
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In libreria
Kenneth Goldsmith
Perdere tempo su internet
Einaudi, Torino, 2017, pp. 192.
Descrizione
Tutti perdiamo tempo su Internet, arrivando persino a colpevolizzarci per quanto siamo soliti saltabeccare da un sito all'altro. Ma siamo davvero sicuri che stiamo sprecando del tempo? Per Kenneth Goldsmith non è affatto cosí perché, a differenza dei vecchi media, Internet ci obbliga a un coinvolgimento attivo, facendoci diventare piú sociali, piú inventivi, e persino piú produttivi. Goldsmith sviluppa queste sue provocatorie intuizioni sostenendo che le nostre vite digitali stanno rimodellando l'esperienza umana. Quando stiamo «perdendo tempo», in realtà creiamo una cultura della partecipazione, leggiamo e scriviamo di piú, anche se in modo diverso. E mandiamo a gambe all'aria i concetti di autorità e autenticità. Internet ci fa entrare in uno stato intermedio tra l'estrema attenzione e il naturale fluire del subconscio, la condizione ideale per la creatività. Dove tutto ciò ci condurrà è uno dei segreti del XXI secolo ancora tutto da scoprire.
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23 maggio 2018
Quel genere di giornalismo che genera sconcerto
Spesso
si pensa che le caratteristiche del buon giornalismo siano meramente quelle
della chiarezza espressiva e della fruibilità del testo da parte di ogni tipo
di lettore. Troppo spesso, altresì,
passa in secondo piano l’importanza della scelta delle parole. Nel
momento in cui scegliamo determinate parole per descrivere un’azione o un
soggetto, non riportiamo semplicemente la realtà dei fatti ma creiamo realtà.
L’obbiettività del giornalista risiede anche nel chiedersi se quel determinato
termine, usato per descrivere una persona, è rispettoso della dignità di quest’ultima.
Negli ultimi anni è tornato centrale il tema del genere e di come quest’ultimo venga
attribuito, aprioristicamente, in base al nome proprio di persona; aprendo un
dibattito, soprattutto nei casi in cui si parla di persone transessuali o transgender.
Il
giornalista non è avulso dalla realtà sociale: il giornalista è un guardiano
della laicità e dei principi essenziali che sostengono la buona comunicazione e
la corretta informazione. Troppo spesso leggiamo articoli nei quali viene
indicata la sessualità di una persona nonostante sia irrilevante ai fini della
cronaca. La domanda da porsi è, non solo perché questo accada ma anche perché
nessuno- o meglio la stragrande maggioranza delle persone- si accorga e riconosca
questo abuso di potere. Un articolo
deve sì essere letto e reso appetibile al lettore, ma questa priorità non deve
scalfire l‘identità altrui. Il giornalista di oggi, ancor più rispetto al
giornalista di ieri, ha il dovere di essere il più possibile distaccato
emotivamente e idealmente dai fatti di cronaca di cui si occupa. Freddo come un
investigatore che vuole contribuire alla risoluzione di un caso; freddo ma non
per questo meno credibile. L’enfatizzazione di certi fatti, apparentemente
comuni, seppur tragici non deve spingere a rendere notizie quelle che non lo sono; notizie che non avrebbero la stessa
importanza e visibilità se non fossero state etichettate con un’ideologia omofoba
o xenofoba o misogina. D’altro canto, l’informazione giornalistica della carta stampata
come del web, tende a imitare il grande schermo, a renderci un continuum tra le
pagliette dello spettacolo e le pagliette immaginarie attribuite, dal sentire
comune, all’immagine del transessuale.
Senza
scomodare vecchi articoli de Il Borghese,
negli anni 50’, oggi, purtroppo, ci troviamo ancora a dover discutere dell’importanza
che hanno le testate giornalistiche nella lotta
alle discriminazioni. Creare un clima di opinione pubblica, senza
assecondare la maggioranza e senza ostentare le minoranze. Partendo dalla
conoscenza dei fatti e delle realtà: Se una persona è diventata donna o si
definisce tale dopo essere nata uomo, o viceversa, quella persona- che abbia
cambiato il sesso biologico o meno- non è un/una
transessuale ma una donna o un uomo. Le lotte femministe degli anni Settanta
dovrebbero riportarci alla memoria la grande fatica per attuare la laicità in
questo paese, se dicente laico. Dovremmo tornare a quello spirito fraterno non
religioso né fazioso, scandaloso ma non deplorevole; a quel clima in cui le
donne unite creavano la forza per cambiare la loro quotidiana e liberarsi da
quell’ Amica oppressiva e rendere più
vivibile la realtà alle donne di domani. Oggi la società è frammentata, le
femministe come altri gruppi per i diritti civili tendono a creare fronti di
opposizione e a non collaborare. Per questo il giornalista dovrebbe, per quanto possibile,
cercare di riavvicinare queste due realtà, farle comunicare, semplicemente mettendole
in uno stesso articolo- riuscendo così a farle convivere in una dimensione- chiamandole
in causa e facendole sentire parte della stessa missione. Può sembrare surreale
ma dal surreale che, sempre negli anni Settanta, abbiamo ottenuto il divorzio;
e che evento mediatico fu, quella campagna referendaria!
Dovremmo
tornare ad essere entusiasti, non di noi stessi e della nostra vetrina social; dovremmo
riempire le piazze, riunirci e non schierarci da una parte ma ascoltare tutte
le ragioni e rispettare tutte le sensibilità, perché queste ultime sono
esperienze di vita, pelle viva.
Di
recente, la presidente del Senato -prima donna in Italia a ricoprire questo
ruolo- Maria Alberti Casellati, ha chiesto ai giornalisti di non essere
chiamata “La Presidente” ma di usare nei suoi confronti, l’espressione, “Il Presidente”.
La rete si è schierata e i salotti televisivi, pur di rendere stuzzicante la scaletta quotidiana, ne hanno parlato e
straparlato. E’ una scelta ed è incredibile come una richiesta esplicita
sconvolga così tanto gli animi. E’ una scelta da rispettare, come da rispettare
è stata la scelta della ex presidente della Camera, Laura Boldrini, di essere chiamata
“La Presidente”. Non centra lo schieramento politico, perché a chiedere questo
non è il politico o la politica ma una persona, in questo caso una donna che ha
il diritto di chiedere il rispetto della sua identità; per meglio dire della
sua sensibilità culturale e personale.
Il giornalista non deve schierarsi con questa
o con l’altra fazione, deve – se vuole recuperare la sua credibilità sociale e
rendere vivo il giornalismo, distinguendolo dallo pseudo giornalismo- diventare difensore della laicità, amante
della critica e in primis curatore delle parole. Italo Calvino non a caso
sosteneva che le parole fanno più male delle pietre.
Federica Frasconi
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22 maggio 2018
Quando internet fa paura
Cercando su Google il nome di Walter Quattrociocchi, l’autore di
Misinformation , una dei primi nomi
delle ricerche correlate è quello di Laura Boldrini, l’ex
presidentessa della Camera e negli ultimi anni vittima prediletta di fake news
e insulti di vario genere sui social network.
Gli autori di questo libro - Walter Quattrociocchi e Antonella Vicini - sono infatti due studiosi di bufale online e del fenomeno della disinformazione; Misinformation” tratta proprio di questi due argomenti e di quanto siano terribilmente attuali nella nostra era digitale. Ciò che differenzia questo volume, dai molti altri che hanno affrontato queste tematiche, è stata la capacità dei due autori di affrontare un’analisi completa ed esaustiva sulle dinamiche e i processi che ruotano attorno al complesso asse della disinformazione. La ricerca dei due scrittori e i dati riportati nei vari capitoli, riescono a far emergere in superficie quello che si nasconde sotto il “rischio globale” della disinformazione e a far comprendere ai lettori l’entità del fenomeno, entità che spesso viene ignorata da molti, ma importantissima per comprendere appieno questa problematica contemporanea.
Nonostante l’esile quantitativo di pagine, Misinformation non è una lettura semplice come si possa pensare, l’argomento della disinformazione potrà anche essere considerato “mainstream”, specie nel 2018 dove continua ad incrementarsi il numero delle fakenews presenti sulla rete, specie su temi importanti per l’opinione pubblica quali: vaccini, immigrazione e criminalità. Con una lettura attenta, questo libro permette di cogliere informazioni, dati e dinamiche che difficilmente potremmo carpire dai telegiornali o negli articoli dei quotidiani e che aiutano onestamente a comprendere il fenomeno.
Oramai è sempre più
comune pensare che la disinformazione sia il frutto avvelenato
dell’ignoranza degli utenti on e off line, purtroppo però, almeno una
volta nella vita è capitato a tutti o quasi di condividere una notizia falsa,
specie se si era distratti o semplicemente perché si è stati troppo superficiali,
nessuno è totalmente immune al fenomeno. Sono in molti purtroppo a cadere negli
inganni di fantomatiche testate online quali “Il Fatto Quotidaino” e “Il
Corriere del Corsaro”, che nulla hanno a che vedere con i quotidiani reali da
cui i loro nomi sono ispirati. Misinformation riesce a guidarci tra queste
fitte trame popolate da bufale e fake news, aiutandoci a riconoscere i siti di
cui poterci fidare e mostrandoci i processi psicologici che si attivano
inconsapevolmente quando stiamo navigando in rete, specie sui social network.
Per l’utilizzo di web e
social network bastano due cose essenziali: una connessione internet e un
dispositivo su cui navigare, che può essere un computer o uno smartphone.
Ad oggi, non ci sono patentini speciali o diplomi che ti permettano di
accedere alla rete solo dopo un accurato controllo delle capacità
cognitive, quindi internet è popolato da personaggi di ogni tipo, molti
con buone intenzioni e altri, molti altri, invece utilizzano questa
grande opportunità nei modi peggiori. Tutti noi siamo potenziali vittime della
rete.
La prima parte del volume
risulta essere in una terra di mezzo senza una chiara idea sulla platea di
lettori a cui si vuole rivolgere. Certi studenti universitari la troverebbero
poco interessante, in quanto molti degli argomenti trattati sono riscontrabili
anche nei libri di testo delle facoltà sociologiche e letterarie; termini
come “citizen journalism”, “echo chamber” e analfabetismo funzionale sono già
ampliamente di uso comune tra gli studenti e anche tra i lettori più esperti ed
informati. D’altra parte, per coloro che non hanno familiarità con questo
genere di argomenti, la lettura risulta un po’ criptica, poco dettagliata e
anche poco esaustiva; certe note di colore, che sarebbero state molto interessanti,
vengono raccontate in modo sbrigativo e questo ha fatto perdere la forza
dell’impatto iniziale che dovrebbero avere i primi capitoli di un volume.
Nella seconda parte del
libro il racconto si fa sempre più interessante, gli autori
analizzano dati statistici di ricerche nostrane ed estere che fanno
comprendere le vere dinamiche della disinformazione: come avviene, come si
evolve, come si radica nella mente delle persone e quanto è difficile
estirparla, sempre se sia possibile. Vengono snocciolati dati quasi
sconvolgenti che fanno entrare il lettore in un episodio
di “Black Mirror” anche se purtroppo in questo caso non si tratta di
finzione. Le informazioni vengono date con esaustività e sono accompagnate
da percentuali e dati che impattano sulla lettura senza però risultare
stucchevoli, anzi, arricchiscono il contenuto.
Misinformation apre un vaso
di Pandora su un problema sociale di cui si era scalfita solo la superficie,
affrontando argomenti come il mancato controllo delle fonti giornalistiche, la
bolla protettiva dentro la quale si rifugiano gli internauti, lo sfuggire a chi
ha idee diverse dalle nostre, l’estremismo delle opinioni che viene alimentato
dalle dinamiche di gruppo. Tutti questi sono fattori sociali che prima
difficilmente venivano esplorati ma che stanno alla base della comprensione del
fenomeno della disinformazione.
Dopo la lettura di questo
libro sicuramente internet farà un po’ più paura, i social network hanno perso
la loro innocenza iniziale diventando mostri che rilasciano nel mondo grossi
quantitativi di fake news, giornalismo approssimativo e
disinformazione, il pericolo è reale; si passa dal condividere un
trafiletto di qualche pagina satirica, al calo dell’immunità di gregge,
problemi fittizi che arrivano al punto di diventare concreti, senza alcun
passaggio intermedio.
Fortunatamente c’è ancora speranza, non tutti condividono
notizie senza pensare, non tutti vogliono corrompere la società spargendo odio
e menzogne, tra gli internauti sono presenti anche i "debunker", eroi
moderni senza tutina e mantello che fanno della smentita delle bufale la loro
missione di vita. Non tutto è perduto quindi, ma non basta.
Libri come Misinformation sono preziosi, andrebbero letti
da tutti per raggiungere quel grado di consapevolezza necessario per poter
affrontare la rete e coloro che la popolano. L’oceano di internet è sconfinato
e noi siamo navigatori inesperti bisognosi di una guida che ci aiuti ad
utilizzarlo. Internet è e deve essere considerato una risorsa e non un
pericolo, solo usandolo nel modo giusto potremo ampliare le sconfinate
possibilità che ci offre.
Camilla Agoglio
Walter Quattrociocchi, Anronella Vicini
Misinformation – Guida alla società dell’informazione e della credulità
FrancoAngeli, Milano, 2016, pp. 145.
___
07 maggio 2018
In libreria
Roberto Bernocchi, Alberto Contri, Alessandro Rea
Comunicazione sociale e media digitali
Carocci, Roma, 2018, pp. 236.
Descrizione
Indice
Comunicazione sociale e media digitali
Carocci, Roma, 2018, pp. 236.
Descrizione
Il web ha trasformato le abitudini, il modo di vivere e di comunicare. Ha prodotto cambiamenti straordinari e trasversali ai diversi settori di mercato. Anche la comunicazione sociale è a un bivio importante: replicare gli errori del passato, nello studio del messaggio e nell'uso dei media tradizionali; oppure sviluppare un nuovo approccio professionale, strategico, e rilevante per i propri destinatari. A tal fine, è importante sapere che cinquemila persone interessate a quello che hai da dire valgono più di cinquecentomila che non vogliono ascoltarlo. Il volume offre gli strumenti fondamentali per elaborare campagne sociali di successo utilizzando nuovi media e social network.
Indice
1.La comunicazione in un mondo che cambia
La nascita della pubblicità/La nascita di Internet/La nascita della pubblicità sociale/Verso la rivoluzione digitale
2. La comunicazione sociale che cambia
I
soggetti/Lo stato di salute della comunicazione sociale in Italia/Gli
obiettivi di comunicazione/Il target/Strumenti, media e canali di
comunicazione/I nuovi media/Dagli obiettivi alla strategia
3. Tecniche di comunicazione sociale digitale
Il
nuovo paradigma della comunicazione sociale/Creare contenuti, seguendo
una strategia/Amplificare i contenuti con i social media/Sponsored
content/Al lavoro, chi fa cosa?
Conclusioni
Bibliografia
Sitografia
____
05 maggio 2018
In libreria
Francesca Rizzuto
La società dell'orrore. Terrorismo e comunicazione nell'era del giornalismo emotivo
Pisa University Press, Pisa, 2018, pp. 104.
Descrizione
Nell’ecologia dei media contemporanei il tratto distintivo del giornalismo è un processo radicale di spettacolarizzazione della realtà, che ha rilevanti conseguenze sia nella logica professionale che sul rapporto con i destinatari, diventati producer e performer. Il libro introduce il tema del predominio degli imperativi commerciali nelle news, con la loro spinta verso eccessi intrattenitivi e spettacolari, che attingono al valore della narrazione tipico dello story model per offrire notizie capaci di emozionare informando. Focalizzando l’attenzione sul coverage del terrorismo contemporaneo, che dal 2001 ha accentuato il peso della componente simbolica nelle proprie strategie, il volume analizza i rischi connessi alla rappresentazione mediata delle sofferenze e della crudeltà: insistendo sulle emozioni degli spettatori, l’orrore nelle notizie può produrre esiti preoccupanti per il destino delle democrazie come, ad esempio, il sostegno dei news media alle politiche militariste o la spinta al disimpegno per milioni di spettatori-testimoni oculari del macabro in diretta.
____
04 maggio 2018
Seminari di pratica giornalistica
Venerdì
4 maggio 2018 h. 14-16
Cristiano
Palozzi (Direttore
di Genova
Film Festival)
La
scrittura del documentario
Il seminario si svolgerà presso
il Dispo, Torre
centrale, IV piano - sala A. nell’ambito del corso del Prof.
Guido Levi di Relazioni
internazionali per i media ed
è
esteso a tutti gli studenti e laureandi del corso LM in
Informazione ed
Editoria.
____,
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