Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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30 giugno 2014

Irene Brin. Una giornalista, tante firme

Il libro di Claudia Fusani, giornalista de l’Unità, è a tutti gli effetti una biografia. Una biografia su una figura del giornalismo italiano ancora poco nota: Irene Brin.Si inizia a leggere così Mille Mariù, con questa consapevolezza, per poi arrendersi all’idea di trovarsi davanti a qualcosa di diverso, a quello che Concita di Gregorio, nella prefazione al libro, definisce romanzo di una vita. Romanzo di una vita o forse di più vite, nelle quali Maria Vittoria Rossi, nome di battesimo, si scompone attraverso i moltissimi pseudonimi che usa per firmare i propri pezzi.
E così troviamo proprio l’Irene Brin del titolo, nome consigliatole da Leo Longanesi al tempo della sua collaborazione con Omnibus, la Marlene dei primi articoli de Il Lavoro di Genova, o la puntuale Contessa Clara che sulla Settimana Incom dà consigli di raffinatezza e buone maniere.
La narrazione cronologica dei fatti non annoia ma, al contrario, aiuta nel seguire tutti gli avvenimenti, i traslochi, gli incontri della giornalista nata nel 1911. Claudia Fusani parte dall’infanzia di Irene nella nativa Sasso di Bordighera, che le ha recentemente dedicato un museo, per poi seguirla nel suo peregrinare in Italia al seguito del bell’ufficiale Gaspero Del Corso, sposato nel 1937. Ma poichè, come ricorda la stessa Fusani «Gli indizi per ricostruire la biografia di Irene Brin sono da ricercare nelle opere», il libro presenta lunghi estratti di articoli, lettere, racconti che fanno emergere la poliedricità di questa giornalista.
L’attenzione dell’autrice si concentra proprio su tutte queste sfaccettature che sono il riflesso di una donna incessantemente curiosa e versatile. Una donna che scrive di abiti, divi del cinema o della danza, opere d’arte con la consapevolezza che attraverso una piega, una manica a sbuffo si possa raccontare molto di una società. Le riflessioni sulla moda e il costume diventano approfondimenti e testimonianze di trent’anni di storia italiana assai travagliati. In controluce si vede il rapporto tra stampa e regime fascista e la situazione del paese nel delicato periodo postbellico.
A rendere interessante il volume contribuisce l’apparato iconografico posto nel centro del libro. Per la maggior parte si tratta di foto di Irene Brin nel corso della vita, anche in momenti privati; altre sono riproduzioni di articoli corredate da disegni e bozzetti della stessa giornalista Un libro ben scritto e che, soprattutto, accende i riflettori su una figura della storia del giornalismo davvero troppo trascurata.
Chiara Bozzo


Claudia Fusani
Mille Mariù. Vita di Irene Brin
Roma, Castelvecchi (LIT Edizioni) 2012, 278 pp.



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26 giugno 2014

Tra globalizzazione e digitalizzazione

L’analisi di Paolo Carelli in Confini mobili parte da una constatazione: la globalizzazione e la digitalizzazione fanno ormai parte del quotidiano. Questi due fenomeni hanno dato vita a un processo inarrestabile di cambiamento che investe la società nella sua interezza, a partire dall’ambito economico e politico fino a quello relazionale e culturale. E si pone un obiettivo: analizzare e ridefinire il ruolo dei media in questo nuovo assetto sociale. La globalizzazione riguarda in particolare il flusso delle persone, delle merci e del denaro, delle idee e delle ideologie, delle immagini, che, se è vero che in qualche misura è sempre esistito, oggi può essere considerato nuovo per diffusione, portata e intensità. La digitalizzazione fa riferimento invece al passaggio dal formato analogico a quello digitale per la trasmissione delle informazioni, che ha dato un forte impulso ai meccanismi di produzione e di consumo dei media. L’autore analizza a fondo questi due complessi fenomeni attingendo a diversi studi di carattere sociologico, antropologico, culturale, politico, economico che si sono svolti nell’ultimo decennio, arrivando a tracciarne un quadro straordinariamente completo, anche se per sua stessa natura ancora in divenire e soffermandosi in particolare su alcuni degli effetti principali di questa trasformazione in atto. L’allentamento delle relazioni di prossimità. La circolazione di immaginari su scala globale. La messa in discussione dello stato-nazione con le sue funzioni, i suoi confini, i suoi legami con la politica, l’economia, la cultura e la comunicazione. I fenomeni migratori di massa. Le nuove strutture politiche e finanziarie sovranazionali. I nuovi mezzi di comunicazione consentono una riorganizzazione spaziale dei rapporti sociali. In questo nuovo contesto qual è il ruolo dei media? La struttura mediatica nazionale è ancora valida ed efficace? È possibile parlare di sistemi mediatici transnazionali o sovranazionali, così come evidenziare percorsi inversi di localizzazione e regionalizzazione dei media? Sono queste le questioni principali a cui si cerca di dare una risposta nel libro, che, oltre ad un’analisi dello stato attuale dei media si propone di trovare nuovi criteri per poter analizzarne al meglio la struttura e le funzioni. Nella seconda parte del libro l’autore ripercorre storicamente, a partire dalla costruzione dello stato moderno fino ad oggi, l’intreccio tra i mezzi di comunicazione di massa e i confini nazionali sociali e culturali in cui si sono sviluppati. La ricerca si concretizza e diviene completa nella parte più interessante del libro, quella conclusiva, caratterizzata dalla comparazione tra due stati europei, che rende manifesta l’utilità e la forte componente innovativa della tipologia di analisi adottata dall’autore. Il confronto è tra l’Italia e la Spagna, scelte perché simili secondo il metodo comparativo. Il confronto parte necessariamente dalla componente storica e prende in esame il grado di internazionalizzazione della proprietà dei media, lo sviluppo delle nuove tecnologie, l’impianto legislativo e normativo e l’unificazione linguistica, fornendo un quadro chiaro ed efficace della struttura mediatica dei due Paesi.
Silvia Cassola








Paolo Carelli
Confini mobili. I sistemi mediatici nazionali
tra globalizzazione e digitalizzazione
Bologna, I libri di Emil, 2013.
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23 giugno 2014

L'information Warfare

Lo spazio cibernetico è un nuovo campo di battaglia e di competizione economica e geopolitica. Il web non è affatto garanzia di trasparenza e democrazia e quella per la libertà è una battaglia tuttora in corso.
Nel libro di Vito Campanelli Infowar troviamo ben esplicate le funzioni della NSA (National Security Agency), che è stata fondata, assieme alla CIA, nel 1947 e lavora in stretta collaborazione con il Dipartimento della Difesa statunitense, occupandosi delle informazioni crittografate e dell'Information Warfare.
L'Information Warfare, o Infowar, ha come scopo fondamentale quello di raccogliere e analizzare le informazioni del concorrente, per perseguire i propri interessi strategici e tattici. I bersagli possono essere sia persone che intere nazioni. Le principali minacce per le persone sono denotate da intromissioni fraudolente nei database (furti di identità che possono colpire più individui simultaneamente e che causano perdite finanziarie spesso ingenti), mentre per quanto riguarda gli stati, gli attacchi possono bersagliare sia il sistema dell' informazione che quello delle infrastrutture.
Internet è sempre stato, sin dalla sua nascita, oggetto di attenzioni da parte di tutti i servizi segreti e altri soggetti privati dediti alla ricerca di informazioni.
Le azioni in rete possono essere sia offensive che difensive, quindi si possono costruire notizie false o manipolate con l'obbiettivo di arrecare danno al proprio nemico o si possono diffondere notizie che mirano a contrastare quelle diffuse dal nemico. Queste azioni confluiscono nel settore di attività noto come disinformazione.
Sembra molto difficile dire in sintesi quale sia il problema della libertà della rete: la difesa dei dati personali, la censura statale, l'intervento attivo dei regimi autoritari per costruire consenso nel mondo dei social network e dei blog, o ancora le arcaiche leggi sul diritto d'autore... Sono moltissimi i fattori che vanno contro la libertà nella dimensione del web.
Il libro di Campanelli fa capire chiaramente che non esiste una sola sfida ma un fronte di combattimento aperto e scomposto, continuamente in trasformazione. Ogni avanzamento sul fronte democratico innesca la reazione dei grandi poteri.
Parlando di Infowar si può può riassumere l'intero discorso analizzando tre costanti di base: la prima è che la sovranità contemporanea è costituita da un complesso intreccio di diverse forme di governo, nelle quali spesso si verifica una massiccia estensione delle strategie di controllo poliziesco che agisce sempre più anche attraverso la rete. Il secondo punto descrive la natura di questa forma di potere che si identifica come un "capitalismo comunicativo": un potere che ingloba con facilità e rapidità gli altri e il cui unico obbiettivo è il profitto. Il terzo punto ci riporta alla battaglia per i diritti attraverso la rete e la battaglia per la democrazia all'interno della rete: solo la libera circolazione dei contenuti culturali, l'investimento su piattaforme social decentralizzate e meno invasive, possono porsi contro i poteri forti del sistema.
L'aspetto fondamentale che emerge da tutto il libro, comunque, è che nel contesto geopolitico in cui ci troviamo, dove le multinazionali sono più forti dello Stato-Nazione, L'Infowar si sovrappone alla guerra economica sostenuta appunto dalle corporation e dalle multinazionali.
Pietro Merello


Vito Campanelli
 Infowar. La battaglia per il controllo e la libertà della rete
 Milano, Egea, 2013, 164 pp.


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22 giugno 2014

In libreria

Gianluca Gardini
Le regole dell'informazione: dal cartaceo al bit.
Torino, Giappichelli, 2014, 424 pp.
Indice
Prefazione alla terza edizione. – Parte Prima: Nozioni generali. – 1. Libertà di manifestazione del pensiero e diritti della persona. – 2. L’informazione tra dimensione globale e locale . – 3. Le libertà di informazione nel quadro costituzionale. – 4. I limiti alle libertà di manifestazione del pensiero. – 5. Il diritto di cronaca, critica e satira. – Parte Seconda: I settori. – 6. Disciplina della stampa e della professione giornalistica. – 7. La radiotelevisione. – 8. Lo spettacolo. – 9. Le comunicazioni elettroniche. – 10. La disciplina di Internet. – Parte Terza: I temi trasversali. – 11. Riservatezza e privacy. – 12. L’informazione e la comunicazione delle pubbliche amministrazioni. – 13.Gli organi di governo, di gestione e di garanzia. – Riferimenti bibliografici essenziali.

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17 giugno 2014

In libreria

Mario Dondero
Lo scatto umano. Viaggio nel fotogiornalismo da Budapest a New York
Roma-Bari, Laterza, 2014, 160 pp.

disponibile anche in formato ebook
Descrizione
La grande stagione del fotogiornalismo internazionale, raccontata e vissuta da uno dei più importanti e originali fotografi europei. Questo è un viaggio nel cuore della più bella stagione del fotogiornalismo internazionale. Da Parigi a Londra, da New York a Roma, da Budapest a Mosca, da Kabul alle pianure della Cambogia, Mario Dondero svela le storie che stanno dietro le fotografie sue e di altri, il confronto con mostri sacri come Robert Capa, i grandi eventi del XX secolo, dalla guerra di Spagna alla Grande Depressione americana, dalla caduta del muro di Berlino alla guerra in Iraq. Nelle sue parole sottili, ironiche, appassionate, scopriremo chi sono stati i primi fotoreporter, i primi creatori di agenzie, le ferree regole del mercato e quello che impongono. Ma, soprattutto, troveremo cosa rende straordinario il mestiere del fotoreporter, lo spirito nomade, il misto di adrenalina e paura nelle situazioni di pericolo, l’impegno civile, la curiosità per l’altro. Una storia ricca di persone e umanità, la vera cifra della migliore fotografia perché «non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono. Diversamente, il fotogiornalismo sarebbe soltanto una sequenza di scatti senz’anima.»

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16 giugno 2014

Il porto di Genova


Lunedì 16 giugno 2014 h. 17,30 presso la Sala del Capitano di Palazzo San Giorgio (via della Mercanzia 2) l'Autorità Portuale di Genova e la Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie promuovono la presentazione del documentario di Salvatore Vento  "IL PORTO DI GENOVA LE RADICI DEL FUTURO" una video produzione di Ugo Nuzzo (Video Voyagers). Un percorso nella storia delle trasformazioni del lavoro portuale e dei rapporti con la città raccontati dai lavoratori della Compagnia, dai suoi Consoli e dai diversi Presidenti che si sono succeduti nel CAP e nell'Autorità portuale. Dopo il documentario, seguirà il dibattito con interventi di Antonio Benvenuti (Console Culmv), Giambattista D'Aste (Segretario generale A.P.), Rappresentante del Comune di Genova. Coordina Francesco Ferrari (resp. Economia Il Secolo XIX). Sarà presente Massimo Ferrario (Direttore Rai Liguria).

14 giugno 2014

La cultura è ricchezza

"La cultura è per noi leva determinante ed essenziale non per il dominio, ma per la liberazione di ogni singolo individuo e della società nel suo complesso. Quanto più avanza la conoscenza scientifica e quanto più sofisticate si fanno le tecniche tanto più assurdo appare il ruolo marginale assegnato alle forze della cultura e del sapere. È ormai ovunque necessaria una capacità di previsione e di programmazione e tale capacità vuoi dire rapporto continuo tra politica e conoscenza, tra istituzioni democratiche e mondo della cultura e del sapere. Senza una tale razionale capacità di previsione e di programmazione le stesse conquiste della scienza e della tecnica possono rivolgersi contro l'uomo, anziché a suo vantaggio. Il pensiero ancora oggi dominante è che la natura sia da considerare come una sorta di mezzo di produzione, da sfruttare in modo indiscriminato e quando, soprattutto fra le giovani generazioni, si diffonde un senti mento di ripulsa verso questa concezione si obietta da parte di molti che non si vuole tener conto della preminenza delle necessità economiche; ma è proprio qui l'arretratezza culturale. Oggi, al contrario, è perfettamente concepibile uno sviluppo che non avvenga facendo irrimediabile violenza alla natura. Oggi le tecnologie offrono straordinarie possibilità tra loro alternative. E se non si sarà capaci di scegliere tra le diverse tecnologie quelle che consentono di rispettare la natura come un valore da salvaguardare con ogni sforzo, saranno alla fine negativi anche i conti economici. L'ambiente è anch'esso una risorsa e la sua dissipazione è un danno anche economico. Deve essere messa sotto accusa la politica generale, ma anche l'ignoranza e l'incultura che l'hanno generata. Niente può giustificare l'incuria o peggio l'abbandono alla speculazione, al saccheggio, ai furti sistematici del più straordinario patrimonio cultura le che esista nel mondo ereditato dalle grandi civiltà che, fatto pressoché unico, si sono succedute in Italia. In Italia in Italia, viviamo immersi in una ricchezza di testimonianze di epoche diverse, di civiltà che si sono succedute senza uguali, rispetto a tutti gli altri paesi dell'Europa. Questa ricchezza di beni esige tutela e valorizzazione già per il fatto che essa appartiene propriamente non solo a noi italiani, ma a tutta l'umanità. L'Italia ha verso gli uomini tutti, anche verso quelli che verranno dopo di noi, la responsabilità di salvare e conservare documenti che sono indispensabili a fare non appiattite ma alte, fornite di memoria storica, dotate di molti modelli ideali, le civiltà degli uomini di oggi e di domani. Certamente le regioni e gli enti locali più sensibili possono curare e curano questa ricchezza di valori e di testimonianze, come il comune di questo capoluogo. Ma per quanto siano efficaci gli sforzi e le iniziative loro, essi non possono bastare se manca il complessivo impegno dello Stato. Assurda appare la destinazione nel bilancio statale di somme tanto esigue ai beni culturali, zeroventicinque per cento del totale: la cifra si commenta da sola. In primo luogo i beni culturali costituiscono una risorsa per tutto il nostro popolo, che può svilupparsi a contatto con gli universi del passato e della bellezza, così naturalmente aprendosi al senso della complessiva vicenda umana, al senso critico verso il presente. La cultura di un popolo che utilizza largamente la pagina scritta, il documento, è cultura che si predispone a essere riflessione, consapevolezza scientifica, spirito critico contro le sottoculture che minacciano di diffondersi all'insegna dell'evasione, dell'irrazionale con quanto ne può derivare di smarrimento dell'identità nazionale, sociale, umana. La nostra critica al bilancio dello Stato è fondata anche su un'altra ragione incontestabile da ogni parte. La nostra ricchezza di beni culturali rappresenta infatti la possibilità di acquisire altra ricchezza. Possiamo essere ben più che un polo del turismo internazionale e di un turismo meno frettoloso e culturalmente più qualificato. Possiamo nei diversi settori dei beni culturali porci all'avanguardia; possiamo essere una capitale internazionale della ricerca nell'architettura, nell'archeologia, nella storiografia, nella storia dell'arte, nella biblioteconomia. Il fatto è che tutta la questione della cultura, dai beni culturali alla scuola, alla ricerca scientifica, indica l'esigenza di una nuova concezione della spesa statale e della sua distribuzione; un'altra concezione, non solo della quantità, ma della qualità dell'intervento pubblico. Il bisogno di progettualità e di programma asserito fin dall'inizio dal pensiero socialista, si fa oggi stringente e diventa un bisogno assoluto e un programma per l'Italia deve intendere la centralità della questione culturale come grande questione nazionale. Non si rimane nell'area dello sviluppo senza un balzo in avanti nella ricerca scientifica, senza una più alta tecnologia, senza una più elevata e diffusa cultura. Noi abbiamo proposto misure specifiche in ogni settore della vita e dell'organizzazione della cultura e ci batteremo per esse, ma l'insieme di questo tema ci rimanda inevitabilmente ai problemi dell'orientamento generale della politica del paese".
Enrico Berlinguer

E.Berlinguer, I beni culturali sono una ricchezza che produce ricchezza.
"l'Unità", 8.6.2014

11 giugno 2014

Interviste senza filtro


sgretolamento
[sgre-to-la-mén-to] s.m.
 1 Riduzione in frammenti di un materiale o di un oggetto SIN frantumazione, sbriciolamento
  2 fig. Demolizione di una tesi, di un argomento e sim.


Una combinazione di questi significati è ciò che Antonio Ferrari fa emergere dalle voci senza filtro che ha ascoltato nella sua carriera, raccogliendo con l’inseparabile registratore le più salienti interviste ai leader politici degli anni ’80, nel contesto dei territori dell’Est europeo e Medio Oriente. Sono gli anni della guerra fredda in cui il preludio della fine è vicino, il Muro di Berlino comincia a sgretolarsi e iniziano a intravedersi crepe e spiragli di luce prima del crollo definitivo.
Ferrari, inviato speciale del "Corriere della Sera" dal 1973, propone al lettore una carrellata di 28 interviste che hanno segnato profondamente il suo lavoro di giornalista come ricercatore di verità; un aspetto che diverse volte, lungo la narrazione, non teme di  sottolineare accennando genericamente a comportamenti non troppo felici di colleghi “schierati”.
Le voci senza filtro sono le risposte alle domande, a volte spinose, che Ferrari rivolge ai potenti di questo panorama politico, ottenute talvolta anche per eventi fortuiti, come l’incontro con Helmut Schmidt, o di ripiego, come nel caso dell’intervista al regista cecoslovacco Juro Jakubisko.
Ciò che si sgretola è la facciata di questi uomini e dalle crepe emergono spiragli di umanità celati sotto la corazza che questi protagonisti della politica internazionale si sono dovuti creare per il loro ruolo, forse per difesa, ma che Ferrari è abilissimo a descrivere cogliendo le sfumature di ogni personalità durante i suoi incontri, stupendosi per l’abitudine dell’ex primo ministro e presidente turco Turgut Özal di leggere i fumetti di Tex Willer per alleviare la tensione.
Nonostante l’importanza dei suoi interlocutori, il protagonista è lui, Ferrari, l’inviato speciale chiamato dal direttore del “Corriere” Cavallari a partire immediatamente per Sofia, perché “di lui si fida ciecamente, è sveglio e ha grinta”. Ѐ guidato dall’amore per il suo lavoro e da un’irrefrenabile curiosità che lo porta a spostarsi continuamente dai paesi dell’Est europeo a quelli del Medio Oriente, rendendo partecipi noi lettori della sua attività di corrispondente di guerra, del suo modus operandi, delle sue emozioni e di quelle dei colleghi italiani con cui ha condiviso le trasferte, l’elogio all’amico e collega turco Ugur Mumcu con cui ha sofferto le gioie dei successi e i dolori degli insuccessi, messo a tacere per sempre a causa della scomodità delle sue inchieste.
Ferrari scrive: "Il problema non è la paura. Il problema è quello di non cadere in qualche trappola. Di non avere tutti gli strumenti per prevenirla e soprattutto per evitarla." Ecco che il corrispondente di guerra convive con una quotidiana censura che non dovrebbe più esistere, o almeno così viene fatto intendere, ma che non proprio sottilmente compare interrompendo le telefonate che il giornalista fa da Gerusalemme in Italia per trasmettere ai dimafonisti il pezzo pronto per essere pubblicato; l’inviato sopravvive ai controlli cui vengono sottoposti gli articoli prima di essere trasmessi alla redazione in Italia e ascolta, seppur controvoglia, il consiglio dell’ambasciata irachena a non partire per Bagdad, dopo l’intervista con il vice presidente dell’Iraq Taha Yassin Ramadan.
Le esperienze vissute da chi è sul campo in prima linea appassionano il lettore, permettendogli di comprendere nella comodità della propria casa, ciò che sta dietro la  mera intervista e il semplice scambio di battute, spesso già concordate; lo scopo di chi domanda è quello di voler giungere al cuore della notizia, “non la spicciola verità che tutti sarebbero obbligati a credere”, con l’intento di sgretolare e far comparire quella verità recondita che sta dietro a ciò che ci vogliono far intendere. 
Giulia Mazzucchelli  


Antonio Ferrari 
Sgretolamento. Voci senza filtro
Milano, Jaka Book, 2013 

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10 giugno 2014

Un manuale per capire i media

Il primo pensiero che attraversa la mente di chi legge il manuale di Giuseppe Tipaldo, L’analisi del contenuto e i mass media, è quello di trovarsi di fronte a una lettura complessa e adatta ai ricercatori.
E, in fin dei conti, non sarebbe un errore pensarlo.
La struttura del testo di Tipaldo è suddivisa in due parti ben distinte che sviscerano l’argomento dell’analisi dei media.
Nella prima, si discute in maniera più generale dell’analisi del contenuto nella ricerca sociale mentre nella seconda, che occupa solamente un quinto dell’intero manuale, Tipaldo si occupa di come fare concretamente un analisi del contenuto sui mass media.
La prima parte si presenta divisa in tre capitoli, come la seconda.
Sin dal principio del manuale, si evince l’attenzione che Tipaldo intende dare alla parte teorica e metodologica sul lavoro dei media e sulla ricerca storico-sociale. L’autore cita Topolski, che viene in suo aiuto per risolvere “la disputa intorno al fatto storico”. I fatti si possono intendere in maniera ontologica, ovvero nella loro concretezza e oggettività: indipendentemente dal soggetto che li apprende, essi esistono; oppure possono essere interpretati in maniera epistemologica, ovvero come una costruzione scientifica. Con Topolski, Tipaldo unisce queste due “visioni storiche” in una sola, che riconosce contemporaneamente l’esistenza della realtà storica come oggetto della ricerca e del ruolo conoscitivo dell’intelletto storico.
Il manuale fornisce anche una tassonomia dei documenti naturali che possono essere analizzati per quanto riguarda i media. Essi sono divisi in “documenti artificiali” e “documenti naturali”. Questi ultimi possono essere testi scritti, iconici, orali, audiovisivi o ipertesti e fanno parte dei processi di comunicazione, mentre i manufatti e le tracce sono processi di significazione e non vengono considerati testi dal sociologo, al contrario del semiologo.
Il manuale non può esimersi dallo spiegare che cosa si intenda per “analisi del contenuto”.
L’autore la definisce citando il lavoro della studiosa Amaturo (2013) come “una tecnica controversa” e distingue tra componenti interne al testo, proprietà della fonte di un testo e dato emergente del processo di analisi. Una delle definizioni date dal manuale su “analisi del contenuto”, che mi pare essere la più interessante, è quella della già citata Amaturo: “L’analisi del contenuto è una tecnica per la scomposizione di qualunque tipo di messaggio –generalmente proveniente dai mezzi di comunicazione di massa- in elementi costitutivi più semplici, di cui è possibile calcolare la ricorrenza per ulteriori elaborazioni e dopo procedimenti di classificazione in categorie” (Amaturo, 1993).
In vista di un’analisi del contenuto e dei metodi per fare ricerca nel campo dei mass media, Tipaldo ci ricorda come, citando Goffman in Cardano (2012), “gli interlocutori si preoccupano innanzitutto di salare la faccia, lasciando a noi il compito di leggere tra le righe”.
Questa citazione ci ricorda che gli attori in scena nei media sono sempre (o almeno, quelli più “allenati” a farlo) inclini a parlare “a favore di camera”: ogni loro discussione, intervista o intervento parte da una conoscenza dei meccanismi della media logic. Sta al ricercatore capire che cosa c’è “tra le righe”.
L’autore porta poi il lettore a interrogarsi su cosa possa servire l’analisi del contenuto. “A cosa serve?” è una domanda assolutamente legittima in tutti i campi ma soprattutto nei media studies. Per rispondere, basterebbe sapere che nei dodici anni della scuola primaria e secondaria, 11.000 ore sono passate dagli adolescenti nelle aule scolastiche, a fronte delle 15.000 ore trascorse guardando la TV e delle 10.500 impiegate nell’ascolto della popular music.
Tipaldo, tuttavia, fornisce ancora altre motivazioni: dalla critica delle fonti alla definizione dei profili sociografici degli individui, dall’analisi delle tecnologie a quelle sugli effetti dei media, con attenzione variabile ore all’emittente, ora al canale, ora al destinatario.
La successiva descrizione dell’analisi del contenuto vera e propria, di come essa è teoricamente intesa, fornisce ampio respiro alle possibili ricerche e ce ne svela la complessità.
Chi pensava di aver di fronte a sé un manuale che parla prettamente di studi già svolti, arrivato a questo punto, capirà di aver sbagliato. Oltre metà del testo, infatti, e già dalla prima parte, propone non soltanto i diversi metodi di ricerca, ma entra nello specifico di ciascuno esponendo formule e modus operandi statistici.
Si spazia dall’analisi del contenuto tradizionale (semantica quantitativa) alle analisi delle corrispondenze lessicali, fino all’analisi proposizionale del discorso. In ogni tipologia di analisi vengono spiegati i metodi e le formule utilizzate, ad esempio, per comprendere la dispersione delle parole chiave (ovvero quanto si somigliano parti di diversi testi), oppure nell’analizzare le proposizioni in ogni loro parte (verbi, congiunzioni, complementi) in modo da comprendere le strutture dei discorsi.
In tutto ciò, è la statistica a fare da collante. In tutto il manuale sono presenti le formule necessarie al lavoro sul testo (o sui manufatti, o sulle tracce).
Tipaldo non risparmia un’occhiata al blog di Beppe Grillo quando cita l’analisi automatica dei testi. Tramite i software che compongono matrici ed elaborano dati, è possibile, anche qui con le adeguate formule, esaminare i temi trattati in maniera grafica ma anche, e soprattutto, analizzare le specificità.
Ciò significa comprendere quali sono le parole che, in un testo, variano rispetto “alla routine” di tutti i giorni diventando parole chiave da tenere sotto controllo.
Nella seconda e ultima parte del manuale, Tipaldo ci presenta alcuni casi di analisi realmente effettuate, in modo da rendere più “reale” l’analisi del contenuto sui media.
Ad esempio, viene riportata una ricerca su 144 articoli di principali quotidiani di Torino e Trento sulle faccende legate alla costruzione di un inceneritore, analizzando quanto spesso fosse presente una story prominence o vi fosse invece una modalità retorica-persuasiva, il tutto facendo attenzione al luogo fisico, all’interno del giornale, dove ciò avviene.
Non mancano gli esempi su TV e web, anche se nel caso di quest’ultimo il manuale sottolinea la complicatezza di eventuali analisi.
Vengono proposti diversi algoritmi di ricerca da utilizzare sui dati audiovisivi della televisione, oltre a sottolineare l’importanza del social media Twitter: tramite gli hastags e i trend, infatti, la ricerca e l’analisi sul contenuto diventa più facile per il ricercatore, anche se, al contempo, vengono fatte notare le difficoltà di accesso allo storehose, ovvero all’insieme di tutti i tweet “cinguettati” in passato.
Il manuale si conclude con un’interessante ricerca sulle elezioni italiane del 2013, dove Tipaldo mostra alcuni diagrammi e coefficienti di associazione al lemma “paura”, possibilità di frequenza che a una certa parola ne segua o ne preceda un’altra, la quantità di parole chiave durante le diverse fasce orarie. Termini importanti per una ricerca seria sono, per Tipaldo, sono l’attendibilità, la validità, la stabilità e la riproducibilità dei risultati.
Alla luce di quanto scritto, sicuramente il manuale di Giuseppe Tipaldo non può essere considerato un “manuale soprammobile”. Esso è infatti un libro che vuole essere una guida per eventuali ricerche nel campo dei media, o per aprire una porta verso i media studies e la media education.
Uno scritto che prevede una sua utilizzazione attiva, sul campo, che promette di essere un ottimo apripista per futuri ricercatori.
Matteo Rinaldi



Giuseppe Tipaldo

L’analisi del contenuto e i mass media
Il Mulino, Bologna, 2014

09 giugno 2014

“Anatomia di un istante”: il romanzo che racconta una storia vera





«Una delle opere capitali della letteratura spagnola contemporanea... Cercas ha saputo illuminare un momento cruciale della storia della Spagna... Il lettore sa che la vicenda raccontata è vera, ma grazie all’abilità letteraria di Javier Cercas percepisce la verità come frutto di immaginazione romanzesca.» Queste parole di Alberto Manguel si possono leggere sulla quarta di copertina di Anatomia di un istante e descrivono perfettamente un romanzo che racconta una vicenda realmente accaduta e regala molti spunti di riflessione sulla storia della Spagna e del suo popolo.
Anatomia di un istante è nelle librerie italiane dal 2010 e merita di essere letto per approfondire la storia della Spagna, un Paese che, come il nostro, ha vissuto un periodo di dittatura. Nel libro sono presenti due figure fondamentali per la storia dello stato spagnolo: Juan Carlos, il Re, che ha abdicato il 2 giugno, e, soprattutto, Adolfo Suárez, l’uomo politico che ha guidato la Spagna nella transizione alla democrazia. Suárez è scomparso il 23 marzo e la Spagna lo ha salutato con tre giorni di lutto nazionale.
Javier Cercas con questo libro riporta con la mente il lettore al 23 febbraio 1981, momento cruciale per la Spagna, a causa di un tentativo di colpo di stato. Di fronte agli spari dei militari, i politici si spaventano e cercano di proteggersi, mentre l’allora Presidente del Consiglio Suárez rimane seduto sul suo scranno, passando così alla storia come un “difensore della democrazia”. L’intervento in televisione del Re uscente Juan Carlos, vestito con abiti militari, si rivelerà fondamentale per il fallimento del colpo di stato.
Javier Cercas riflette sul colpo di stato del 1981, sulla figura di Suárez e sulle motivazioni che lo hanno indotto a comportarsi diversamente dagli altri. Leggere questo libro si può rivelare un’esperienza molto interessante perché l’autore scrive quello che pensa. Quando descrive Suárez, Cercas non tralascia le ambiguità legate alla sua figura e quando cita l’importanza del ruolo del Re nello sventare il colpo di stato non manca di attribuirgli anche delle colpe. 
Anatomia di un istante merita di essere letto fino alla fine. Se l’inizio del libro è coinvolgente, la fine è quasi commovente. Inoltre, la bibliografia e le note rappresentano davvero una risorsa a dir poco preziosa per gli interessati ad approfondire ulteriormente l’argomento.
Sara Pastorino


Javier Cercas
 Anatomia di un istante,  
Parma, Ugo Guanda Editore, 2010, 468 pp.

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08 giugno 2014

Soma e il destino della Turchia

In Turchia tutto è iniziato martedì 13 maggio scorso, quando un’esplosione nella miniera di Soma ha messo il Paese di fronte al peggiore disastro minerario della sua storia. Le fonti ufficiali parlano di 301 morti accertate. Al momento dell’incidente si trovavano sottosuolo all’incirca 800 lavoratori, di cui 450 sono stati tratti in salvo nelle immediatezze del fatto.
Il bacino di Soma è la seconda più grande area di estrazione della lignite in Turchia. A causa della sua bassa capacità energetica, la lignite è considerata il rango più basso del carbone. Circa il 90% della produzione proviene dalle miniere di superficie. Il restante 10% è sotterraneo ed è conveniente solo se i costi sono ridotti al minimo - con salari bassi e standard di sicurezza.
Sembra che l'esplosione sia avvenuta quando un trasformatore è esploso. Sarebbe stato un incidente di questo tipo a provocare gli incendi che hanno consumato tutto l'ossigeno nella miniera, oppure potrebbe darsi che la concentrazione di metano, monossido di carbonio e polvere di carbone nella fossa avessero comportato un'esplosione. Secondo gli esperti, comunque, la combinazione di questi avrebbero aumentato ulteriormente la polvere e provocato un’ulteriore esplosione, creando così un effetto a catena. L'unico modo per fermarlo sarebbe stata la presenza di riserve d'acqua sotterranee che avrebbero dovuto inondare i tunnel in caso di esplosione. Ma tali riserve, nella miniera Soma, non c’erano. Così come assenti erano adeguate vie di fuga di emergenza. Questo almeno è quanto riferiscono testimoni oculari.
Le accuse a questo riguardo sono state lanciate subito dopo l’accaduto e sono in gran parte state ignorate dai media filo-governativi. Ma questo ha contribuito a far crescere la rabbia della cittadinanza di Soma, rivolta in primo luogo ai dirigenti della miniera, ai politici e all’AKP. Guidato dal primo ministro Recep Tayyip Erdogan, il partito islamista neoliberista con radici di centro-destra è salito al potere nel 2002 durante una delle più gravi crisi economiche della Turchia. Alla richiesta specifica di riforme da parte del Fondo Monetario Internazionale, il partito ha risposto abbassando i livelli di supporto di assistenza sociale, deregolamentando molti settori, riducendo il potere dei sindacati e introducendo ampie privatizzazioni. Queste politiche spiccatamente neo-liberiste hanno riscontrato un buon successo iniziale ed in effetti il piano di Erdogan è riuscito a riavviare l'economia e creare nuovi posti di lavoro.
Prima del 2005, la miniera Soma era di proprietà dello Stato. Nel 2007 è stata assorbita dalla società privata Soma Holding. In un'intervista del 2012, il CEO di Soam Holding, Alp Gürkan, vantava di aver ridotto i costi di produzione di una tonnellata di carbone da $140 a $23,80, mentre il fatturato risultava più che raddoppiato. Il salario medio mensile per un minatore in Soma è di sole 1.200 TL (€420), nonostante il lavoro sia pericoloso ed estremamente stressante. 
Avvertimenti ignorati
Özel Ozgur, membro del Parlamento per il Partito del Popolo Repubblicano (CHP) dal 2011, ha presentato una mozione nell’ottobre 2013 chiedendo una commissione indipendente per indagare su una serie di incidenti nella miniera Soma. "Il governo non si preoccupa per la vita dei lavoratori!", ha dichiarato il portavoce del gruppo. Tre settimane prima dell’incidente, l'AKP ha votato contro la commissione, con Erdogan che ha dichiarato sprezzante che l'opposizione non deve intasare il sistema con tali banalità. "Il governo ha ignorato i nostri avvertimenti!" dice ancora Özel. Ad alzare la voce anche l'Unione delle Camere degli Ingegneri e Architetti turchi, la quale sostiene che l'industria mineraria è stata consegnata ad individui e aziende "incompetenti, mal equipaggiati e inesperti", con una produzione spinta ai suoi limiti, al fine di aumentare i profitti nel più breve tempo possibile.
Nel frattempo, un rapporto dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) rivela che in Europa, nel 2012, il numero più alto di incidenti sul lavoro si è riscontrato proprio in Turchia (tra due e quattro morti al giorno).
Lo stesso rapporto allude alle promozioni politicamente motivate ​​di persone incompetenti in posizioni chiave e ad un rilassamento dei controlli statali. Fattori che rendono gli incidenti quasi inevitabili. Questo incidente solleva non da ultimo una questione di responsabilità. L'AKP ha sempre preteso di essere il partito dell’ "uomo comune". In realtà non è la prima occasione in cui dimostra di essere il partito del denaro e della corruzione. Basti pensare che Soma è situata nella provincia di Manisa, sede della più grande base di sostegno dell'AKP.
Risposte ciniche
In questa occasione il governo turco ha deciso di avere un approccio alla vicenda addirittura cinico, additando il destino (Kader) come primo responsabile dell’accaduto. "Se si va al mare, ci si potrebbe trovare coinvolti in una tempesta", ha detto il portavoce dell’AKP Hüseyin Çelik. E 'stato uno dei commenti più miti emessi dalle fila del AKP di Erdogan.Nel complesso, il comportamento del partito a ridosso dell’accaduto ricorda a un catalogo di gaffes e insulti. Durante la sua visita a Soma, Erdogan è stato fischiato da una folla inferocita riunita di fronte ad un edificio della banca HSBC ed è stato costretto a trovare riparo con il suo entourage all’interno un supermercato nelle vicinanze. Il Premier avrebbe chiamato uno dei manifestanti un "incursore israeliano". Le azioni sono state catturate da video amatoriali e non e le immagini degli scontri con i manifestanti dimostrano come anche Erdogan stesso sia stato coinvolto.
Da non dimenticare è stata poi una gaffe commessa dal Primo ministro stesso quando, in una conferenza stampa a Soma, ha paragonato quanto avvenuto agli incidenti minerari dell’Inghilterra del XIX secolo, osservando con nonchalance che gli incidenti sono "cioò che accade nelle miniere di carbone". "Fatemi andare indietro nel tempo", ha detto. "In una diapositiva dell’Inghilterra del 1862, si vede chiaramente come 204 persone siano morte; nel 1866, 361 persone sono morte; e in una esplosione, sempre in Inghilterra ,nel 1894, ben 290 sono morti." Non è riuscito in questa situazione a pronunciare una sola parola di rammarico per la morte dei minatori, per le vedove e per i numerosi bambini rimasti orfani, così come per intere comunità che ora si trovano ad affrontare un lutto di massa, come ad esempio Elmadere, villaggio di 120 anime in cui almeno un uomo per ogni famiglia ha trovato impiego in miniera. Una fotografia di un membro dell’esecutivo di Erdogan che prede a calci un manifestante ha fatto poi il giro del mondo, diventando simbolo della prepotenza del regime.
Sullo slancio delle proteste a Soma, cortei si sono riuniti ad Ankara, Istanbul ed Izmir, dove oltre 20.000 persone sono scese in piazza. A Istanbul sono state erette barricate,e i dimostranti hanno dipinto la loro faccia di bianco e marciato attraverso la città con in testa caschi da minatore come segno di solidarietà. Ma il loro messaggio è caduto nel vuoto.
 Il destino della Turchia
"Erdogan ha parlato di 'destino' in risposta a Soma,",dice Ahmet Sik, giornalista e attivista turco. "I parenti dei morti cercano conforto in questa stessa idea. Lo stato h deciso di ricorrere a questo tipo di retorica, di fare appello ai sentimenti religiosi delle vittime per placare i loro animi, ed è una strategia che funziona." Sik prevede che le elezioni presidenziali di Agosto, alle quali Erdogan sta valutando di candidarsi, mostreranno se i cittadini sono pronti a farlo cadere o se l’attuale Primo Ministro è ancora percepito come il "destino" della Turchia. Esiste ovviamente una terza alternativa, con metà del Paese a votare per lui per mancanza di alternative, e l’altra metà a detestarlo e bramare vendetta. Questa polarizzazione della società turca si riflette anche in Germania, quarta circoscrizione di Erdogan. Il leader turco è comparso ad una manifestazione a Colonia alla fine di maggio e decine di migliaia di emigrati dalla Turchia sono scesi in piazza in segno di protesta. Un numero analogo di dimostranti sono scesi a loro volta sulle strade per sostenerlo.
Ciò che è chiaro, in tutto questo, è che Erdogan non potrà più contare su alcun sostegno ad Elmadere, il villaggio alla fine di una strada sterrata di sabbia che si snoda attraverso le montagne, a Soma, Turchia occidentale.

Monica Callegher 

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06 giugno 2014

Uno sguardo al futuro, con la nostalgia del passato

Angelo Agostini, giornalista e studioso dei media scomparso improvvisamente nei mesi scorsi, è stato uno studioso attento dello scenario del giornalismo italiano e direttore della rivista “Problemi dell’informazione”. Nel suo libro Giornalismi. Media e giornalisti in Italia, ha cercato di mettere ordine nel mondo della comunicazione giornalistica in Italia, partendo dagli anni settanta del secolo scorso, fino ad arrivare quasi ai giorni nostri, per vedere se la professione del giornalista ha ancora un senso nell’epoca delle televisioni commerciali e delle tecnologie digitali.
 La prima edizione di questo libro è datata 2004, mentre la seconda è del 2012. L’autore ha voluto rimettere mano alla sua opera, dopo quasi dieci anni, integrandola con un ulteriore capitolo dedicato al nuovo modo di fare giornalismo.
 Nella prima parte del libro, corrispondente ai capitoli I-II-III, Agostini ripercorre la storia del giornalismo italiano dal 1975 al 2000.
L’autore evidenzia che gli anni ottanta sono stati il punto di rottura che ha dato vita all’attuale forma dei media in Italia, perché è proprio in quel periodo che viene emanata la legge sull’editoria, la quale spinge il piede sull’acceleratore per la modernizzazione dei vari processi produttivi, con una conseguente ristrutturazione delle aziende editoriali. A questo, va aggiunta anche la creazione di una solida emittenza privata, la quale va a modificare il campo della comunicazione sia sul piano commerciale che su quello pubblicitario.
 Agostini mette in risalto le due figure chiave di questo processo: Eugenio Scalfari e Silvio Berlusconi. Il primo con la sua Repubblica, che grazie all’impiego e all’utilizzo di nuovi stili, formati e linguaggi, riesce a realizzare un quotidiano nuovo, che si confronta sempre di più con l’opinione del pubblico, elemento cardine di questa testata. Il secondo, invece, ha dato il suo “contributo” sia con il mercato pubblicitario che con le sue televisioni.
 Continuando con la sua analisi, l’autore del libro scrive che, a causa dei rinnovamenti sopracitati, i giornali diventano una vera e propria industria e, allo stesso tempo, che i giornalisti devono riuscire a far convivere pacificamente le linee editoriali proprie delle testate giornalistiche di cui fanno parte con le necessità imprenditoriali.
Lo scopo finale da raggiungere è il profitto, e le imprese editoriali fanno a gara tra di loro per andare alla ricerca di nuovi stili e nuovi prodotti per battere la concorrenza, anche a discapito della qualità del lavoro.
 Il fattore decisivo che ha cambiato in tutto e per tutto il mestiere del giornalista è stata la diffusione sempre più capillare e massiccia di Internet, con la quale si arriva ad una nuova svolta, analizzata in modo significativo nel capitolo IV, quello aggiunto in seguito dallo stesso Agostini.
Che la si veda o sotto l’ottica di un canale o sotto quella di un supporto di contenuti informativi, è innegabile che la rete telematica ha cambiato e rivoluzionato in maniera preponderante il tradizionale lavoro del giornalista. Inoltre, e forse qui sta la sorpresa, grazie a questo nuovo strumento, si viene a scoprire non solo che il giornale cartaceo è compatibile con la sua controparte digitale, ma che i due mezzi di comunicazione sono complementari per la riuscita dell’offerta di un’informazione sempre più tempestiva e approfondita.
 Con l’arrivo delle nuove tecnologie, entrano in scena anche nuove figure, come quella del grafico digitale, che da qualche anno a questa parte, lavora a stretto contatto con il giornalista vero e proprio, la cui identità professionale viene così trasformata e cambiata radicalmente.
 Pur riconoscendo la grandezza e l’utilizzo delle nuove tecnologie, nonché l’impatto che queste hanno sia sul pubblico che sull’informazione in generale, Angelo Agostini lascia trasparire dalle sue parole una sorta di vera e propria nostalgia nei confronti di un giornalismo che al giorno d’oggi è semplicemente perduto, ovvero quello di un giornalismo più semplice e, sostanzialmente, artigianale.
Daniele Scutellà 


Angelo Agostini
Giornalismi. Media e giornalisti in Italia
Bologna, Il Mulino, 2012 (prima edizione 2004), 240 pp.

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05 giugno 2014

Pochi sono i poeti


«Ci sono fatti, pezzi di storia, che esistono solo perché c’è una fotografia che li racconta. […] Queste foto, che hanno plasmato il nostro immaginario collettivo, mi hanno spinto ad andare a cercare i loro autori, per farmi raccontare il momento in cui hanno incontrato la Storia e hanno saputo riconoscerla».


Da cinque anni di interviste a dieci grandi fotografi della scena internazionale nasce A occhi aperti, l’ultimo lavoro di Mario Calabresi, che per anni li ha inseguiti in ogni dove, per farsi raccontare cos’hanno provato un attimo prima e un attimo dopo aver immortalato la Storia. Non è soltanto un libro che parla di fotografia; è, soprattutto, un libro che spiega qual è l’essenza del giornalismo. Perché il lavoro di un giornalista è «andare a vedere, capire e testimoniare», ed è precisamente quello che questi dieci fotografi hanno cercato di fare col loro lavoro.
Come José Koudelka, “l’anonimo praghese”, che testimoniò la sanguinosa repressione della Primavera di Praga, realizzando uno dei più grandi reportage della storia del fotogiornalismo. «Devi capire al volo che è quello il momento in cui hai un appuntamento con la Storia», commenta Elliott Erwitt, che con i suoi scatti ha testimoniato meglio di chiunque altro il cambiamento di un Paese, gli Stati Uniti d’America, dalle tensioni razziali degli anni Cinquanta all’elezione del Presidente Obama alla Casa Bianca.
Perché se “fotografare” significa “scrivere con la luce”, questi fotografi, al pari di tanti giornalisti e scrittori, hanno raccontato storie incredibili con la loro macchina fotografica. Storie di guerra, morte e disperazione, come quelle raccontate negli scatti di Don McCullin in Vietnam e in Libano, o di Paolo Pellegrin in Iraq, ma anche storie di speranza, bellezza e umanità. In ogni caso, storie raccontate “dal di dentro”. «Le belle foto sono in quell’acqua sporca, non puoi stare ai margini, un po’ fuori e un po’ dentro: […] non puoi stare sulla sponda a guardare ma devi diventare parte della storia e abbracciarla fino in fondo», spiega Steve McCurry, che immerso nell’acqua sporca ha realizzato i suoi scatti migliori. Questo è il lavoro del giornalista: immergersi nel mondo e contaminarsi. Perché un giornalista non è un entomologo, provoca Calabresi: non può osservare il mondo dall’alto, come si fa con un formicaio, ma deve vivere in mezzo alle formiche.
E, possibilmente, farsi guidare dall’atteggiamento del cercatore, spinto da una grande curiosità e armato di una buona dose di pazienza. È quello che Alex Webb, il fotografo “del colore”, ha sempre tentato di fare: «Quando fotografo, io provo a capire e mentre scatto le foto comprendo sempre qualcosa in più. […] Le fotografie ci permettono di capire qualcosa visivamente e questo ci spinge a comprendere la stessa cosa intellettualmente». In molti casi, è proprio grazie alle fotografie, grazie al loro impatto visivo e alla loro forza comunicativa, che ancora oggi, a distanza di anni, continuiamo a interrogarci, a commuoverci e a indignarci di fronte agli avvenimenti della storia trascorsa.
È un viaggio nel passato quello che Calabresi regala ai suoi lettori. Sfogliando le pagine del libro, la storia degli ultimi cinquant’anni ci scorre sotto agli occhi come il panorama dal finestrino di un treno. Proprio come il panorama che Paul Fusco immortalò a bordo del Funeral Train, il convoglio di dieci vagoni su cui il feretro di Bob Kennedy partì da New York e attraversò cinque Stati per arrivare alla destinazione finale, Washington. Un milione di persone ad aspettare lungo i binari per tributare il proprio addio al candidato democratico ucciso pochi giorni prima: è il ritratto più emozionante del popolo americano mai realizzato, che ancora oggi commuove chi lo osserva.
Un viaggio come quello intrapreso da Sebastião Salgado, che con il suo progetto In cammino attraversò quaranta Paesi in sette anni, per raccontare il genocidio ruandese e le terribili conseguenze che ebbe sulla popolazione, costretta nella violenza dei campi profughi, eppure mai ritratta come povera e disperata, ma come umanità in fuga, derubata della propria dignità. È sua l’intervista con cui si conclude, affatto casualmente, A occhi aperti. Dopo tanta morte e violenza, Salgado sceglierà di tornare alla vita, con il suo ultimo progetto, Genesi: «Dopo tutto questo, ho pensato che esiste anche il dovere di fare qualcosa di bello, di mostrare a tutti l’incanto della natura». «Appassionato e contaminato del mondo che si è rivelato ai suoi occhi», così lo descrive Calabresi. Nei suoi scatti della Foresta Amazzonica e delle Isole Galapagos che illuminano le ultime pagine del volume si legge tutto l’incanto del mondo, della natura e dell’umanità.
 “Incanto” è forse la parola che meglio riassume questo libro, che è molto di più di una semplice carrellata d’interviste. Forse per l’atmosfera sospesa in cui si è immersi nel tornare indietro di anni lungo la linea del tempo, forse perché le immagini catturano, quasi risucchiano, sicuramente perché la prosa di Calabresi è chiara e precisa, e al tempo stesso delicata, evocativa, un po’ magica. In qualche modo, è un libro pieno di poesia. Lo si percepisce sin dalle prime pagine, ma è a metà del volume che diventa cosa certa, alla fine del dialogo con Elliott Erwitt. In cima alla pagina, uno scatto che ritrae Barack e Michelle Obama fotografati da centinaia di persone con telefoni o piccole macchine fotografiche. Poco sotto, una domanda: hanno ancora senso i fotografi nell’era digitale, in cui la fotografia è ormai alla portata di tutti? E, infine, la sua risposta, precisa, esauriente e chiara: «Tutti possono avere una matita e un pezzo di carta, ma pochi sono i poeti».
Marta Ghio




Mario Calabresi
A occhi aperti
Roma, Contrasto, 2013, 206 pp.

04 giugno 2014

Se i media esplodono

Che internet, nell'ultimo decennio, si sia imposto nel panorama mediatico con una tale irruenza da sconvolgere il settore più tradizionale dell'informazione, quello della carta stampata, non si può negare. Che sia l'unico fattore del declino del giornalismo è fuori discussione. Ignacio Ramonet, giornalista e direttore di "Le Monde Diplomatique", affronta nel suo libro L'esplosione del giornalismo. Dai media di massa alla massa dei media tutti gli aspetti che hanno portato questa professione, espressione della democrazia e a lungo considerata il quarto potere, allo stato di crisi attuale. 
Come spiega l'autore, internet ha moltiplicato le possibilità di accesso all'informazione e ha trasformato l'utente da semplice lettore a creatore di contenuti. Un utente che, da una parte, è bombardato quotidianamente di notizie anche di bassa qualità e infondate, ma che dall'altro può scegliere le proprie fonti, controllarle e crearsi un'opinione propria, anche sul ruolo dei media.
Schiacciate dalla crisi economica globale e dalla concorrenza digitale, con le sue versioni gratuite, i blog e i siti di informazione indipendenti, le testate sono costrette a chiudere le versioni cartacee dei loro quotidiani a favore delle rispettive pagine online, a ricorrere a investimenti massicci da parte degli inserzionisti pubblicitari e a sacrificare le “buone” notizie per quelle più congeniali alla massa (il cosiddetto infotainment, fatto di gossip, scandalo, cronaca nera, ecc.). Già menomato dell'autorevolezza e della credibilità che dovrebbero contraddistinguerlo, il giornalismo si ritrova asservito alla politica, in parte per istinto di sopravvivenza e in parte per la smania di successo e denaro delle superpotenze della comunicazione. Il lettore, continua Ramonet, di fronte a un'informazione inquinata, censurata e pilotata dalle élite economiche e politiche, perde la fiducia nella carta stampata e, di conseguenza, smette di consumare le notizie nelle loro forme più tradizionali, a favore di modelli nuovi.

In questo scenario catastrofico l'autore trova, però, anche esempi di un modo sano di fare giornalismo, che sfida le logiche di mercato e le grandi potenze per offrire agli utenti la verità, come l'esperienza non profit del Voice of San Diego, la svolta del quotidiano cartaceo Die Zeit o il caso discusso e controverso di Wikileaks, e propone come possibile via d'uscita la produzione di informazione iperspecializzata, settoriale, di qualità.
L'esplosione del giornalismo apre gli occhi sulla condizione attuale del giornalismo. Grazie all'approfondimento di ogni singolo caso di cattiva o buona informazione citato è una lettura che offre uno spunto critico sia agli addetti al settore sia a chi vuole capire le logiche che governano il mondo dell'informazione contemporaneo
Eleonora Mazzoleni


Ignacio Ramonet
L'esplosione del giornalismo. Dai media di massa alla massa dei media 
 Napoli, edizioni IntraMoenia, 2012, 155 pp.

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