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31 luglio 2008
Pechino, i Giochi "censurati". Le promesse mancate dei cinesi
A otto giorni dalla partenza ufficiale dei XXIX Giochi Olimpici di Pechino, Repubblica.it inaugura il suo speciale con una riflessione di Federico Rampini sulla censura del regime cinese.
Articolo simile, firmato da Marco Mesurati, compare anche sull'edizione cartacea di oggi a pagina 49. L'argomento suscita comunque l'interesse di tutte le testate più importanti, sia nella loro versione tradizionale che in quella online.
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A pochi giorni dal via, è diventato evidente l'intreccio di limitazioni alle libertà e di pesanti paletti all'informazione.
Cade così la speranza che le Olimpiadi potessero portare novità positive.
Le vicende tibetane e le proteste sulla fiaccola hanno provocato arroccamento.
Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
PECHINO - Il primo dicembre 2006, Pechino annunciava che di lì a poco sarebbero scomparse le ultime restrizioni sulla libertà di circolazione per noi giornalisti stranieri sul territorio della Repubblica Popolare. Il giorno dopo, nel descrivere quel provvedimento, scrivevo su Repubblica: "I Giochi del 2008 semineranno qualche germe di cambiamento in questa Cina". Quella previsione, ahimé, si è avverata nella direzione diametralmente opposta. I reporter stranieri che arrivano in questi giorni, e che si aggiungono a noi corrispondenti permanenti per coprire le Olimpiadi, trovano una Cina per molti aspetti peggiorata dal 2006.
Quello che colpisce subito i nuovi arrivati, naturalmente, è l'insopportabile groviglio di restrizioni alla nostra libertà. Non possiamo andare in Tibet. Non possiamo usare una webcam su Piazza Tienanmen, né in alcuno degli stadi olimpici. Non possiamo accedere a diversi siti Internet oscurati dalla censura. Dietro questi limiti che ci colpiscono direttamente, c'è una situazione ben più drammatica per i cinesi. Rispetto alla tradizionale mancanza di libertà di informazione c'è stato un ulteriore arretramento.
Proprio in vista dei Giochi il governo ha "ripulito" la capitale dei potenziali disturbatori dell'ordine: dagli immigrati che appartengono alle minoranze etniche tibetana e uigura, ai dissidenti, agli avvocati che difendono cause umanitarie. Alcuni di questi attivisti oggi sono agli arresti domiciliari per impedire che entrino in contatto con gli stranieri.
Che cos'è accaduto dunque perché le speranze accese nel dicembre 2006 si vanificassero così brutalmente? Gran parte della spiegazione sta negli avvenimenti tragici di questa primavera, che hanno colto la leadership cinese impreparata, e hanno provocato una reazione furibonda. La rivolta del Tibet a metà marzo, seguita dalle contestazioni contro la fiaccola olimpica a Londra, Parigi e San Francisco, hanno provocato un arroccamento. Il regime di Pechino ha vissuto improvvisamente un incubo: il rischio che questi Giochi con l'accresciuta visibilità che comportano, diventino un'occasione per un "processo virtuale" alla Cina, ai suoi abusi contro i diritti umani, ai suoi gravi ritardi sul terreno delle libertà individuali.
La reazione della nomenklatura ha fatto appello al riflesso condizionato del vittimismo nazionalista: il popolo cinese è stato chiamato a serrare i ranghi contro "l'offensiva" degli stranieri. In questo clima di unità nazionale, invocato per difendere l'immagine della Repubblica Popolare, gli spazi di tolleranza che si erano aperti negli ultimi anni si sono nuovamente ristretti.
Ogni voce critica è catalogata come un "sabotatore" dei Giochi, un nemico della patria. La censura è tornata ad avere carta bianca. Anche le maggiori libertà che erano state promesse a noi giornalisti stranieri sono state revocate, per effetto di questo clima.
Ma le vere vittime non siamo noi: sono le tante voci di dissenso che negli ultimi anni avevano trovato nuovamente il coraggio di farsi sentire in Cina, e ora tacciono in attesa di tempi migliori. In attesa che passi la "nottata" dei Giochi, un avvenimento che paradossalmente ha fatto fare ai leader cinesi un grande balzo all'indietro.
Simone D'Ambrosio
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29 luglio 2008
Informazione di consumo
Mimmo Càndito
Giornalismo a colpi di abbagli
"La Stampa", 29 luglio 2008
La tempesta che in questi giorni si sta scatenando sui media italiani è certamente il riflesso di una specificità tutta nostra, ma è anche il riflesso d’una crisi che rischia di travolgere il giornalismo stesso. Quanto meno il giornalismo come l’abbiamo vissuto nella sua ipotetica identità virtuosa, di strumento cognitivo essenziale per una credibile rappresentazione del mondo (ma abbiamo davvero pensato mai che il 90 per cento di quanto noi chiamiamo oggi «conoscenza», cioè di quanto ci fa discutere, riflettere, decidere, passa attraverso la produzione dei mass media?). Oggi quell’identità virtuosa si mostra in panni laceri, stracciata dalla ricerca dello scoop, travolta soprattutto da una deriva che appare inarrestabile: la mutazione genetica provocata da due elementi correlati, la rapidissima accelerazione delle tecnologie elettroniche e l’egemonia del modello comunicativo della televisione. L’integrazione di questi due fattori ha prodotto una velocizzazione della comunicazione che a null’altro è interessata se non alla comunicazione stessa, da farsi e consumarsi «in tempo reale». Il pervasivo dominio della tv - la realtà qui e ora - crea una comunicazione sempre più indifferente alla natura reale dell’informazione offerta al consumo; la qualità del «messaggio» - cioè l’identità delle cose comunicate, che siano vere o solo verosimili - ai mass media rischia d’interessare sempre meno, travolti come sono dalla velocità con cui si connota il consumo del vissuto quotidiano, ma anche piegati da quell’«estetica dell’apparenza», il marchio della comunicazione tv. Ci eravamo abituati a pensare che altrove questa crisi venisse comunque vissuta meglio, e che lo sfascio fosse soprattutto roba di casa nostra, per l’accidia del sistema italiano dei mass media e per le sue tare genetiche (la mancanza di editori «puri», l’eccesso d’intrusione della politica, il dominio culturale della tv commerciale, la ridotta scolarizzazione del Paese nello standard europeo). Un’interessante corrispondenza di Maurizio Molinari da New York ci porta a pensare che il problema dev’essere affrontato con una consapevolezza più articolata: racconta Molinari come l’Associated Press - la più influente agenzia giornalistica del mondo - stia mutando il proprio stile informativo, segnato fino a oggi da quella «ipotetica identità virtuosa» (il rispetto dei fatti per com’essi sono), e si sposti invece verso qualcosa che approssimativamente si chiama «giornalismo europeo», dove la brillantezza della narrazione, la forzatura consapevole dei fatti, la piacevolezza del chiacchiericcio, prendono la preminenza sulla rappresentazione asciutta, fattuale, della realtà. Dice David Bailey, direttore d’un quotidiano americano: «Una nuova filosofia dove gli abbagli contano più della sostanza».Se può consolarci che questo giornalismo non è soltanto miserevole deriva italiana ma viene definito dai più autorevoli media americani come «giornalismo europeo», resta che serve ben più che una lamentazione per la crisi che ci travolge. Antonio Scurati suggerisce che dobbiamo intanto abituarci a convivere con una terza categoria della conoscenza, accanto a quelle finora usuali della «verità» e della «menzogna»; è la categoria della «non-verità», una struttura cognitiva che non è la menzogna ma, piuttosto, una dimensione nella quale i confini della certezza si fanno labili, approssimativi, accettati nella loro ambiguità. Più che un teorema per il futuro, questa appare già un’evidenza del nostro tempo; e si capisce bene, allora, quanto oggi l’uso e il maluso dei mass media possano decidere del nostro pensiero, e della nostra stessa (presunta) volontà.
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"Villaggio blog"
Villaggio blog /Le nuove forme del dialogo /Una camera con vista sul mondo
È molto più che un sistema di comunicazione Rivela nuovi spazi collettivi in una società che li ha ridotti Un po´ circolo, un po´ palcoscenico, un po´ piazza, un po´ sezione di partito. Non dà vita a una comunità senza luogo. È l´idea di luogo che ne esce trasformata«Dovessi spiegarti che cos´è il mio blog ti direi che è un luogo, riscaldato d´inverno ed areato d´estate, con un indirizzo e una buca delle lettere, finestre per guardarci dentro se passi nei pressi ed una porta aperta per entrare se ti andrà. L´insieme dei blog che leggiamo e di quelli che ci leggono è un villaggio particolarmente salubre fatto di abitanti che si siano scelti fra loro e non paracadutati lì dal caso». Parola di blogger.È evidente che il blog è molto più di un sistema di comunicazione. È un angolo di mondo, avrebbe detto Herder. O una forma di vita, per dirla con Wittgenstein. In entrambi i casi uno spazio di condivisione simbolica caratterizzato dai suoi usi, costumi, sensibilità, abitudini, codici sedimentati - ma prima ancora creati - e da un linguaggio comune. I blog sono a tutti gli effetti le nuove forme di vita prodotte dalla rete, degli autentici angoli di mondo virtuale.Certo che il blog è un luogo di confronto e di scambio di idee, informazioni, pareri, servizi, ma è anche di più, molto di più. Questa forma di diario in rete - il termine è la contrazione di web e di log che significa appunto diario ma anche traccia - sta dando vita a una nuova cartografia sociale. Fatta di punti di aggregazione fondati sulla circolazione delle opinioni. Qualcuno li considera un po´ come la versione immateriale dello Speaker´s Corner, letteralmente angolo dell´oratore, di Hyde Park a Londra, dove chiunque può montare su una cassetta di legno a mo´ di palco e predicare sul mondo in assoluta libertà. Occupando un angolo di spazio pubblico per dire la sua. Quella minuscola cassetta garantisce una sorta di extraterritorialità che consente a ciascuno di dire fino in fondo tutto ciò che pensa. A ben vedere il blog è proprio una occupazione di immaginario pubblico, una sorta di tribuna virtuale. E contribuisce a rivelare la forma dei nuovi spazi collettivi di una società che ha profondamente mutato le sue categorie spaziali e sta passando dalle divisioni alle condivisioni, dai luoghi tradizionali - territori fisici delimitati, confinati, sul modello delle nazioni - agli iperluoghi immateriali che ridisegnano le mappe del presente.Nuovo luogo della condivisione pubblica in un tempo caratterizzato dalla scomparsa progressiva dello spazio pubblico tradizionale: un po´ circolo, un po´ palcoscenico, un po´ salotto, un po´ sezione di partito, un po´ piazza, un po´ caffè. I diari in rete rappresentano modi diversi di sentirsi comunità. Non più comunità locali, e localistiche, basate sulla prossimità geografica, residenziale, cittadina, ma su forme inedite di appartenenza.Ecco perché il blog non è solo uno strumento del comunicare, ma è una potente metafora del nostro presente in rapida trasformazione e un simbolo anticipatore del nostro futuro. A farne un mito d´oggi è proprio la sua capacità di dirci qualcosa di profondo su noi stessi, di mostrarci con estrema lungimiranza ciò che stiamo per diventare anche se ancora non lo sappiamo con precisione. Nei grandi cambiamenti epocali il mito, la metafora, il simbolo si assumono proprio il compito di lanciare dei ponti verso quelle sponde del reale che ancora non vediamo ma, appunto, intravediamo. Anche se abbiamo già cominciato a viverci dentro istintivamente. In questo senso i comportamenti del popolo dei blog ci aiutano a cogliere quanto stiano di fatto mutando le stesse categorie di identità e di appartenenza: sempre meno materiali, sostanziali, fisse e sempre più fluttuanti, mobili, convenzionali. E come sia cambiata la stessa nozione di luogo di cui viene oggi revocato in questione il fondamento primo, ovvero l´idea di confine naturale, in favore di quella di confine digitale. Il blog anticipa una realtà che non è più quella del paese, della città, del quartiere, della classe d´età, della famiglia, della parrocchia, del circolo. I bloggers si rappresentano come una comunità di persone che si scelgono liberamente e su scala planetaria. E in questa dimensione extraterritoriale intessono un nuovo legame sociale.Comunità senza luogo? Niente affatto. È la vecchia nozione di luogo ad essere inadeguata. E assieme a lei quella apparentemente nuova di non-luogo che della prima non è che la figlia degenere. Perché è fondata su una idea pesante, solida, ottocentesca del luogo e della persona. Un´idea che ha l´immobile solidità del ferro e non la mutevole fluidità dei cristalli liquidi. In realtà a costituire il tessuto spaziale, ieri come oggi, sono sempre le relazioni, mai semplicemente le persone fisiche. E oggi le relazioni sono sempre meno incarnate, sempre meno materializzate, ma non per questo scompaiono.La liquidità della rete è la vera materia sottile della trama sociale contemporanea, e perfino di quella spaziale se è vero che oggi l´iperconnessione è il principio vitale che circola come sangue nel corpo del villaggio globale. I cosiddetti non-luoghi sono in realtà più-che-luoghi, super-luoghi, sono luoghi all´ennesima potenza, acceleratori di contatti, incroci ad alta densità, moltiplicatori di collegamenti tra bande larghe di umanità. È questa la cartografia wi-fi della nuova territorialità, la cosmografia del presente di cui Internet è il dio e Google è il primo motore immobile. Una rivoluzione recente ma che sta già cambiando il vocabolario dell´essere: dal to be al to google e, sopratutto, al to blog.Non a caso bloggare è diventato un verbo. Il terzo ausiliare per chi è in cerca di casa, di lavoro, di visibilità, di posizione insomma. È la terra promessa degli homeless digitali, la nuova frontiera dei migranti interinali in cerca di hot spots, di porte wireless, di ambienti interconnessi. Un nuovo paesaggio fatto di camere con vista sul web. Proprio così una blogger definisce il suo miniappartamento virtuale. O un villaggio di villette monofamiliari dove si lascia sempre aperta la porta di casa perché chi ne ha voglia possa entrare a prendere un caffè. Altro che fine del legame sociale. La blogosfera è la traduzione della mitologia comunitaria nella lingua del web, la declinazione immateriale della società faccia a faccia: la nostalgia del paese a misura d´uomo in un download.Frequentare i blog serve, fra l´altro, a smontare molti dei luoghi comuni sugli effetti nefasti della digitalizzazione della realtà e sull´apocalisse culturale che essa comporterebbe. Fine della lettura, tramonto dell´italiano, declino dello spirito collettivo. In realtà questo sguardo luttuoso sul cambiamento lamenta sempre la scomparsa delle vecchie forme e proprio per questo fa fatica a riconoscere l´intelligenza del presente.A parte quelli specializzati, espressamente attrezzati a luoghi di cultura, palestre di discussione critica, gabinetti di lettura, atelier di scrittura, i blog sono in generale delle officine stilistiche e retoriche in continua attività, dove la capacità di persuasione e l´estetizzazione della comunicazione hanno spesso un ruolo fondamentale. «Qui sul blog è tutta un´altra cosa. Scrivo in modo molto diverso da come scriverei su un diario. Le persone che mi conoscono commentano e dicono la loro, e i pensieri pubblicati sono molto più profondi». Per quanto diversi fra loro, i blogger nascono dal linguaggio e vivono di linguaggio. Un regime democratico, dove ciascuno è opinionista nel libero mercato delle opinioni, senza gerarchie di posizione, senza ruoli, senza il peso dell´autorità. Dove ognuno è quel che scrive, dove tutti hanno pari facoltà d´interlocuzione. È la nuova utopia della libertà e dell´eguaglianza. Compensazione simbolica al malessere attuale della democrazia in carne e ossa.
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Scenari del giornalismo italiano: "L'Unità"
«L'Unità cambia e nessuno ci informa»
«Sinceramente non capisco perché l'Unità di Antonio Padellaro sia considerato un giornale che non va bene al punto da richiedere un cambio di direzione. A me nessuno, né dentro né fuori il Pd, ha mai detto cose del tipo "Dovremmo modificare un po' il quotidiano", oppure "Andiamo a prendere un caffè e affrontiamo il tema del rinnovamento dell'Unità ". Niente: a nessuno è venuto in mente di avvisarci dei cambiamenti in vista. Eppure penso che anche a Padellaro avrebbe fatto piacere una discussione del genere...».Parlando con il Riformista , Furio Colombo affronta per la prima volta il tema dell'imminente cambio della guardia alla guida dell'Unità. Antonio Padellaro lascia, Concita De Gregorio arriva.L'ex direttore del quotidiano fondato da Gramsci, prima di esprimersi, fa una sola premessa: «Dirò quello che penso senza problemi. Spero soltanto che quest'intervista non esca con un titolo tipo "Colombo: adesso basta, me ne vado"...».
Andiamo con ordine. Colombo, secondo lei all' Unità serviva un cambio di direzione?
«Non confondiamo i ruoli. La risposta a questa domanda spetta al nuovo azionista di maggioranza, non a me».
Cambiamo domanda allora. Lei è contento dei cambiamenti in vista all' Unità?
«Chi lavora con così tanta passione a un quotidiano ha l'impressione che quel giornale sia buono. Parlo di me ma penso anche a Marco Travaglio, Moni Ovadia, Maurizio Chierici, Rosetta Loy... Per carità, nei giornali c'è sempre qualcosa da cambiare. Ma questo non vuol dire che dobbiamo buttare via tutto quello che c'è. Altrimenti l'avremmo già fatto noi, non crede?»
La sua sembra una difesa a spada tratta di Padellaro.
«Anni fa, quando i rapporti con la precedente proprietà erano molto tesi, la mia battaglia non era finalizzata a difendere me stesso ma a garantire Padellaro come mio successore. La nostra stima nei confronti di Antonio è immutata».
Forse dopo qualche anno serviva un ricambio, non trova?
«Riceviamo un sacco di e-mail di gradimento e le vendite vanno molto bene».
Resta il fatto che si cambierà.
«Io non voglio parlare di questo. Sarebbe come stare al capezzale di qualcuno che non è ancora morto».
Come si spiega però le proteste della redazione dopo l'intervista di Concita De Gregorio a Prima comunicazione ?
«Erano un atto dovuto. Comunque io credo che la De Gregorio sia stata usata. Non credo fosse sua intenzione dire quelle cose del giornale. È una brava giornalista, caduta nella trappola di chi voleva parlare male dell'Unità . Prima comunicazione è un giornale di pubblicitari. E i pubblicitari rappresentano le grandi braccia di Berlusconi e del berlusconismo. Non a caso sono anni che quel giornale attacca gratuitamente l'Unità ».
Sembra indignato, Colombo. O sbaglio?
«Più che indignato resto a bocca aperta quando sento e leggo che alcuni ex direttori dell'Unità danno dei giudizi tremendi su Padellaro e sul sottoscritto. Ma di che cosa parlano? Alcuni di loro obbedivano ciecamente al partito mentre a noi è toccato far resuscitare un giornale morto. Lo sa che cos'era l'Unità quando siamo arrivati? Stanze deserte e piene di cartacce. Noi l'abbiamo fatto rinascere, quel giornale, con pazienza e umiltà».
Si riferisce alle opinioni di molti ex direttori (raccolte dal Corsera ) sulle critiche che Padellaro ha rivolto al Quirinale?
«Mi stupisce che tutti si siano messi in corsa per dare torto a Padellaro. C'è Reichlin, che comunque scrive ancora per l'Unità ... Non credo poi che Petruccioli volesse essere severo con noi, d'altronde non lo è nemmeno con l'azienda che guida. E poi Caldarola, che è stato poco affettuoso. Poco male, quando noi difendiamo i diritti civili lo facciamo anche perché Caldarola possa dire la sua come meglio crede».
Arriviamo al dunque: lei rimarrà all' Unità anche dopo il cambio della direzione?
«Ancora non è avvenuto nulla per cui non ho alcuna ragione di fare annunci. Io per ora mi trovo bene con Travaglio, Ovadia, Chierici, Loy e molti altri ancora... Attraverserò quel ponte quando ci saremo arrivati. Non mi pare giusto dare giudizi sull'Unità "di Concita De Gregorio" visto che non so come sarà. Comunque sia, l'ho letta e apprezzata per i suoi articoli su Repubblica . Mi sembra un'ottima giornalista. Non la conoscevo di persona finché non l'ho vista alla presentazione di un libro, tempo fa...».
Ma lei come ha saputo dell'ipotesi di cambiare direttore al quotidiano?
«Tempo fa Veltroni ha detto al Corriere della sera che sarebbe stata una buona idea avere un direttore donna. Giustissimo, in teoria. Ma quando Berlusconi ha ripetuto che "in teoria" il dottor Letta sarebbe stato un ottimo presidente della Repubblica, noi abbiamo risposto che un capo dello Stato c'era già, Giorgio Napolitano. La stessa cosa vale, anche se in piccolo, anche per l'Unità . Che un direttore ce l'aveva già, Antonio Padellaro».
Che vuol dire, onorevole? Nessuno l'aveva avvertita in anticipo dei grandi cambiamenti?
«Spesso, purtroppo, il Pd ha una curiosa vocazione verticale. Quello che succede all'ultimo piano non viene fatto sapere a chi sta al piano terra. Ripeto: a me nessuno, né dentro né fuori il Pd, aveva mai detto cose del tipo "Dovremmo modificare un po' il quotidiano", oppure "Andiamo a prendere un caffè e affrontiamo il tema del rinnovamento dell'Unità ". Niente. Poi ho scoperto che c'era addirittura da cambiare il direttore. Quando i vecchi Ds erano irritati nei confronti del giornale che dirigevo, pensavo che ci fosse qualcosa in loro che io, che non sono mai stato dei Ds, non capivo. Il Pd però lo conosco. Eppure...».
Scusi, non potrebbe essere stata una scelta autonoma del nuovo editore?
«Prendiamo per buona questa sua ipotesi. Ma anche qui c'è un problema. Io so che Soru è un imprenditore di successo ed è il governatore della Sardegna. Immagino che, quando prende le sue decisioni, si confronti con i suoi collaboratori. Altrimenti non avrebbe avuto tanto successo, no? Eppure questa volta non l'ha fatto. Per lo meno, io non ne sapevo niente».
In ogni caso cambiare direttore è una scelta legittima di ogni editore, non trova?
«Certo che lo è. Solo che sarebbe stato bello parlarne tutti insieme. Credo che anche Padellaro avrebbe trovato divertente un dibattito del genere. Ecco perché in tutta questa storia ci metto un elemento di nostalgia. La nostalgia di cui parlava Monica Vitti nell'Eclissi : la speranza di qualcosa che non è accaduto».
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*segnalato da C.P.
26 luglio 2008
Obama a Berlino
Lucia Sgueglia
Barack-Mania. I media tedeschi tra scetticismo e fascinazione
"Manifesto", 25 luglio 2008
Barack-Mania. I media tedeschi tra scetticismo e fascinazione
"Manifesto", 25 luglio 2008
«Non facciamoci illusioni»: il discorso di Obama alla Siegessäule è stata una vetrina elettorale, diretta soprattutto al pubblico americano. Su questo tutti i tedeschi concordano da giorni. Non solo: le location simbolo della storia di Berlino e il passato tedesco sono stati abilmente sfruttate dal candidato alla presidenza Usa a fini pubblicitari. Tanto che alla vigilia la berlinese Tageszeitung faceva ironia proponendo un elenco di siti alternativi che Barack avrebbe potuto scegliere come palcoscenico: tra cui, omaggio al multiculti, un imbiss (chiosco) di kebab o la periferia ex comunista dell'est dove ancora arranca la 'vecchia' classe operaia. Non mancano le critiche, anche aspre, alla visita del senatore dell'Illinois a Berlino. Ma certo è che da una settimana è Obamamania in Germania, non solo tra i fan entusiasti del runner democratico, ma soprattutto sui media. Colonizzate dall'evento prime, seconde e terze pagine. I commentatori fanno a gara per rintracciare le ragioni profonde dell'entusiasmo, in un paese oggi tanto allergico alla propaganda e al «culto della personalità». A criticarne i riti è per prima la Frankfurter Allgemeine. Che però ha lanciato sul suo sito un live reportage sulla visita, dove ieri mattina si leggeva: «è sbarcato, porta gli occhiali da sole». Mentre il settimanale Spiegel gli ha dedicato la copertina: «La Germania incontra la Superstar». «Due colori, nero» azzardava invece dalla Sueddeutsche L. Goldman facendo appello addirittura al mito della razza: «Obama dà un nuovo significato al colore nero per i tedeschi. In un mondo che non è più omogeneo, viene a portare il suo messaggio di universalismo in un paese che è etnicamente è ancora molto omogeneo». Contro il razzismo: «Obama ha globalizzato il colore della sua pelle. È un fenotipo-esperanto». «Speranza nel portatore di speranza» ha cantato la Zeit. Le aspettative dei politici tedeschi sono alte: Difesa dell'ambiente, pace, valori comuni - è di questo che si tratta.Sopravvalutato? Secondo un sondaggio pubblicato di recente dalla Bild, il 72 cento dei tedeschi voterebbe per Obama. Ma gran parte del suo successo, ricordano molti, è dovuta all'impopolarità, anzi all'odio per George W. Bush: la maggior parte dei tedeschi non vedono l'ora che se ne vada. Peggio di lui, per loro, c'è solo il concorrente repubblicano Mc Cain - vistosamente ignorato dai media tedeschi.«Pro e contro: perché andare a sentire Obama che parla - o anche no» - propone ancora la Taz. Si rischia di finire, non volenti, nei poster e negli spot tv della campagna presidenziale che circoleranno nei prossimi mesi negli Usa. Ma in ballo c'è il dialogo Usa-Europa: se una folla giubilante si assembla alla Colonna, dimostrerà anche che l'obiezione alla guerra in Iraq non è antiamericanismo. Attenti però al messianismo: «Barack Obama non è Gesù. Nè un Salvatore». Ancora la conservativa Sueddeutsche riportava ieri un commento di Kurt Kister, dove si spiegano invece le ragioni dello scetticismo anti-Obama in Germania: «Noi tedeschi siamo così: ciò che può Michael Ballack, non può il prossimo presidente degli States. Perlomeno, ne è convinta la Cancelliera. Se un candidato tedesco a qualche elezione avesse osato un discorso al Lincoln Memorial, tutti qui gli avrebbero riso dietro». Oggi l'America, prosegue Kister, è «l'amico piu odiato» della Germania. Tuttavia, «a nessuno è indifferente. La nostra società è totalmente americanizzata». Il candidato Obam, dice il columnist, per ogni tedesco è una proiezione in cui può ritrovare la propria nostalgia del Buon Americano: il ricordo che esiste «un'altra America». Kennedyana: l'aggettivo ricorre come un mantra sui fogli tedeschi. L'ultima parola alla Zeit on line. In passato i presidenti Usa, vi si legge, venivano a Berlino perché rappresentava il centro del conflitto Est-Ovest. Oggi, è il paese che aiuta a risolverli. Sempre che non si parli di Iraq o Afghanistan.
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*segnalato da A.R.
In libreria
Enrico Morresi
L'onore della cronaca. Diritto all'informazione e rispetto delle persone,
Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2008___
*Dello stesso autore:
- L’etica della notizia. Fondazione e critica della morale giornalistica, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2003. Link alla scheda del libro
- Etica del giornalismo economico. Fenomenologia di un oggetto sconosciuto, in "Problemi dell'informazione", 2004, 3, pp. pp. 301-320.
- La crisi di "Le Monde" in "Problemi dell'informazione", 2004, 4, pp. 523-538.
L'onore della cronaca. Diritto all'informazione e rispetto delle persone,
Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2008___
*Dello stesso autore:
- L’etica della notizia. Fondazione e critica della morale giornalistica, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2003. Link alla scheda del libro
- Etica del giornalismo economico. Fenomenologia di un oggetto sconosciuto, in "Problemi dell'informazione", 2004, 3, pp. pp. 301-320.
- La crisi di "Le Monde" in "Problemi dell'informazione", 2004, 4, pp. 523-538.
25 luglio 2008
Come cambiano i giornali
Giorgio Bocca firma la rubrica "L'Antitaliano" per il settimanale "l'Espresso". Il commento di questa settimanana è dedicato agli scenari del giornalismo italiano.
Perché siano leggibili occorre un linguaggio corretto, scolastico, che è quasi scomparso, sommerso dai gerghi, dalle abbreviazioni, dalle allusioni, dalle mode inzeppate di parole straniere
"L'Espresso", 31 luglio 2008.
Perché siano leggibili occorre un linguaggio corretto, scolastico, che è quasi scomparso, sommerso dai gerghi, dalle abbreviazioni, dalle allusioni, dalle mode inzeppate di parole straniere
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Mi scrivono dei giovani che vogliono fare il giornalista, mi chiedono consigli. Se fossi sincero gli direi: ringrazio il cielo di aver chiuso la professione prima che fosse morta suicida. Per fare, non dico un giornale eccellente, un giornale da classe dirigente, ma un giornale leggibile, occorre la materia prima indispensabile, un linguaggio corretto, scolarizzato, del tipo appunto imparato sui banchi di scuola adatto a un lettore di media cultura - sopra il livello di povertà, se no che gli serve leggerlo? - cui il giornale serve come informazione su quel che accade al mondo e per dare aria nuova al cervello. Questo linguaggio scolastico è quasi scomparso, seppellito dai gerghi, dalle sigle, dalle abbreviazioni, dalle allusioni, dalle mutazioni continue degli argomenti, delle mode inventate giorno per giorno, inzeppate di parole straniere, specialistiche, professionali, da segnali grafici che messi assieme, più che a un nuovo linguaggio, assomigliano a un sistema confuso d'indicazioni stradali, in una metropoli in cui non sai bene come muoverti, dove andare.
Mi scrivono dei giovani che vogliono fare il giornalista, mi chiedono consigli. Se fossi sincero gli direi: ringrazio il cielo di aver chiuso la professione prima che fosse morta suicida. Per fare, non dico un giornale eccellente, un giornale da classe dirigente, ma un giornale leggibile, occorre la materia prima indispensabile, un linguaggio corretto, scolarizzato, del tipo appunto imparato sui banchi di scuola adatto a un lettore di media cultura - sopra il livello di povertà, se no che gli serve leggerlo? - cui il giornale serve come informazione su quel che accade al mondo e per dare aria nuova al cervello. Questo linguaggio scolastico è quasi scomparso, seppellito dai gerghi, dalle sigle, dalle abbreviazioni, dalle allusioni, dalle mutazioni continue degli argomenti, delle mode inventate giorno per giorno, inzeppate di parole straniere, specialistiche, professionali, da segnali grafici che messi assieme, più che a un nuovo linguaggio, assomigliano a un sistema confuso d'indicazioni stradali, in una metropoli in cui non sai bene come muoverti, dove andare.
I vecchi lettori del secolo borghese forse esageravano con i loro giornali di classe scritti solo per gli elettori che il censo autorizzava al voto. Ma in casa mia e dei miei amici c'erano degli abbonati ai grandi giornali, alla 'Stampa', alla 'Gazzetta del Popolo', al 'Corriere della Sera' che li compravano ogni giorno, ma che, non facendo in tempo a leggerli, li conservavano a pile nel salotto e con calma, pian piano, li recuperavano per così dire senza sprecare un titolo, un corsivo. In quei giornali c'era la cultura media comune della borghesia al potere e del socialismo nascente. Non c'era politico conservatore o rivoluzionario che non pensasse subito a un giornale come strumento indispensabile per la politica come per l'economia.
Gramsci e Mussolini erano inconcepibili senza l'Ordine Nuovo o il Popolo d'Italia, gli imprenditori senza i magni organi 'indipendenti', cioè alle loro dipendenze, il Fascismo senza la stampa di regime. Che cosa è cambiato profondamente nella stampa? È cambiato l'editore che non è più un politico o un imprenditore, ma il mercato, e precisamente quel suo braccio armato che è la pubblicità, la creatrice irresistibile di desideri e di consumi, la potentissima locomotiva che trascina il genere umano verso nuovi sprechi e forse nuove guerre. L'informazione adatta alla pubblicità deve sempre essere un pugno allo stomaco, deve stupire, impressionare, lasciare il segno sul lettore. Per questo oscilla fra catastrofismo e ottimismo, fra paure immaginarie e promesse esagerate. In questa eccitazione continua si passa da un eccesso all'altro. Negli anni della mia gioventù tutti i giornali descrivevano i pregi dell'amianto e ora tutti lo accusano di essere cancerogeno. Le statistiche dicono che i delitti 'antichi', omicidi e rapine, stanno decrescendo, ma la paura cresce fra la gente e può decidere un'elezione.
Gramsci e Mussolini erano inconcepibili senza l'Ordine Nuovo o il Popolo d'Italia, gli imprenditori senza i magni organi 'indipendenti', cioè alle loro dipendenze, il Fascismo senza la stampa di regime. Che cosa è cambiato profondamente nella stampa? È cambiato l'editore che non è più un politico o un imprenditore, ma il mercato, e precisamente quel suo braccio armato che è la pubblicità, la creatrice irresistibile di desideri e di consumi, la potentissima locomotiva che trascina il genere umano verso nuovi sprechi e forse nuove guerre. L'informazione adatta alla pubblicità deve sempre essere un pugno allo stomaco, deve stupire, impressionare, lasciare il segno sul lettore. Per questo oscilla fra catastrofismo e ottimismo, fra paure immaginarie e promesse esagerate. In questa eccitazione continua si passa da un eccesso all'altro. Negli anni della mia gioventù tutti i giornali descrivevano i pregi dell'amianto e ora tutti lo accusano di essere cancerogeno. Le statistiche dicono che i delitti 'antichi', omicidi e rapine, stanno decrescendo, ma la paura cresce fra la gente e può decidere un'elezione.
Il massacro dell'automobile continua: tra Europa e Stati Uniti uccide più di centomila persone l'anno e ne ferisce più di un milione, ma il mercato fa finta di non accorgersene. Il catastrofismo si mescola all'ottimismo, entrambi esagerati, si procede fra filantropia e ferocia, magari resuscitando le vecchie persecuzioni ai piromani colpevoli di tutti gli incendi come gli untori della peste. Il commissario alla protezione civile Bertolaso, seguendo l'immaginazione popolare, li ha definiti "uomini malvagi che vogliono rovinare l'Italia", mentre sono italiani normali che ritengono normali i loro piccoli, abituali delitti
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22 luglio 2008
Quanto lavorano i professori universitari?
Alcuni quotidiani nazionali stanno pubblicando articoli a tutta pagina con ampio uso dell'infografica per "denunciare" all'opinione pubblica quello che accade nei nostri Atenei. Alcune "inchieste" arrivano con anni di ritardo, ma i dati diffusi in questi giorni non corrispondono alla realtà. Ieri "calcolatrice alla mano" si dimostrava che nell'Università pubblica italiana i professori lavorano tre ore e trentanove minuti al giorno per 5 giorni alla settimana .. tutto compreso: lezioni, commissioni di esami, sedute di laurea, consigli vari, ricevimento studenti, tesi, attività di e-learning, ricerca, ecc. Si precisava anche che dividendo per 365 giorni le ore diventano 29 al mese, vale a dire meno di un'ora al giorno che sicuramente rende meglio l'idea. Questo è un sicuro esempio di giornalismo non riflessivo, un giornalismo che tende allo scandalo senza neppure sapere che cosa sia la ricerca, senza neppure sapere come funzioni una Facoltà universitaria. E' un giornalismo che non indaga per capire e far capire E' un giornalismo che travolge ogni possibile comprensione.
Le notizie diffuse in questi giorni, che sicuramente saranno amplificate nei prossimi giorni, meritano alcune considerazioni.
In via prioritaria si dovrebbe spiegare all'opinione pubblica chi siano i professori universitari, quale attività veramente svolgono, con quali modalità, che cosa vuol dire fare ricerca? che cosa vuol dire organizzare e gestire un seminario, che cosa vuol dire seguire una tesi di laurea? quanto tempo di lavoro richiede la ricerca, quanto tempo richiede la preparazione di una lezione che durerà circa 2 ore? quanto tempo richiede la correzione di una tesi di laurea, ecc. Perché è utile investire risorse nella ricerca? Perché è utile investire nella formazione universitaria? Perché lo Stato deve investire nella ricerca, anche quella umanistica? Perché lo Stato deve investire risorse per la formazione universitaria? Possiamo ottenere di più dal mondo accademico? Possiamo offrire di più a chi frequenta l'Università? possiamo migliorare la qualità dei nostri docenti per migliorare la qualità della nostra ricerca e dei nostri laureati?
L'Università è prima di tutto una comunità ed ogni comunità umana è fatta di sfumature più o meno evidenti: in ogni Università ci sono docenti (anche di chiara fama) che neppure i colleghi vedono mai, ci sono docenti che danno il minimo con il minimo sforzo, ci sono docenti che esplicano i loro talenti in modi diversi. Chi scrive furiosamente, chi partecipa ad ogni convegno possibile forse non è troppo presente nelle aule o nelle stanze dei dipartimenti, alle volte proprio per questa attività di ricerca o di relazioni pubbliche consegna visibilità ed autorevolezza alla propria Facoltà e al proprio Ateneo. Ci sono quelli che si chiudono da mattina a sera in laboratorio o in archivio, non partecipano troppo a Consigli e "consiglietti" ma "producono" scienza, scrivono libri che meritano di essere meditati, studiati e tradotti, ecc..
Ci sono soprattutto quelli che amo definire gli "artigiani" dell'Università che con sicura passione coniugano ricerca e attività didattica cercando di comunicare competenze e valori. Gli "artigiani" sono quelli che sono sempre lì, quelli che ritengono di poter condividere con gli studenti e con i laureandi un tratto di strada, per insegnare un metodo di lavoro ed uno stile di vita. Gli "artigiani" sono quelli che non hanno mai pensato di misurare il tempo da dedicare alla didattica, quello per la ricerca o quello per tutte le attività di contorno che crescono in misura esponenziale. Gli "artigiani" sono quelli che confondono il tempo del lavoro con il tempo libero, quelli che non hanno orari perché non esiste l'interruttore on/off per disattivare il ragionamento, quelli che entrano in una libreria di domenica e lì inconsapevolmente "lavorano" per il saggio che stanno scrivendo o per la tesi che potranno assegnare, quelli che vedono un film e capiscono che proprio in quelle due ore di "tempo libero" hanno trovato la traccia per la lezione del giorno dopo, coloro che quando sono in vacanza non resistono alla tentazione di entrare in quella particolare biblioteca o in quel museo perché sanno che anche in quel tempo libero al di fuori del dipartimento trovano linfa per le loro ricerche o per le tesi dei laureandi che seguono. Gli "artigiani" sono quelli decidono di dedicare tempo e attenzione ad attività "che non competono" come la riorganizzare dell'intera biblioteca del proprio istituto con vero lavoro di manovalanza, lavoro sicuramente utile per la comunità scientifica di cui fai parte.
"Artigiani" sono i dottori di ricerca, gli assegnisti, i borsisti che investono tutto nella ricerca e nella didattica, da sempre precari, spesso senza alcun tipo di retribuzione eppur così necessari per il funzionamento delle strutture in cui sono inseriti, per anni in attesa di un varco per accedere ad un ruolo più stabile.
Questi "artigiani" non meritano di essere esposti al disprezzo dell'opinione pubblica da chi spara titoli come se avesse il mitra puntato contro la folla indistinta dei professori, come in altri giorni lo ha puntato contro la folla degli statali, dei medici, dei giudici, per non parlare degli "assalti" agli immigrati e ai rom ecc.. - Marina Milan
Ci sono soprattutto quelli che amo definire gli "artigiani" dell'Università che con sicura passione coniugano ricerca e attività didattica cercando di comunicare competenze e valori. Gli "artigiani" sono quelli che sono sempre lì, quelli che ritengono di poter condividere con gli studenti e con i laureandi un tratto di strada, per insegnare un metodo di lavoro ed uno stile di vita. Gli "artigiani" sono quelli che non hanno mai pensato di misurare il tempo da dedicare alla didattica, quello per la ricerca o quello per tutte le attività di contorno che crescono in misura esponenziale. Gli "artigiani" sono quelli che confondono il tempo del lavoro con il tempo libero, quelli che non hanno orari perché non esiste l'interruttore on/off per disattivare il ragionamento, quelli che entrano in una libreria di domenica e lì inconsapevolmente "lavorano" per il saggio che stanno scrivendo o per la tesi che potranno assegnare, quelli che vedono un film e capiscono che proprio in quelle due ore di "tempo libero" hanno trovato la traccia per la lezione del giorno dopo, coloro che quando sono in vacanza non resistono alla tentazione di entrare in quella particolare biblioteca o in quel museo perché sanno che anche in quel tempo libero al di fuori del dipartimento trovano linfa per le loro ricerche o per le tesi dei laureandi che seguono. Gli "artigiani" sono quelli decidono di dedicare tempo e attenzione ad attività "che non competono" come la riorganizzare dell'intera biblioteca del proprio istituto con vero lavoro di manovalanza, lavoro sicuramente utile per la comunità scientifica di cui fai parte.
"Artigiani" sono i dottori di ricerca, gli assegnisti, i borsisti che investono tutto nella ricerca e nella didattica, da sempre precari, spesso senza alcun tipo di retribuzione eppur così necessari per il funzionamento delle strutture in cui sono inseriti, per anni in attesa di un varco per accedere ad un ruolo più stabile.
Questi "artigiani" non meritano di essere esposti al disprezzo dell'opinione pubblica da chi spara titoli come se avesse il mitra puntato contro la folla indistinta dei professori, come in altri giorni lo ha puntato contro la folla degli statali, dei medici, dei giudici, per non parlare degli "assalti" agli immigrati e ai rom ecc.. - Marina Milan
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La satira di Michele Serra
Si è tenuta ieri sera a Genova, nel piazzale delle Feste del Porto Antico, la presentazione dell'ultimo libro del giornalista del Gruppo L'Espresso Michele Serra, "Breviario Comico". La serata rientrava nella serie di eventi proposti dal Teatro dell'Archivolto, all'interno del Genova Urban Lab Summer Festival '08. La piacevole serata si è svolta all'insegna di una allegra chiacchierata sul tema della satira, con la moderazione di Giorgio Gallione e la lettura di alcuni brani del libro da parte delle Iene Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu.
Percorso all'insegna della satira attraverso gli articoli più accattivanti del "corsivista" di Repubblica.
Link alla scheda del libro
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M. Serra, Breviario comico, Feltrinelli, 2008
Percorso all'insegna della satira attraverso gli articoli più accattivanti del "corsivista" di Repubblica.
Link alla scheda del libro
21 luglio 2008
Genova in libreria
Multiculturale a chi? Aspettative degli immigrati a Genova. Ricerca-Formazione del Credit (Febbraio 2007), Genova Frilli, 2008
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* segnalato da C.P.
* segnalato da C.P.
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Migranti
Nuovi scenari per i media della Liguria
In questi giorni si verificano importanti cambiamenti nel mondo dei media della Liguria. Primocanale ha annunciato che Telecittà è stata ceduta a PTV di Maurizio Rossi, stesso editore di PrimoCanale. Inoltre ben 35% del pacchetto azionario del SecoloXIX è rilevato dal gruppo Clessidra.
Link su IL PRIMO, giornale online di Primocanale
Visualizza il PDF cliccando il seguente link:
20 luglio 2008
In libreria
«Non avrai altro Cuore all'infuori di me»,a cura di Andrea Aloi, Chiara Belliti, Mauro Luccarini, Piermaria Romani, Rizzoli, Milano, 2008.
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Recensione critica di Giuliano Zincone
Negli anni bui si rideva di Cuore
"Il Sole24ore", 19 luglio 2008
"Il Sole24ore", 19 luglio 2008
Il «settimanale di resistenza umana», nato nel 1989, esemplifica il destino della satira in Italia, svuotata di senso da quando i politici più bersagliati hanno mostrato di gradirla e trarre vantaggio
Ma insomma, un foglio satirico che si chiamava «Cuore» era proprio obbligato a far ridere? La risposta sembra ovvia. Però esce in questi giorni una ricca antologia di quel defunto «settimanale di resistenza umana», sotto un titolo buffamente presuntuoso: Non avrai altro Cuore all'infuori di me. Il librone è pieno di illustri vignette e di corsivi memorabili, ma ci sono pure le testimonianze, nelle forme di lievi necrologi. Qui troviamo la sentenza di Piergiorgio Paterlini, uno dei fondatori: «Se l'umorismo non fa ridere, la sua ragion d'essere viene completamente meno; se la satira non fa ridere, la sua ragion d'essere permane e si rafforza». Boh.«Cuore», comunque divertiva molti. Nata verdolina nella pancia dell'«Unità», la rivista se ne distaccò, e raggiunse il picco delle 150mila copie. Anche questo sontuoso florilegio fa ridere parecchio, soprattutto i nostalgici: perché il genere comico (contrariamente al tragico) funziona soprattutto tra i contemporanei/complici, poi rischia di appassire. Gli ignari e gli smemorati, in ogni modo, apprezzeranno le vignette magistrali di Altan, di Vincino, di Disegni & Caviglia, di Maramotti, di Vauro, di Staino, le storielle di Gino&Michele... Proverbiale è diventata la rubrica «Chissenefrega», e ancora fresche mi sembrano le rustiche gogne tipo «Botteghe oscure» (insegne demenziali di negozi), «Niente resterà impunito», «Mai più senza» (pubblicità grottesche), eccetera. Questo settimanale prezioso e non sostituito, scaturisce nel 1989 e cresce sotto il cielo variegato della perplessità. Nel suo primo editoriale da direttore, Michele Serra scrive: «E adesso al lavoro e alla lotta, come dicevano Stanlio e Ollio». Per forza. «Cuore», all'origine, accompagna «l'Unità», mentre il comunismo agonizza, mentre Tangentopoli smantella i vecchi partiti, mentre l'individualismo di massa azzanna le antiche appartenenze/solidarietà politiche e culturali. In questo panorama spaesato, «Cuore» vuole essere soprattutto un giornale (o un controgiornale) e sferza allegramente gli ipocriti colleghi: «Fior di saggina / t'ho visto con sei culi in copertina / e titolavi "Dove va la Cina"» (Stefano Benni). Accanto a questa utile battaglia, ecco qualche stoccata maramaldesca, però inferta con un'eleganza che adesso sembra introvabile: «Scatta l'ora legale, panico tra i socialisti», e «Passerotto non andare via», quando Craxi si preparava all'esilio (latitanza?) di Hammamet. Il «settimanale di resistenza umana» sfotte, un po' snobisticamente, parecchi miti di massa contemporanei, compreso il Festival di Sanremo. E aggredisce preti e gerarchie vaticane con un linguaggio pesante (altro che laicismo!), sovrastato però da un rigore quasi luterano: «Gesù Cristo risorge, panico tra i cattolici». Antisocialismo, anticlericalismo? Nel cuore di «Cuore», forse, covano i riflessi condizionati dell'arcaica fede comunista? In parte sì, certo. Però una vignetta di Ellekappa è piuttosto addolorata: «W Marx, W Lenin, W Mao Tse tung. Ne avessi azzeccato uno». Poi un titolo crudele: «Un grande partito! Occhetto: "Siamo d'accordo su tutto, basta che non si parli di politica"». Infine, ecco la testimonianza del disegnatore Riccardo Mannelli: «Comunismo per me significa solo tre parole, crimini contro l'umanità». A poco a poco, s'esaurisce la spinta propulsiva. Cambiano i direttori di «Cuore», falliscono gli estremi tentativi di rianimazione. Le copie, ormai, crollano intorno alle ventimila. Avanza, strisciando, una inesorabile malinconia che assopisce, insieme, i redattori e i lettori. Si constata l'indifferenza delle masse con una vignetta sulla guerra: «Eccidio». «Salute». C'è poco da ridere. Che cosa è successo?Secondo me (cosciente o no), s'è acceso un sentimento di superfluità, tenue come una fiammella del gas, ma costante e petulante. Qualcuno, insomma, ha incominciato a percepire che, per sua natura, la satira classica non nuoce al potere, ma che anzi (spesso) lo rafforza. Molti politici eminenti chiedono ai disegnatori gli originali delle vignette che li sbeffeggiano. Ecco, in questo libro, una foto dell'arcinemico Craxi che visita la redazione di «Cuore», ilare a soddisfatto. Ecco, sul «Corriere della sera» del 2008, Berlusconi ridicolizzato come un nano/mago da Giannelli. Quel pupazzetto, benché svergognatissimo, non provoca ostilità ma tenerezza. Così come non suscitò avversione il buffo «Fanfani rapito» messo in scena da Dario Fo, poco prima (ahinoi) dell'autentico rapimento di Moro. Nani come Brunetta, gobbi come Andreotti: la satira sollecita spesso i sentimenti di superiorità del lettore/spettatore. Fa ridere il comico che inciampa e cade, fa ridere lo sfigato come Fantozzi. Ma, alla fine, questi personaggi risultano simpatici o (perlomeno) non certo odiosi. Per questo (anche per questo), forse, qualche comico "antagonista" contemporaneo ha deciso di cambiare registro. Basta con i vecchi attrezzi della satira, basta con le allusioni, le metafore, le parodie, i paradossi. Basta con l'arte sottile dell'ironia. Siamo o non siamo gli ultimi supplenti della politica? Passiamo direttamente all'invettiva, all'insulto. Peccato che neanche questo funzioni. Applaudono soltanto i pochi che sono già convinti. In compenso non ride nessuno.
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19 luglio 2008
Paolo Borsellino
Sfogliando le prime annate del quotidiano torinese "La Stampa" scopriamo che verso la fine dell'Ottocento contribuì a sensibilizzare l'opinione pubblica sulla questione meridionale, segnalando continuamente la gravità di una situazione che rischiava di diventare irreversibile e dannosa per tutta la nazione. Il quotidiano partiva dalla convinzione della sanità morale delle masse del sud, soggette a gruppi di potere locali che prevaricavano in ogni aspetto della vita civile, sociale ed economica. Un editoriale del 28 febbraio 1898 denunciava con straordinaria lucidità ed efficacia di linguaggio le connivenze del governo centrale in Sicilia:
"Nei paesi dell'isola tutto si lascia fare e si lascia passare, senza controllo delle autorità superiori: soprusi, angherie, partigianerie delle amministrazioni locali, tutto si commette, impunemente, con la massima tracotanza. I prefetti hanno tutt'altro pel capo che preoccuparsi di queste inezie. Debbono pensare alle elezioni politiche, debbono lavorare per candidato ministeriale, incoraggiando anche le camarille locali a commettere rappresaglie contro gli avversari [...] La miseria esistente in tutti i paesi della Sicilia esce dalle proporzioni ordinarie. E’ qualcosa di indescrivibile, di spaventevole..."(28 febbraio 1898)
Pertanto per risolvere il problema del Mezzogiorno era urgente e prioritario epurare il sud dalle camorre e dai politici del malaffare:
"si potrà anche dimostrare colla storia che il fenomeno camorra nasce da cause antiche e remote, ma non si dimostrerà mai come di questa camorra si siano fatta un'arma quanti uomini si succedettero al governo, e come l'abbiano direttamente o indirettamente appoggiata e protetta, invece di combatterla e di distruggerla" (3 novembre 1900)
*cfr. V. Castronovo, La Stampa, 1867-1925. Un’idea di democrazia liberale, Milano, F.Angeli, 1987, pp.122 e 159; Dispense di Storia del giornalismo di M. Milan.
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Il 19 luglio 1992 Paolo Borsellino e la sua scorta furono uccisi nell'attentato mafioso e di Via D'Amelio; due mesi prima la mafia con la stessa ferocia aveva eliminato il giudice Giovanni Falcone. Pochi mesi prima Paolo Borsellino aveva indicato il percorso per spezzare il legame tra mafia e politica:
"L'equivoco su cui si gioca -si dice quel politico era vicino la mafioso, stato accusato di avere interessi, però non l'ha condannato, e allora quel politico è onesto... No, non funziona così, perché la magistratura può fare accertamenti solo di carattere giuridico, può dire "ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi", ma può non arrivare ad avere la certezza giudiziaria che consente di dire: quest'uomo è un mafioso" [...]."Non basta che la politica si sforzi di essere onesta, ma deve anche apparire onesta". (cit. in Aprile.info)
18 luglio 2008
Genova in libreria
Ferruccio Sansa - Marco Preve, Il partito del cemento. Politici, imprenditori, banchieri. La nuova speculazione edilizia, Milano, Chiare lettere, 2008.
Link alla scheda del libro e interviste varie
http://chiarelettere.ilcannocchiale.it/post/1961003.html
Link alla scheda del libro e interviste varie
http://chiarelettere.ilcannocchiale.it/post/1961003.html
"Dalle stelle alle stalle". Tra mito alla realtà
È difficile spiegare una situazione che ha dell’assurdo. Spiegare a chi stava cominciando a fare il tifo per un ragazzo di 24 anni che in bici faceva “casino” e, con il suo atteggiamento spavaldo e avventato, faceva divertire, che tutto quello che hanno visto non era vero.
Riccardo Riccò come Marco Pantani? Negli ultimi giorni i paragoni si sono sprecati. Sul Col d’Aspin il modenese ha levato tutti di ruota come dieci anni fa faceva il Pirata. Un’ azione memorabile che tutti gli appassionati, non solo gli italiani, hanno apprezzato. Poi la catastrofe. La Saunier Duval che si ritira in blocco e un baratro che si ripropone a distanza di nove anni da quel 5 giugno 1999 quando a Madonna di Campiglio Pantani tornava a casa.
Ma da quel giorno di passi avanti ne sono stati fatti tanti. Il ciclismo si è ripulito e ora chi fa il furbo viene beccato sistematicamente. Pantani diceva: «Lo fanno tutti. Perchè ve la prendete con me?» e oggi cosa dice Riccardo Riccò? Per ora non ha detto nulla se non che non ha mai preso nulla. Aspettiamo le controanalisi allora con fiducia. Poi vedremo se un altro possibile mito è caduto ancor prima di diventarlo.
Quello che deve essere chiaro è che il ciclismo non è più quello di dieci anni fa. In gruppo la maggior parte degli atleti ripudia il doping e corre in maniera pulita.
La speranza vera è che si possa tornare a raccontare storie di campioni come si faceva con Coppi e con Bartali che di questo sport hanno scritto pagine indelebili e che lo sport vero torni ad essere l’unico protagonista.
Nelson Mandela
Igor Man
Mandela, padre coraggio
"La Stampa", 18 luglio 2008
Un uomo certamente grande è stato nei giorni scorsi a Roma, reduce da uno strabiliante concerto in suo onore a Hyde Park. Parliamo di Nelson Mandela, novant’anni oggi. «46664 Concert»: a indicare il numero di matricola del prigioniero più illustre del mondo, in galera dal 1962 al 1990, Capo dello Stato dal 1994 al 1999. Il concerto è cominciato con una standing ovation, venti minuti di applausi. Una folla immensa con mezzo mondo del pop: da Leona Lewis a Joan Baez, a Zucchero. Il ricavato del concerto alla battaglia contro l’Aids dedicata soprattutto ai bambini: «Tutti loro, gli innocenti, hanno il diritto di esser curati per vivere», ha detto Annie Lennox.Infine, nello sfinirsi della lunga notte augurale, Peter Gabriel («se il mondo avesse potuto scegliere un padre, avrebbe scelto Nelson Mandela») ha intonato l’happy birthday e lui, Madiba, «il Vecchio» è apparso sul palco inondato di luce. I riflettori han centuplicato le lacrime di Mandela, esattamente due, seguendone il percorso sul volto segnato dagli anni e dalla difficile vita. Vestito di nero, appoggiandosi a un bastone d’ebano sudanese, Mandela ha coraggiosamente ammesso che «il nostro lavoro è ancora lontano le mille miglia dall’essere completato. La gente lo sa, non possiamo deluderla. È giunto il tempo di dare spazio ai giovani». Oramai da tempo Nelson Mandela è una «icona», come usa dire. Questa «icona» ha salvato il Sud Africa dal disastro. Se è vero com’è vero ch’egli sia stato un rivoluzionario atipico, quel che si dice un «patriota coraggioso», è anche vero e comprensibile ch’egli abbia salvato il suo paese dal disastro in forza d’un messaggio sommesso. Forse non adatto a un lider maximo che si pretende sia sempre sul problema e lo risolva, ma misteriosamente efficace. Il messaggio di Mandela è tutto nell’esempio di quest’uomo coraggioso sino all’incredibile. Il Vecchio Cronista ricorda la domanda di un bravo reporter della Cnn a Mandela: «Come ha fatto a resistere in poco spazio, al buio, durante 27 anni»? E Madiba: «Ci vuole pazienza», disse.La cella in cui sopravvisse in grazia della «pazienza» non gli consentiva di starsene disteso: se alzava la testa doveva ripiegare le gambe, se voleva stenderle doveva abbassare il capo. Tutto questo al buio. «Ma io non ero solo», ha sempre detto Mandela. Gli dava conforto la fede, lo aiutava la poesia: componeva versi nel buio della cella sotterranea, appesi a un immaginato pentagramma tracciato a mente.Da vero rivoluzionario, Mandela è uomo d’azione politica, e di guerriglia armata: se i suoi incessanti messaggi dalla galera al mondo non si fossero tradotti in un patto patriottico egli sarebbe stato un terrorista. Il sole è risorto, laggiù, in Sud Africa paese bello e rude quando i Boeri decisero, incalzati da Mandela, di essere innanzitutto sudafricani. Premio Nobel per la Pace, Mandela assiste impotente al truce presente dell’Africa flagellata dalla fame, svenata dal ping pong dei massacri etnici, straniata da guerre assurde (vedi il Kenya). Madiba soffre ma non si arrende: cede il timone ai giovani («novant’anni sono troppi per fare un certo lavoro») ma si può scommettere che se avessero bisogno di lui per «un certo lavoro», Mandela direbbe quel che disse ai giudici che lo avevano condannato all’ergastolo nel 1964: «Se aveste bisogno di me, sapete dove trovarmi».
Un uomo certamente grande è stato nei giorni scorsi a Roma, reduce da uno strabiliante concerto in suo onore a Hyde Park. Parliamo di Nelson Mandela, novant’anni oggi. «46664 Concert»: a indicare il numero di matricola del prigioniero più illustre del mondo, in galera dal 1962 al 1990, Capo dello Stato dal 1994 al 1999. Il concerto è cominciato con una standing ovation, venti minuti di applausi. Una folla immensa con mezzo mondo del pop: da Leona Lewis a Joan Baez, a Zucchero. Il ricavato del concerto alla battaglia contro l’Aids dedicata soprattutto ai bambini: «Tutti loro, gli innocenti, hanno il diritto di esser curati per vivere», ha detto Annie Lennox.Infine, nello sfinirsi della lunga notte augurale, Peter Gabriel («se il mondo avesse potuto scegliere un padre, avrebbe scelto Nelson Mandela») ha intonato l’happy birthday e lui, Madiba, «il Vecchio» è apparso sul palco inondato di luce. I riflettori han centuplicato le lacrime di Mandela, esattamente due, seguendone il percorso sul volto segnato dagli anni e dalla difficile vita. Vestito di nero, appoggiandosi a un bastone d’ebano sudanese, Mandela ha coraggiosamente ammesso che «il nostro lavoro è ancora lontano le mille miglia dall’essere completato. La gente lo sa, non possiamo deluderla. È giunto il tempo di dare spazio ai giovani». Oramai da tempo Nelson Mandela è una «icona», come usa dire. Questa «icona» ha salvato il Sud Africa dal disastro. Se è vero com’è vero ch’egli sia stato un rivoluzionario atipico, quel che si dice un «patriota coraggioso», è anche vero e comprensibile ch’egli abbia salvato il suo paese dal disastro in forza d’un messaggio sommesso. Forse non adatto a un lider maximo che si pretende sia sempre sul problema e lo risolva, ma misteriosamente efficace. Il messaggio di Mandela è tutto nell’esempio di quest’uomo coraggioso sino all’incredibile. Il Vecchio Cronista ricorda la domanda di un bravo reporter della Cnn a Mandela: «Come ha fatto a resistere in poco spazio, al buio, durante 27 anni»? E Madiba: «Ci vuole pazienza», disse.La cella in cui sopravvisse in grazia della «pazienza» non gli consentiva di starsene disteso: se alzava la testa doveva ripiegare le gambe, se voleva stenderle doveva abbassare il capo. Tutto questo al buio. «Ma io non ero solo», ha sempre detto Mandela. Gli dava conforto la fede, lo aiutava la poesia: componeva versi nel buio della cella sotterranea, appesi a un immaginato pentagramma tracciato a mente.Da vero rivoluzionario, Mandela è uomo d’azione politica, e di guerriglia armata: se i suoi incessanti messaggi dalla galera al mondo non si fossero tradotti in un patto patriottico egli sarebbe stato un terrorista. Il sole è risorto, laggiù, in Sud Africa paese bello e rude quando i Boeri decisero, incalzati da Mandela, di essere innanzitutto sudafricani. Premio Nobel per la Pace, Mandela assiste impotente al truce presente dell’Africa flagellata dalla fame, svenata dal ping pong dei massacri etnici, straniata da guerre assurde (vedi il Kenya). Madiba soffre ma non si arrende: cede il timone ai giovani («novant’anni sono troppi per fare un certo lavoro») ma si può scommettere che se avessero bisogno di lui per «un certo lavoro», Mandela direbbe quel che disse ai giudici che lo avevano condannato all’ergastolo nel 1964: «Se aveste bisogno di me, sapete dove trovarmi».
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Fellini e i media
"La convenzione dell’intervista a tutti, su tutto, in tutte le occasioni sta diventando la formula più imperversante di un sistema informativo che ha assunto proporzioni deliranti; i giornali, la radio, la televisione, in qualsiasi ora del giorno e della notte ci inseguono, ci trafiggono con informazioni di ogni tipo che arrivano da tutte le parti; una valanga di nozioni e di notizie che non riusciamo più a contenere, ad assimilare, a trasformare in un “vissuto” o in consapevolezza personale. Esiste soltanto questo ininterrotto e demenziale flusso di parole, immagini, rumori che sommerge tutto; un gigantesco feticcio che occultando ormai completamente la realtà di cui vorrebbe riferire ci toglie ogni responsabilità di intervento, alienandoci, cancellando in partenza qualsiasi tentativo di modificarla. Un inesausto interminabile spettacolo, atroce, ottenebrante, nel quale annega ogni cosa; insomma il nulla, il vuoto, la totale cancellazione. Per una forma non più di igiene, ma di salvezza mentale, sarebbe forse il caso che ogni tanto e per periodi sempre lunghi, la televisione restasse spenta, la radio tacesse, i giornali smettessero di uscire, in modo che ognuno tornasse ad avere il tempo per occuparsi veramente di se stesso, della propria individualità, magari soltanto per rimettere insieme i pezzi, a brandelli."
Federico Fellini, Fare un film, Torino, Einaudi, 1980, p.171
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17 luglio 2008
In libreria
L’immagine ripresa in parola. Letteratura, cinema e altre visioni , a cura di Matteo Colombi e Stefania Esposito, Roma, Meltemi editore, 2008
Link alla scheda del libro
Link alla scheda del libro
l'inganno della notizia
Marco Travaglio
Lettera aperta al direttore
l'Unità, 10 luglio 2008
Caro direttore,quando tutta la stampa (Unità compresa), tutte le tv e persino alcuni protagonisti dicono la stessa cosa, e cioè che l’altroieri in Piazza Navona due comici (Beppe Grillo e Sabina Guzzanti) e un giornalista (il sottoscritto) avrebbero “insultato” e addirittura “vilipeso” il capo dello Stato italiano e quello vaticano, la prima reazione è inevitabile: mi sono perso qualcosa? Mi sono distratto e non ho sentito alcune cose - le più gravi - dette da Beppe, da Sabina e da me stesso? Poi ho controllato direttamente sui video, tutti disponibili su you tube e sui siti di vari giornali, e sono spiacente di comunicarti che nulla di ciò che è stato scritto e detto da tv e giornali (Unità compresa) è realmente accaduto: nessuno ha insultato né vilipeso Giorgio Napolitano né Benedetto XVI. Nessuno ha “rovinato una bella piazza”. E’ stata, come tu hai potuto constatare de visu, una manifestazione di grande successo, sia per la folla, sia per la qualità degli interventi (escluso ovviamente il mio). Per la prima volta si sono fuse in una cinque piazze che finora si erano soltanto sfiorate: quella di Di Pietro, quella di molti elettori del Pd, quella della sinistra cosiddetta radicale, quella dei girotondi e quella dei grillini, non sempre sovrapponibili. E un minimo di rigetto era da mettere in conto. Ma è stata una bella piazza plurale, sia sotto che sopra il palco: idee, linguaggi, culture, sensibilità, mestieri diversi, uniti da un solo obiettivo. Cacciare il Caimano. Le prese di distanza e i distinguo interni, per non parlare delle polemiche esterne, sono un prodotto autoreferenziale del Palazzo (chi fa politica deve tener conto degli alleati, delle opportunità, degli elettori, di cui per fortuna gli artisti e i giornalisti, essendo “impolitici”, possono tranquillamente infischiarsi). La gente invece ha applaudito Grillo e Sabina come Colombo (anche quando ha chiesto consensi per Napolitano), Di Pietro, Flores e gli altri oratori, ma anche i politici delle più varie provenienze venuti a manifestare silenziosamente. Applausi contraddittorii, visto che gli applauditi dicevano cose diverse? Non credo proprio. Era chiaro a tutti che il bersaglio era il regime berlusconiano con le sue leggi canaglia, compresi ovviamente quanti non gli si oppongono.Come mai allora questa percezione non è emersa, nemmeno nei commenti delle persone più vicine, come per esempio te e Furio? Io temo che viviamo tutti nel Truman Show inaugurato 15 anni fa da Al Tappone, che ci ha imposto paletti (anche mentali) sempre più assurdi e ci ha costretti, senza nemmeno rendercene conto, a rinunciare ogni giorno a un pezzettino della nostra libertà. Per cui oggi troviamo eccessivo, o addirittura intollerabile, ciò che qualche anno fa era normale e lo è tuttora nel resto del mondo libero (dove tra l’altro, a parte lo Zimbabwe, non c’è nulla di simile al governo Al Tappone). In Italia l’elenco delle cose che non si possono dire si allunga di giorno in giorno. Negli Stati Uniti, qualche anno fa, uscì senz’alcuno scandalo un libro di Michael Moore dal titolo “Stupid White Man” (pubblicato in Italia da Mondadori…), tutto dedicato alle non eccelse qualità intellettive del presidente Bush. Da dieci anni l’ex presidente Clinton non riesce a uscire da quella che è stata chiamata la “sala orale”. In Francia, la tv pubblica ha trasmesso un programma satirico in cui un attore, parodiando il film “Pulp Fiction” in “Peuple fiction”, irrompe nello studio del presidente Chirac, lo processa sommariamente per le sue innumerevoli menzogne, e poi lo fredda col mitra. A nessuno è mai venuto in mente di parlare di “antibushismo”, di “anticlintonismo”, di “antichirachismo”, di “insulti alla Casa Bianca” o di “vilipendio all’Eliseo”. Tanto più alta è la poltrona su cui siede il politico, tanto più ampio è il diritto di critica e di satira e anche di attacco personale. Quelli che son risuonati l’altroieri in piazza Navona non erano “insulti”. Erano critiche. Grillo, insolitamente moderato e perfino affettuoso, ha detto che “a Napolitano gli voglio bene, ma sonnecchia come Morfeo e firma tutto”, compreso il via libera al lodo Alfano che crea una “banda dei quattro” con licenza di delinquere. Ha sostenuto che Pertini, Scalfaro e Ciampi non l’avrebbero mai firmato (sui primi due ha ragione: non su Ciampi, che firmò il lodo Schifani). E ha ricordato che l’altro giorno, mentre Napoli boccheggia sotto la monnezza, il presidente era a Capri a festeggiare il compleanno con la signora Mastella, reduce dagli arresti domiciliari, e Bassolino, rinviato a giudizio per truffa alla regione che egli stesso presiede. Tutti dati di fatto che possono essere variamente commentati: non insulti o vilipendi. Io, in tre parole tre, ho descritto la vergognosa legge Berlusconi che istituisce un’ ”aggravante razziale” e dunque incostituzionale, punendo - per lo stesso reato - gli immigrati irregolari più severamente degli italiani, e mi sono rammaricato del fatto che il Quirinale l’abbia firmata promulgando il decreto sicurezza. Nessun insulto: critica. Veltroni sostiene che io avrei “insultato” anche lui, e che “non è la prima volta”. Lo invito a rivedersi il mio intervento: nessun insulto, un paio di citazioni appena: per il resto la cronistoria puntuale dell’ennesima resurrezione di Al Tappone dalle sue ceneri grazie a chi - come dice Furio Colombo - “confonde il dialogo con i suoi monologhi”. Sono altri dati di fatto, che possono esser variamente valutati, ma non è né insulto né vilipendio. O forse il Colle ha respinto al mittente qualche legge incostituzionale, e non me ne sono accorto? Sono o non sono libero di pensare e di dire che preferivo Scalfaro e i suoi no al Cavaliere? Oppure la libertà di parola, conquistata al prezzo del sangue dai nostri padri, s’è ridotta a libertà di applauso? Forse qualcuno dimentica che quella c’è anche nelle dittature. E’ la libertà di critica che contraddistingue le democrazie. Se poi a esercitarla su temi quali la laicità, gli infortuni sul lavoro, l’ambiente, la malafinanza, la malapolitica, il precariato, la legalità, la libertà d’informazione sono più i comici che i politici, questa non è certo colpa dei comici.Poi c’è Sabina. Che ha fatto, di tanto grave, Sabina? Ha usato fino in fondo il privilegio della satira, che le consente di chiamare le cose con il loro nome senza le tartuferie e le ipocrisie del politically correct, del politichese e del giornalese: ha tradotto in italiano, con le parole più appropriate, quel che emerge da decine di cronache di giornale sulle presunte telefonate di una signorina dedita ad antichissime attività con l’attuale premier, che poi l’ha promossa ministra. Enrico Fierro ha raccolto l’altro giorno, sull’Unità, i pissi-pissi-bao-bao con cui i giornali di ogni orientamento, da Repubblica al Corriere, dal Riformatorio financo al Giornale, han raccontato quelle presunte chiamate (con la “m”). Ci voleva un quotidiano argentino, il “Clarin”, per usare il termine che comunemente descrive queste cose in Italia: “pompini”, naturalmente di Stato. Quello di Sabina è stato un capolavoro di invettiva satirica, urticante e spiazzante come dev’essere un’invettiva satirica, senza mediazioni artistiche né perifrasi. Gli ignorantelli di ritorno che gridano “vergogna” non possono sapere che già nell’antica Atene, Aristofane era solito far interrompere le sue commedie con una “paràbasi”, cioè con un’invettiva del corifeo che avanzava verso il pubblico e parlava a nome del commediografo, dicendo la sua sui problemi della città. Anche questa è satira (a meno che qualcuno non la confonda ancora con le barzellette). Si dirà: ma Sabina ha pure mandato il papa all’inferno. Posso garantire che, diversamente da me, lei all’inferno non crede. Quella era un’incursione artistica in un genere letterario inaugurato, se non ricordo male, da Dante Alighieri. Il quale spedì anticipatamente all’inferno il pontefice di allora, Bonifacio VIII, che non gli piaceva più o meno per le stesse ragioni per cui questo papa non piace a lei e a molti: le continue intromissioni del Vaticano nella politica. Anche Dante era girotondino? Il fatto è che un vasto e variopinto fronte politico-giornalistico aveva preparato i commenti alla manifestazione ancor prima che iniziasse: demonizzatori, giustizialisti, estremisti, forcaioli, nemici delle istituzioni, e ovviamente alleati occulti del Cavaliere. Qualunque cosa fosse accaduta, avrebbero scritto quel che hanno scritto. Lo sapevamo, e abbiamo deciso di non cedere al ricatto, parlando liberamente a chi era venuto per ascoltarci, non per usarci come pedine dei soliti giochetti. Poi, per fortuna, a ristabilire la verità sono arrivati i commenti schiumanti di Al Tappone e di tutto il centrodestra: tutti inferociti perchè la manifestazione spazza via le tentazioni di un’opposizione più morbida o addirittura di un inciucio sul lodo Alfano (ancora martedì sera, a Primo Piano, due direttori della sinistra “che vince”, Polito e Sansonetti, proclamavano in stereo: “Chi se ne frega del lodo Alfano”). La prova migliore del fatto che la manifestazione contro il Caimano e le sue leggi-canaglia è perfettamente riuscita.
Lettera aperta al direttore
l'Unità, 10 luglio 2008
Caro direttore,quando tutta la stampa (Unità compresa), tutte le tv e persino alcuni protagonisti dicono la stessa cosa, e cioè che l’altroieri in Piazza Navona due comici (Beppe Grillo e Sabina Guzzanti) e un giornalista (il sottoscritto) avrebbero “insultato” e addirittura “vilipeso” il capo dello Stato italiano e quello vaticano, la prima reazione è inevitabile: mi sono perso qualcosa? Mi sono distratto e non ho sentito alcune cose - le più gravi - dette da Beppe, da Sabina e da me stesso? Poi ho controllato direttamente sui video, tutti disponibili su you tube e sui siti di vari giornali, e sono spiacente di comunicarti che nulla di ciò che è stato scritto e detto da tv e giornali (Unità compresa) è realmente accaduto: nessuno ha insultato né vilipeso Giorgio Napolitano né Benedetto XVI. Nessuno ha “rovinato una bella piazza”. E’ stata, come tu hai potuto constatare de visu, una manifestazione di grande successo, sia per la folla, sia per la qualità degli interventi (escluso ovviamente il mio). Per la prima volta si sono fuse in una cinque piazze che finora si erano soltanto sfiorate: quella di Di Pietro, quella di molti elettori del Pd, quella della sinistra cosiddetta radicale, quella dei girotondi e quella dei grillini, non sempre sovrapponibili. E un minimo di rigetto era da mettere in conto. Ma è stata una bella piazza plurale, sia sotto che sopra il palco: idee, linguaggi, culture, sensibilità, mestieri diversi, uniti da un solo obiettivo. Cacciare il Caimano. Le prese di distanza e i distinguo interni, per non parlare delle polemiche esterne, sono un prodotto autoreferenziale del Palazzo (chi fa politica deve tener conto degli alleati, delle opportunità, degli elettori, di cui per fortuna gli artisti e i giornalisti, essendo “impolitici”, possono tranquillamente infischiarsi). La gente invece ha applaudito Grillo e Sabina come Colombo (anche quando ha chiesto consensi per Napolitano), Di Pietro, Flores e gli altri oratori, ma anche i politici delle più varie provenienze venuti a manifestare silenziosamente. Applausi contraddittorii, visto che gli applauditi dicevano cose diverse? Non credo proprio. Era chiaro a tutti che il bersaglio era il regime berlusconiano con le sue leggi canaglia, compresi ovviamente quanti non gli si oppongono.Come mai allora questa percezione non è emersa, nemmeno nei commenti delle persone più vicine, come per esempio te e Furio? Io temo che viviamo tutti nel Truman Show inaugurato 15 anni fa da Al Tappone, che ci ha imposto paletti (anche mentali) sempre più assurdi e ci ha costretti, senza nemmeno rendercene conto, a rinunciare ogni giorno a un pezzettino della nostra libertà. Per cui oggi troviamo eccessivo, o addirittura intollerabile, ciò che qualche anno fa era normale e lo è tuttora nel resto del mondo libero (dove tra l’altro, a parte lo Zimbabwe, non c’è nulla di simile al governo Al Tappone). In Italia l’elenco delle cose che non si possono dire si allunga di giorno in giorno. Negli Stati Uniti, qualche anno fa, uscì senz’alcuno scandalo un libro di Michael Moore dal titolo “Stupid White Man” (pubblicato in Italia da Mondadori…), tutto dedicato alle non eccelse qualità intellettive del presidente Bush. Da dieci anni l’ex presidente Clinton non riesce a uscire da quella che è stata chiamata la “sala orale”. In Francia, la tv pubblica ha trasmesso un programma satirico in cui un attore, parodiando il film “Pulp Fiction” in “Peuple fiction”, irrompe nello studio del presidente Chirac, lo processa sommariamente per le sue innumerevoli menzogne, e poi lo fredda col mitra. A nessuno è mai venuto in mente di parlare di “antibushismo”, di “anticlintonismo”, di “antichirachismo”, di “insulti alla Casa Bianca” o di “vilipendio all’Eliseo”. Tanto più alta è la poltrona su cui siede il politico, tanto più ampio è il diritto di critica e di satira e anche di attacco personale. Quelli che son risuonati l’altroieri in piazza Navona non erano “insulti”. Erano critiche. Grillo, insolitamente moderato e perfino affettuoso, ha detto che “a Napolitano gli voglio bene, ma sonnecchia come Morfeo e firma tutto”, compreso il via libera al lodo Alfano che crea una “banda dei quattro” con licenza di delinquere. Ha sostenuto che Pertini, Scalfaro e Ciampi non l’avrebbero mai firmato (sui primi due ha ragione: non su Ciampi, che firmò il lodo Schifani). E ha ricordato che l’altro giorno, mentre Napoli boccheggia sotto la monnezza, il presidente era a Capri a festeggiare il compleanno con la signora Mastella, reduce dagli arresti domiciliari, e Bassolino, rinviato a giudizio per truffa alla regione che egli stesso presiede. Tutti dati di fatto che possono essere variamente commentati: non insulti o vilipendi. Io, in tre parole tre, ho descritto la vergognosa legge Berlusconi che istituisce un’ ”aggravante razziale” e dunque incostituzionale, punendo - per lo stesso reato - gli immigrati irregolari più severamente degli italiani, e mi sono rammaricato del fatto che il Quirinale l’abbia firmata promulgando il decreto sicurezza. Nessun insulto: critica. Veltroni sostiene che io avrei “insultato” anche lui, e che “non è la prima volta”. Lo invito a rivedersi il mio intervento: nessun insulto, un paio di citazioni appena: per il resto la cronistoria puntuale dell’ennesima resurrezione di Al Tappone dalle sue ceneri grazie a chi - come dice Furio Colombo - “confonde il dialogo con i suoi monologhi”. Sono altri dati di fatto, che possono esser variamente valutati, ma non è né insulto né vilipendio. O forse il Colle ha respinto al mittente qualche legge incostituzionale, e non me ne sono accorto? Sono o non sono libero di pensare e di dire che preferivo Scalfaro e i suoi no al Cavaliere? Oppure la libertà di parola, conquistata al prezzo del sangue dai nostri padri, s’è ridotta a libertà di applauso? Forse qualcuno dimentica che quella c’è anche nelle dittature. E’ la libertà di critica che contraddistingue le democrazie. Se poi a esercitarla su temi quali la laicità, gli infortuni sul lavoro, l’ambiente, la malafinanza, la malapolitica, il precariato, la legalità, la libertà d’informazione sono più i comici che i politici, questa non è certo colpa dei comici.Poi c’è Sabina. Che ha fatto, di tanto grave, Sabina? Ha usato fino in fondo il privilegio della satira, che le consente di chiamare le cose con il loro nome senza le tartuferie e le ipocrisie del politically correct, del politichese e del giornalese: ha tradotto in italiano, con le parole più appropriate, quel che emerge da decine di cronache di giornale sulle presunte telefonate di una signorina dedita ad antichissime attività con l’attuale premier, che poi l’ha promossa ministra. Enrico Fierro ha raccolto l’altro giorno, sull’Unità, i pissi-pissi-bao-bao con cui i giornali di ogni orientamento, da Repubblica al Corriere, dal Riformatorio financo al Giornale, han raccontato quelle presunte chiamate (con la “m”). Ci voleva un quotidiano argentino, il “Clarin”, per usare il termine che comunemente descrive queste cose in Italia: “pompini”, naturalmente di Stato. Quello di Sabina è stato un capolavoro di invettiva satirica, urticante e spiazzante come dev’essere un’invettiva satirica, senza mediazioni artistiche né perifrasi. Gli ignorantelli di ritorno che gridano “vergogna” non possono sapere che già nell’antica Atene, Aristofane era solito far interrompere le sue commedie con una “paràbasi”, cioè con un’invettiva del corifeo che avanzava verso il pubblico e parlava a nome del commediografo, dicendo la sua sui problemi della città. Anche questa è satira (a meno che qualcuno non la confonda ancora con le barzellette). Si dirà: ma Sabina ha pure mandato il papa all’inferno. Posso garantire che, diversamente da me, lei all’inferno non crede. Quella era un’incursione artistica in un genere letterario inaugurato, se non ricordo male, da Dante Alighieri. Il quale spedì anticipatamente all’inferno il pontefice di allora, Bonifacio VIII, che non gli piaceva più o meno per le stesse ragioni per cui questo papa non piace a lei e a molti: le continue intromissioni del Vaticano nella politica. Anche Dante era girotondino? Il fatto è che un vasto e variopinto fronte politico-giornalistico aveva preparato i commenti alla manifestazione ancor prima che iniziasse: demonizzatori, giustizialisti, estremisti, forcaioli, nemici delle istituzioni, e ovviamente alleati occulti del Cavaliere. Qualunque cosa fosse accaduta, avrebbero scritto quel che hanno scritto. Lo sapevamo, e abbiamo deciso di non cedere al ricatto, parlando liberamente a chi era venuto per ascoltarci, non per usarci come pedine dei soliti giochetti. Poi, per fortuna, a ristabilire la verità sono arrivati i commenti schiumanti di Al Tappone e di tutto il centrodestra: tutti inferociti perchè la manifestazione spazza via le tentazioni di un’opposizione più morbida o addirittura di un inciucio sul lodo Alfano (ancora martedì sera, a Primo Piano, due direttori della sinistra “che vince”, Polito e Sansonetti, proclamavano in stereo: “Chi se ne frega del lodo Alfano”). La prova migliore del fatto che la manifestazione contro il Caimano e le sue leggi-canaglia è perfettamente riuscita.
Percorso verso un'altra vergogna targata made in Italy
Pino Corrias
Vanity Fair, 10 luglio 2008
Tolti i pregiudicati, due sole categorie di persone dovranno depositare in un archivio le proprie impronte digitali: i bambini Rom, secondo i voleri del ministro degli interni Bobo Maroni che li vuole schedare per il loro bene e il nostro; e i deputati della Repubblica, come ha appena stabilito il loro presidente Gianfranco Fini.Esiste dunque almeno una equivalenza tra questi due gruppi di cittadini, i bimbi Rom e i deputati, almeno secondo i nuovi cupi standard dell’Italia berlusconiana. E non sarà facile stabilire chi dei due si sentirà più offeso: se i futuri “uomini in sé”, che intendono vivere come nomadi senza territorio, o se i politici di professione che intendono vivere stanziali come “onorevoli in sé” nei territori ben remunerativi dei collegi elettorali.La ragione che li accomuna è con tutta evidenza un torto: il furto. Per essere precisi: il furto di identità. Gli zingarelli perché ne rifilano sempre una nuova (e inventata) ogni volta che vengono pizzicati sui marciapiedi a mendicare. E i deputati perché se le moltiplicano (le identità) quando al momento del voto in aula si improvvisano pianisti e votano due, tre volte, pigiando illegalmente i pulsanti dei vicini assenti. In capo a qualche mese il nuovo sistema di votazione a Montecitorio identificherà ogni singolo polpastrello, impedendo i brogli con le repliche. Da quel giorno in poi non ci sarà più il dubbio di un errore quando ognuno di loro voterà l’altra legge sulle impronte. La prima costerà più o meno 400 mila euro in nuovi macchinari ad alta tecnologia. La seconda infinitamente di più per colpa di quel veleno sociale già messo in circolo una volta, con le leggi razziali del 1938, in piena Italia fascista, quando si avviò la schedatura degli ebrei. Anche allora dicendo che era per il loro bene e il nostro.
Tolti i pregiudicati, due sole categorie di persone dovranno depositare in un archivio le proprie impronte digitali: i bambini Rom, secondo i voleri del ministro degli interni Bobo Maroni che li vuole schedare per il loro bene e il nostro; e i deputati della Repubblica, come ha appena stabilito il loro presidente Gianfranco Fini.Esiste dunque almeno una equivalenza tra questi due gruppi di cittadini, i bimbi Rom e i deputati, almeno secondo i nuovi cupi standard dell’Italia berlusconiana. E non sarà facile stabilire chi dei due si sentirà più offeso: se i futuri “uomini in sé”, che intendono vivere come nomadi senza territorio, o se i politici di professione che intendono vivere stanziali come “onorevoli in sé” nei territori ben remunerativi dei collegi elettorali.La ragione che li accomuna è con tutta evidenza un torto: il furto. Per essere precisi: il furto di identità. Gli zingarelli perché ne rifilano sempre una nuova (e inventata) ogni volta che vengono pizzicati sui marciapiedi a mendicare. E i deputati perché se le moltiplicano (le identità) quando al momento del voto in aula si improvvisano pianisti e votano due, tre volte, pigiando illegalmente i pulsanti dei vicini assenti. In capo a qualche mese il nuovo sistema di votazione a Montecitorio identificherà ogni singolo polpastrello, impedendo i brogli con le repliche. Da quel giorno in poi non ci sarà più il dubbio di un errore quando ognuno di loro voterà l’altra legge sulle impronte. La prima costerà più o meno 400 mila euro in nuovi macchinari ad alta tecnologia. La seconda infinitamente di più per colpa di quel veleno sociale già messo in circolo una volta, con le leggi razziali del 1938, in piena Italia fascista, quando si avviò la schedatura degli ebrei. Anche allora dicendo che era per il loro bene e il nostro.
Notizie distorte per creare una opinione pubblica per i propri interessi.
8 luglio . Clamoroso sondaggio: un terzo degli elettori con gli “estremisti” di piazza Navona
di Paolo Flores d’Arcais
Renato Mannheimer ha pubblicato sul “Corriere della sera” del 13 luglio un sondaggio clamoroso sulla manifestazione di piazza Navona. Sulla base di un campione rappresentativo – per sesso, età, titolo di studio, professione, area geografica, ampiezza del comune di residenza - dell’intero corpo elettorale, solo il 55.3% giudica la manifestazione negativamente, il 15,3% non esprime giudizi, e un incredibilmente alto 29,4% la giudica positivamente.Si badi, questi giudizi non vengono espressi sulla base di una conoscenza diretta di quanto avvenuto a piazza Navona (una diretta tv, per esempio), ma di una informazione (per la maggior parte degli italiani esclusivamente televisiva) che ha violentemente manipolato e distorto i fatti, ha “demonizzato” l’evento, ha cancellato come inesistente la maggior parte degli interventi, e ha ridotto quella che – se fosse giornalismo - dovrebbe essere una cronaca imparziale, ad alcune battute estrapolate da due interventi di due comici.Malgrado questo, malgrado la tv abbia fatto di tutto (e di più) per presentare la manifestazione come ignobile, vergognosa, estremista (senza mai dire nulla dei suoi veri contenuti), le cifre del giudizio del corpo elettorale lasciano felicemente sbalorditi. Proviamo a confrontare i numeri di Mannheimer con i risultati elettorali di alcuni mesi fa. Il 15,3% che si astiene dal giudizio corrisponde, se si votasse, a chi non si reca alle urne, o vota scheda bianca e scheda nulla. Perciò il 29,4% che approva la manifestazione equivarrebbe, in termini di voti validi, al 34,7%. Il partito di Veltroni, alle scorse elezioni, ha ottenuto il 33,2.Altro che estremisti isolati, dunque. Oltre un terzo del corpo elettorale che si esprime, sta dalla parte di piazza Navona. Neppure ai tempi di piazza san Giovanni nel 2002 il riscontro di opinione era stato tanto positivo. E allora i cittadini avevano potuto seguire la manifestazione in diretta su “La7” e i telegiornali, benché non abbiano praticato neppure allora una “imparzialità anglosassone”, erano restati ben lontani all’indecenza di manipolazione del TgUnico dei giorni scorsi. Ma ancora più clamorosi sono i dati di Mannheimer nella loro forma disaggregata, riferita ai vari settori del corpo elettorale. Sempre trascurando gli astenuti, e quindi ricalcolando le percentuali in relazione ai soli “voti validi”, il 23% degli elettori leghisti (praticamente uno su quattro!) “vota” per piazza Navona. E a favore della manifestazione si esprime perfino il 14% degli elettori di Berlusconi/Fini (probabilmente molti di più tra gli ex di Alleanza nazionale che non di Forza Italia). E’ evidente, insomma, che un’opposizione coerente e intelligente, capace di mostrare come “giustizialismo” e “garantismo” siano due facce di una sola medaglia, quella di una intransigente POLITICA DELLA LEGLITA’, può strappare consensi popolari, di massa, nello schieramento opposto, tra cittadini illusi dalle sirene populiste ma rapidamente delusi (se l’opposizione si oppone, anziché dialogare e offrire puntelli) dalla evidente logica dell’interesse “particulare” di Berlusconi a cui si piega tutta la sua coalizione.Infine, tra noi “estremisti” di piazza Navona (ripeto: nella versione demonizzante delle tv) e Veltroni che quella manifestazione condanna, la maggioranza degli elettori di Veltroni non ha dubbi, sta con piazza Navona, 48,2 contro 39,2, il che, ricalcolato senza tener conto del 12,4 di astenuti, significa 55% con piazza Navona contro il 45% col segretario del Pd. Che dunque, contro un candidato di piazza Navona, perderebbe oggi le primarie dentro il suo stesso partito!Chi ha parlato di fallimento della manifestazione, e di irresponsabilità di chi l’ha promossa, ha materia su cui riflettere, se gli resta ancora qualche oncia di buonafede. Perché un conto è sostenere che in una manifestazione politica si preferirebbe ascoltare certi accenti e toni piuttosto che altri, fin qui siamo nel campo delle preferenze soggettive (io stesso ho le mie, molto nette). Un conto è parlare di fallimento e di irresponsabilità, con il che, in genere, si pretende di dare un giudizio “oggettivo”, che trascura le intenzioni (anche le migliori) e guarda alle conseguenze, ai risultati (voluti o non voluti, previsti o non previsti: non averli saputi prevedere costituirebbe, appunto irresponsabilità).I risultati sono ora sotto gli occhi di tutti. Lo stesso Mannheimer ne sembra impressionato, e riconosce che “un orientamento critico verso l’operato del Cavaliere … sta emergendo anche all’interno la maggioranza” il che “rappresenta un fatto nuovo nel panorama politico che si è evidenziato proprio a seguito dell’evento di piazza Navona” (sott. mia).Tutto questo grazie all’impegno di quattro gatti per un paio di settimane, impegno che è bastato a far da catalizzatore alle infinite energie sopite della società civile democratica, che si sono rapidamente auto-organizzate con generosità e sacrificio personale.Che cosa potrebbe fare un’opposizione degna del nome, con le gigantesche risorse del Pd e non dei quattro gatti, lo capisce chiunque. Ecco perché ho parlato tante volte di “inciucio per omissione”. Ma temo che ora Veltroni, D’Alema, Rutelli, di nuovo in reciproco sgambetto permanente, abbiano deciso qualcosa di peggio: l’alleanza organica con il Partito di Cuffaro (pseudonimo: Udc). Speriamo che i militanti del Pd sappiano - prima che il Pd sia definitivamente ingaglioffito a nuova Dc - lanciare l’ultimatum: “Usque tandem abutere patientia nostra?”.
(14 luglio 2008)
di Paolo Flores d’Arcais
Renato Mannheimer ha pubblicato sul “Corriere della sera” del 13 luglio un sondaggio clamoroso sulla manifestazione di piazza Navona. Sulla base di un campione rappresentativo – per sesso, età, titolo di studio, professione, area geografica, ampiezza del comune di residenza - dell’intero corpo elettorale, solo il 55.3% giudica la manifestazione negativamente, il 15,3% non esprime giudizi, e un incredibilmente alto 29,4% la giudica positivamente.Si badi, questi giudizi non vengono espressi sulla base di una conoscenza diretta di quanto avvenuto a piazza Navona (una diretta tv, per esempio), ma di una informazione (per la maggior parte degli italiani esclusivamente televisiva) che ha violentemente manipolato e distorto i fatti, ha “demonizzato” l’evento, ha cancellato come inesistente la maggior parte degli interventi, e ha ridotto quella che – se fosse giornalismo - dovrebbe essere una cronaca imparziale, ad alcune battute estrapolate da due interventi di due comici.Malgrado questo, malgrado la tv abbia fatto di tutto (e di più) per presentare la manifestazione come ignobile, vergognosa, estremista (senza mai dire nulla dei suoi veri contenuti), le cifre del giudizio del corpo elettorale lasciano felicemente sbalorditi. Proviamo a confrontare i numeri di Mannheimer con i risultati elettorali di alcuni mesi fa. Il 15,3% che si astiene dal giudizio corrisponde, se si votasse, a chi non si reca alle urne, o vota scheda bianca e scheda nulla. Perciò il 29,4% che approva la manifestazione equivarrebbe, in termini di voti validi, al 34,7%. Il partito di Veltroni, alle scorse elezioni, ha ottenuto il 33,2.Altro che estremisti isolati, dunque. Oltre un terzo del corpo elettorale che si esprime, sta dalla parte di piazza Navona. Neppure ai tempi di piazza san Giovanni nel 2002 il riscontro di opinione era stato tanto positivo. E allora i cittadini avevano potuto seguire la manifestazione in diretta su “La7” e i telegiornali, benché non abbiano praticato neppure allora una “imparzialità anglosassone”, erano restati ben lontani all’indecenza di manipolazione del TgUnico dei giorni scorsi. Ma ancora più clamorosi sono i dati di Mannheimer nella loro forma disaggregata, riferita ai vari settori del corpo elettorale. Sempre trascurando gli astenuti, e quindi ricalcolando le percentuali in relazione ai soli “voti validi”, il 23% degli elettori leghisti (praticamente uno su quattro!) “vota” per piazza Navona. E a favore della manifestazione si esprime perfino il 14% degli elettori di Berlusconi/Fini (probabilmente molti di più tra gli ex di Alleanza nazionale che non di Forza Italia). E’ evidente, insomma, che un’opposizione coerente e intelligente, capace di mostrare come “giustizialismo” e “garantismo” siano due facce di una sola medaglia, quella di una intransigente POLITICA DELLA LEGLITA’, può strappare consensi popolari, di massa, nello schieramento opposto, tra cittadini illusi dalle sirene populiste ma rapidamente delusi (se l’opposizione si oppone, anziché dialogare e offrire puntelli) dalla evidente logica dell’interesse “particulare” di Berlusconi a cui si piega tutta la sua coalizione.Infine, tra noi “estremisti” di piazza Navona (ripeto: nella versione demonizzante delle tv) e Veltroni che quella manifestazione condanna, la maggioranza degli elettori di Veltroni non ha dubbi, sta con piazza Navona, 48,2 contro 39,2, il che, ricalcolato senza tener conto del 12,4 di astenuti, significa 55% con piazza Navona contro il 45% col segretario del Pd. Che dunque, contro un candidato di piazza Navona, perderebbe oggi le primarie dentro il suo stesso partito!Chi ha parlato di fallimento della manifestazione, e di irresponsabilità di chi l’ha promossa, ha materia su cui riflettere, se gli resta ancora qualche oncia di buonafede. Perché un conto è sostenere che in una manifestazione politica si preferirebbe ascoltare certi accenti e toni piuttosto che altri, fin qui siamo nel campo delle preferenze soggettive (io stesso ho le mie, molto nette). Un conto è parlare di fallimento e di irresponsabilità, con il che, in genere, si pretende di dare un giudizio “oggettivo”, che trascura le intenzioni (anche le migliori) e guarda alle conseguenze, ai risultati (voluti o non voluti, previsti o non previsti: non averli saputi prevedere costituirebbe, appunto irresponsabilità).I risultati sono ora sotto gli occhi di tutti. Lo stesso Mannheimer ne sembra impressionato, e riconosce che “un orientamento critico verso l’operato del Cavaliere … sta emergendo anche all’interno la maggioranza” il che “rappresenta un fatto nuovo nel panorama politico che si è evidenziato proprio a seguito dell’evento di piazza Navona” (sott. mia).Tutto questo grazie all’impegno di quattro gatti per un paio di settimane, impegno che è bastato a far da catalizzatore alle infinite energie sopite della società civile democratica, che si sono rapidamente auto-organizzate con generosità e sacrificio personale.Che cosa potrebbe fare un’opposizione degna del nome, con le gigantesche risorse del Pd e non dei quattro gatti, lo capisce chiunque. Ecco perché ho parlato tante volte di “inciucio per omissione”. Ma temo che ora Veltroni, D’Alema, Rutelli, di nuovo in reciproco sgambetto permanente, abbiano deciso qualcosa di peggio: l’alleanza organica con il Partito di Cuffaro (pseudonimo: Udc). Speriamo che i militanti del Pd sappiano - prima che il Pd sia definitivamente ingaglioffito a nuova Dc - lanciare l’ultimatum: “Usque tandem abutere patientia nostra?”.
(14 luglio 2008)
16 luglio 2008
Rai 4
E' partito lunedì il nuovo canale digitale free della Rai, denominato Rai 4 e contraddistinto dal colore viola. Scopo principale della rete è catturare il pubblico sensibile alle nuove tecnologie e tipologie di comunicazione e informazione. Di seguito uno stralcio dell'intervista a Carlo Freccero, presidente di RaiSat, pubblicata oggi sul sito di Repubblica.it:
"Una rete per un pubblico giovane, che naviga su Internet, sensibile alle suggestioni della moderna comunicazione. La tecnologia digitale, satellitare e terrestre, ha cambiato il concetto di pubblico. La moltiplicazione dei canali e l'interattività producono, accanto a quello passivo della tv generalista, un nuovo pubblico: sono giocolieri, utenti televisivi provenienti dal web, che mandano filmati, fanno a loro modo giornalismo. Rai4 vuole intercettarli e trasformare gli spettatori in autori: il web sarà una fonte formidabile [...]
La multimedialità in cui siamo immersi (tv cellulare computer) sta attuando una rivoluzione, infatti non si parla più di pubblico ma di "pubblici"; quelli che giocano coi reality, gli "spettatori fan" che si nutrono di serialità. E ci sono gli spettatori che non fruiscono più la tv come mezzo di massa, ma attraverso percorsi multimediali, penso agli "spettatori giornalisti" che sul web mandano foto, reportage."
Clicca qui per leggere tutto l'articolo
"Una rete per un pubblico giovane, che naviga su Internet, sensibile alle suggestioni della moderna comunicazione. La tecnologia digitale, satellitare e terrestre, ha cambiato il concetto di pubblico. La moltiplicazione dei canali e l'interattività producono, accanto a quello passivo della tv generalista, un nuovo pubblico: sono giocolieri, utenti televisivi provenienti dal web, che mandano filmati, fanno a loro modo giornalismo. Rai4 vuole intercettarli e trasformare gli spettatori in autori: il web sarà una fonte formidabile [...]
La multimedialità in cui siamo immersi (tv cellulare computer) sta attuando una rivoluzione, infatti non si parla più di pubblico ma di "pubblici"; quelli che giocano coi reality, gli "spettatori fan" che si nutrono di serialità. E ci sono gli spettatori che non fruiscono più la tv come mezzo di massa, ma attraverso percorsi multimediali, penso agli "spettatori giornalisti" che sul web mandano foto, reportage."
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15 luglio 2008
Cinema africano
Arnoldo Mosca Mondadori e Amani
presentano
NDUGU MDOGO - PICCOLO FRATELLO
martedì 23 luglio alle 21.00
auditorium di Palazzo Rosso - Genova.
NDUGU MDOGO è il film che documenta in presa diretta il percorso di recupero, lungo diciotto mesi, di un gruppo di bambini di strada di Nairobi, in Kenya, ad opera di un’equipe di educatori africani formati e coordinati dal missionario comboniano padre Renato Kizito Sesana. Dal degrado degli slums all’ingresso in una nuova casa d’accoglienza: la storia della loro esperienza umana, cruda e vitale. Elemento di particolarità nella realizzazione del film è stata la creazione della “Ndugu Mdogo Crew”, una piccola troupe formata dagli autori con l’intento di allargare l’esperienza e condividere il proprio sguardo con otto giovani africani provenienti dalle stesse aree urbane di profondo degrado scelte per il set. Il gruppo ha collaborato alle riprese imparando – come nella tradizione africana – ‘facendo’, in una sorta di scuola del cinema di strada dove il suo apporto creativo e umano si è potuto esprimere come elemento di autenticità del film.
regia: fabio ilacqua & roberto pelitti © 2007 oj&i milano • ojei@fastwebnet.it
collaborazione ai testi: caterina borruso
traduzioni: eunice mukunya, maurice otsieno
musiche originali: macadamia music project
the ndugu mdogo crew: boniface okada buluma, james kamande, simon murira, robinson murundo, newton musundi, geoffrey musungu, francis owino, victor shamwata info: amani@amaniforafrica.org
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* Segnalato da Valentina Tamburro
13 luglio 2008
Il regime mediocratico
Ilvo Diamanti, Il regime mediocratico, in "La Repubblica", 13 luglio 2008.
Una riflessione sul "potere dei media" e sull'intreccio fra media, comunicazione e politica.
"Da Silvio Berlusconi a Sabina Guzzanti, passando per Beppe Grillo: il percorso della democrazia italiana sembra essersi compiuto. Oltre la democrazia del pubblico e dell'opinione. Fino alla 'mediocrazia'. La definiamo così non per evocare 'mediocrità', che per noi è una virtù democratica, quando riassume passioni timide, distacco, moderazione. Intendiamo, in questo modo, echeggiare il potere dei "media". Che hanno imposto alla politica non solo il linguaggio, lo stile: anche le regole e i modelli di organizzazione" (continua...)
Una riflessione sul "potere dei media" e sull'intreccio fra media, comunicazione e politica.
"Da Silvio Berlusconi a Sabina Guzzanti, passando per Beppe Grillo: il percorso della democrazia italiana sembra essersi compiuto. Oltre la democrazia del pubblico e dell'opinione. Fino alla 'mediocrazia'. La definiamo così non per evocare 'mediocrità', che per noi è una virtù democratica, quando riassume passioni timide, distacco, moderazione. Intendiamo, in questo modo, echeggiare il potere dei "media". Che hanno imposto alla politica non solo il linguaggio, lo stile: anche le regole e i modelli di organizzazione" (continua...)
12 luglio 2008
Iraq, addio giornalismo di guerra
Mimmo Candito pubblica su "la Stampa" di oggi un articolo meritevole di attenzione sul giornalismo di guerra. L'Autore è stato per molti decenni inviato di guerra per il quotidiano di Torino "La Stampa" ed ha scritto alcuni libri sulla storia del giornalismo di guerra. Attualmente gestisce il blog Il villaggio quasi globale sul sito del "La Stampa". Ha anche insegnato Tecnica dell'intervista al Diploma in Giornalismo dell'Università di Genova.
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Mimmo Candito
Iraq, addio giornalismo di guerra
"La Stampa", 12 luglio 2008
Tranne qualche raro flash di routine, l’Iraq è scomparso dalle pagine dei giornali e dalle informazioni di telegiornali e radiogiornali. È come se laggiù fosse finito tutto, finita la guerra, finite le lotte tra sciiti e sunniti, finite le infiltrazioni terroristiche di al-Qaeda, finite le stragi e le autobomba. Poi sfogli il New York Times e nel piccolo riquadro d’una pagina interna un breve titolo, «I nomi dei morti», accompagna l’annuncio che il soldato John Smith e il sergente Carlos Redondo ieri sono stati ammazzati in Iraq. Smith e Redondo si aggiungono ai 4102 che finora erano i morti di quella guerra, ma altri due o tre o cinque Smith e Redondo già domani cancelleranno questi loro nomi, come accade in ognuno di tutti i giorni da quando la guerra è cominciata, nel marzo del 2003. In Iraq, si combatte e si muore tuttora. Solo che ora non se ne parla, non se ne scrive, non se ne raccontano più uomini, storie, tragedie, battaglie. L’Iraq pare diventato una guerra dimenticata. Un tempo, le «guerre dimenticate» erano quelle dove i giornalisti non andavano perché - si diceva - non interessano nessuno, non erano coinvolte né grandi potenze né grandi strategie. Ma oggi la geografia del giornalismo è cambiata drammaticamente, oggi le guerre «dimenticate» sono le guerre dove invece i giornalisti non vanno perché non possono andarci. Perché il rischio d’esservi ammazzati è troppo elevato. Farnaz Fassihi, inviata del Wall Street Journal in Iraq, dice: «Essere un giornalista straniero a Baghdad in questi giorni è come essere un condannato agli arresti domiciliari». (La sua intervista può esser letta nel Diario-mese che ha pubblicato la traduzione italiana d’un numero speciale del Columbia Journalism Review dedicato ai reporter in Iraq). Quest’ultima guerra del Golfo è, forse, anche l’ultima del giornalismo di guerra. Un mestiere va finendo, quanto meno va finendo il modo con cui lo si faceva, che era la pratica testimoniale di un rapporto diretto con il territorio raccontato e con coloro che vi operavano, i soldati, gli ufficiali, i guerriglieri, ma anche la gente comune e la loro vita senza storia e senza qualità. Oggi, in Iraq, se pensi ancora di andare in giro a osservare, intervistare, incontrare persone e informatori, sei un aspirante suicida. Puoi essere rapito e sequestrato, come la Giuliana Sgrena o Malbrunot, ma è più facile ancora che ti prendano e ti sgozzino. Dice Borzou Daragahi, del Los Angeles Times: «Un espediente strategico che utilizzo è di andare sul lungo di un attentato, raccogliere con estrema rapidità i numeri dei cellulari della gente lì attorno, per andarmene nel giro di dieci o quindici minuti. Poi, mentre sto tornando indietro in macchina, li richiamo per raccogliere le loro testimonianze». Borzou non ha l’aspetto di un giornalista straniero, ma quei quindici minuti sono il limite massimo della sua missione. I media occidentali stanno delegando la raccolta e produzione d’informazioni ai loro collaboratori iracheni, che però - nemmeno essi - sono esentati dal pericolo, perché considerati «spie degli americani». Il Committe to Protect Journalists ha contato che, dei 206 giornalisti e stringer e interpreti uccisi fino a oggi in questa guerra, più di 170 erano iracheni. Nell’analisi critica del giornalismo d’oggi, ha un ruolo sempre più accentuato l’utilizzo mediato dei flussi informativi, cioè la sostituzione del lavoro sul campo con la pratica di «impastare» in redazione le informazioni raccolte attraverso l’uso di fonti esterne. È, questo, il derivato più determinante dell’evoluzione tecnologica e delle straordinarie potenzialità del web. Finora, il reporter di guerra aveva potuto resistere a questa mutazione, integrando piuttosto con Internet il suo vagare e indagare sul campo di battaglia. Ma ora che l’Iraq è diventato territorio off-limits, la cronaca di una morte annunciata si va consumando. E ci si chiede che cosa sia giornalismo oggi.
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Percorsi di lettura:
Mimmo CanditoProfessione: reporter di guerra. Storia di un giornalismo difficile, da Hemingway a Internet
Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2000
Professione: reporter di guerra, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2002
Etichette:
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Politica internazionale
11 luglio 2008
"L'Orma". Trimestrale interfacoltà a cura dell' associazione "Orma del Viaggiatore"
"Fare giornalismo in maniera fresca e brillante per diventare un punto di riferimento per gli studenti di tutte le facoltà". Questo è l'obiettivo che si è posta la redazione de "L'Orma", il giornalino trimestrale dell' associazione "Orma del Viaggiatore" e stampato grazie ai finanziamenti dell' Università di Genova.
Un progetto nato nel 2005 da un gruppo di studenti provenienti da tutte le facoltà, la testata che prima si occupava principalmente di eventi culturali. musicali, e teatrali in ambito universitario, ha avuto un' evoluzione dal 2007 quando è stata scelta una nuova linea editoriale che da molto più spazio agli eventi di cronaca universitaria con zoom su tempi specifici che variano ogni numero. Uno spazio è dedicato anche alla realtà universitaria di Napoli dove dal 2006 esiste una redazione distaccata diretta da Alessia Coscino.
Sul sito http://www.lormaonline.com/, oltre alla cronaca viene dedicato ampio spazio agli eventi culturali de Genova e della Liguria. Musica, Sport ed eventi culturali sono i temi al centro dell' attenzione.
L'associazione "Orma del Viaggiatore" da tre anni organizza il Concorso Letterario "Orme Oltremare" che quest' anno con la scelta del tema "Vicoli" ha dato spazio a prose e poesie provenienti da tutta Italia con al centro un elemento tipico della realtà genovese.
Sempre alla ricerca di collaboratori intraprendenti e volenterosi la redazione de "L'Orma" potrebbe avere presto una sua redazione presso l' Arssu in via Balbi 31 B.
Il giornale viene distribuito gratuitamente in tutte le facoltà e mira a diventare un punto di riferimento per tutti gli studenti universitari.
Per informazioni
10 luglio 2008
Riflettere prima di scrivere
Gentile Prof. Milan,
finalmente riesco ad accedere al blog dal bellissimo titolo Giornalismo riflessivo. Ho da qualche giorno iniziato la mia avventura professionale al Secolo XIX e vorrei cercare aree di confronto sui temi della comunicazione. In questi anni ho sperimentato i vari linguaggi dei media: carta stampata, radio, televisione, internet e devo dire che ciò che li accomuna è la necessità, sempre più forte e decisiva, di contenuti veri, meditati, pensati e poi trasmessi o mi passi il termine evocativo testimoniati.
Leggero con attenzione tutto ciò che verrà pubblicato nel blog con l'obbligo e il piacere di darvi un contributo effettivo, nel mio piccolo.
auguri
Luca Rolandi
Rollo
finalmente riesco ad accedere al blog dal bellissimo titolo Giornalismo riflessivo. Ho da qualche giorno iniziato la mia avventura professionale al Secolo XIX e vorrei cercare aree di confronto sui temi della comunicazione. In questi anni ho sperimentato i vari linguaggi dei media: carta stampata, radio, televisione, internet e devo dire che ciò che li accomuna è la necessità, sempre più forte e decisiva, di contenuti veri, meditati, pensati e poi trasmessi o mi passi il termine evocativo testimoniati.
Leggero con attenzione tutto ciò che verrà pubblicato nel blog con l'obbligo e il piacere di darvi un contributo effettivo, nel mio piccolo.
auguri
Luca Rolandi
Rollo
Il giornalismo locale
Daniele Boasi, I quotidiani regionali nella società "glocal". Il caso del "Secolo XIX" di Genova, Facoltà di Scienze Politiche Università degli studi di Genova, rel. M. Milan, a.a. 2005-2006
*link al testo in formato pdf
Francesco Bottino, Genova in prima pagina. Criteri di notiziabilità e contenuti ("Il Secolo XIX" e "La Repubblica-Il Lavoro") Facoltà di Scienze Politiche, Università degli studi di Genova, rel. M. Milan, a.a. 2005-2006
*link al testo in formato pdf
Francesco Bottino, Genova in prima pagina. Criteri di notiziabilità e contenuti ("Il Secolo XIX" e "La Repubblica-Il Lavoro") Facoltà di Scienze Politiche, Università degli studi di Genova, rel. M. Milan, a.a. 2005-2006
Martina Russano, Percorsi del giornalismo radiofonico in Liguria, Facoltà di Scienze Politiche, Università degli studi di Genova, rel. M. Milan, a.a. 2008-2009,
Stefania Scappini, Le riviste di teatro a Genova fra Otto e Novecento, a.a. 2008-2009 tesi di laurea specialistica in Editoria, Comunicazione multimediale e Giornalismo, Università degli studi di Genova, rel. M. Milan / correl. M. Bottaro
Ilaria Ugolini, I giornali di quartiere a Genova. Una proposta di cittadinanza attiva, Facoltà di Scienze Politiche Università degli studi di Genova, rel. M. Milan, a.a. 2007-2008.
Ilaria Ugolini, I giornali di quartiere a Genova. Una proposta di cittadinanza attiva, Facoltà di Scienze Politiche Università degli studi di Genova, rel. M. Milan, a.a. 2007-2008.
06 luglio 2008
Editoriale della domenica
Barbara Spinelli
Il valzer della paura
"La Stampa", 6 luglio 2008
Anche se il silenzio è vasto, sulle misure di sicurezza adottate in fretta da Berlusconi, c’è stato chi ha provato sgomento grande, apprendendo che il ministro dell’Interno Maroni aveva messo all’ordine del giorno, come provvedimento risolutivo, le impronte digitali imposte ai bambini Rom: hanno protestato insegnanti impegnati in difficili tentativi di inserzione, e pensatori, storici, politici d’opposizione. Ma le parole più nette, più indipendenti, meno nebbiose son venute dall’interno della Chiesa. Aveva cominciato l’arcivescovo di Milano Tettamanzi, denunciando gli sgomberi dei campi Rom in aprile («Si è scesi sotto il rispetto dei diritti umani»). Poi hanno parlato sacerdoti, vescovi, la Fondazione Migrantes. Infine è giunto l’editoriale di Famiglia Cristiana: un periodico che vende più copie di tutti i giornali (3 milioni di lettori) ed è presente in ogni chiesa. L’editoriale del direttore, Antonio Sciortino, non usa eufemismi. Parla di «misure indecenti», di un governo per cui «la dignità dell’uomo vale zero». Enumera verità giuridiche elementari: l’accattonaggio non è reato, la patria potestà tolta quando i genitori Rom sono poveri o in condizioni difficili viola la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, firmata dall’Italia. Ma soprattutto, ricorda il male scuro dell’Italia, tra i più scuri in Europa. L’Italia porta nel proprio bagaglio il fascismo con le leggi razziali e tuttavia questa «tragica responsabilità» finge di non averla: «Non ce ne siamo vergognati abbastanza». Anche questo crea sgomento: questo passato che non solo non passa, ma sembra dissolto in un acido, come se le revisioni di Fini a Fiuggi non si fossero limitate ad affrancare Alleanza nazionale ma fossero andate oltre, consegnando al nulla tutto un brano di storia nazionale. Il periodico obbedisce al motto del fondatore, Giacomo Alberione: «Famiglia Cristiana non dovrà parlare di religione cristiana, ma di tutto cristianamente».Tuttavia l’ossessione dello straniero sospetto sin dalla nascita non è solo italiana. In questi giorni si discute di schedatura dell’infanzia in Francia («progetto Edvige»), anche se l’elaborazione di identikit - il profiling - non riguarda le etnie. Ma anche qui si pensa agli stranieri, e il significato è lo stesso: si predispongono liste di sospetti, in nome di uno stato d’emergenza infinita. Il modello d’integrazione del dopoguerra, chiamato in Francia protezionista, viene sostituito da un modello repressivo, dal populismo penale, da un inarrestabile proliferare di reati, dal profiling del diverso. Muta il mondo che abitiamo sempre meno generosamente, meno umanamente: una sorta di catastrofismo antropologico s’insedia negli spiriti e nei governi, che giudica l’uomo malvagio, incendiario. Che abolisce la fiducia: quest’apertura all’altro che scommette sul mutare della persona e non sugli immoti dati del suo corpo e della sua genetica.Questa politica della sfiducia è iniziata prima dell’11 settembre, ma dopo il 2001 ha impastato sicurezza interna e antiterrorismo, importando dalla guerra le parole, le pratiche, le norme d’eccezione. Un libro uscito quest’anno in Francia, a cura di Laurent Mucchielli, descrive la frenesia della sicurezza impadronitasi dei governanti come dei giornali e spiega bene, in un saggio di Mathieu Rigouste, la militarizzazione delle menti. Anche qui riaffiorano automatismi, si son disperse vergogne o memorie. Rigouste, in un libro d’imminente uscita (L’ennemi intérieur, La Découverte) ricorda che linguaggio e azioni sono radicati nelle repressioni coloniali. Si parla di «contro-insurrezione», di «zone grigie dove s’annidano minacce di guerriglia», di «guerre di bassa intensità permanente» nelle banlieue. Ci sono consiglieri governativi (il colonnello de Richoufftz, il generale Henry Paris) che si fanno forti delle esperienze in Bosnia, Kosovo, perfino in Algeria.A forza d’impastare il civile e il militare sono tanti i confini che sbiadiscono: tra ordine e emergenza, pace e guerra, e anche tra l’età maggiorenne (in cui diveniamo imputabili, incarcerabili) e quella minorenne, da tutelare e correggere con l’integrazione. Il bambino e l’adolescente diventano incubo, primo anello di catene devianti. Il XX secolo fu marchiato dalla foto del bambino con le braccia alzate, nel ghetto di Varsavia sopraffatto. Quell’immagine rivive: a Guantanamo, in Palestina, in Europa stessa. Chi ha contemplato il tremendo nel prodigioso film di Ari Folman (Waltz With Bachir), ricorderà la scena in cui l’autore, ebreo israeliano, racconta i palestinesi massacrati a Sabra e Chatila e vacilla perché quel che ha visto e quel di cui s’è reso complice gli fa venire in mente il bambino di Varsavia. Chi difende le leggi Berlusconi difende cause apparentemente buone, e accusa i cristiani dissidenti di cecità: «Voi non andate nelle terre di desolazione e ignorate l’angoscia di tanti italiani», lamentano. Dicono che la legge è fatta per dare ai bambini un’identità che non hanno, per verificare se vanno a scuola, hanno case decenti, son sfruttati. Ma i bambini sfruttati e non scolarizzati in Italia sono ben più numerosi dei Rom, e questo conferma la discriminazione negativa di un’etnia (sono selettivi anche alcuni termini: commissario per la questione Rom, emergenza-Rom). Conferma una visione del male che non insorge perché società e istituzioni barcollano, o l’integrazione fallisce. Il male comincia nel genetico, nel corpo del bambino. Tanto più se diverso: Rom, musulmano, povero. Sono anni che la delinquenza minorenne ossessiona, e un primo bilancio può esser fatto delle risposte date fin qui in Europa. I più repressivi sono stati i governi inglesi, poi il francese e l’italiano; mentre a Nord è sopravvissuto il modello integrativo. I risultati non confortano i fautori di ghetti. Con le repressioni inglesi, la delinquenza minorile è spettacolarmente aumentata: la sua parte nel crimine globale raggiunge percentuali senza eguali in Europa (20 per cento). Mentre in Norvegia, dove son preservate istituzioni solidali, i minorenni sono meno del 5 per cento della criminalità globale. Molte misure tecnologiche presentate come miracoli sono inefficaci. E in nome delle vittime o delle paure singole, è l’idea di una società coesa che si sfalda, è la sfiducia nelle istituzioni collettive che si attizza. Le impronte digitali, infine, accendono risentimento. Pierre Piazza, autore in Francia di una storia della carta d’identità, evoca afghani in cerca d’asilo che si son bruciati le dita, per protestare contro la schedatura. I tempi d’azione affrettati e concitati, il rifiuto dei vecchi modi - più lenti - di curare le radici del male anziché estirparle: tutto questo mostra che insicurezza e paura sono spesso considerate una soluzione, più che un problema. Son usate e alimentate come uno strumento utile al potere. Sono la fuga nella politica delle emozioni, dell’annuncio declamatorio, del culto totemico di cifre continuamente contraffatte. A partire dal momento in cui, se un bambino ruba una bici, conta più la bici che la storia del bambino, il salto qualitativo è fatto: il salto nei nuovi reati (di accattonaggio o clandestinità); il salto nel sequestro del corpo, tramite biometria. L’habeas corpus, che è la facoltà di disporre del proprio corpo senza che esso sia manomesso o derubato, si perde. I cittadini alle prese con lo spavento sono comprensibili. Ma la civiltà ha sue ragioni, che l’individuo impaurito non conosce o sottovaluta. Sono ragioni che riguardano anche lui. Il pastore Martin Niemoeller lo rammenta, in una poesia scritta a Sachsenhausen e Dachau, oggi esposta in un manifesto nelle vie di Roma. All’inizio deportano gli zingari, e tu taci. Poi gli ebrei, i sindacalisti, e sempre taci. Alla fine vengono per prender te. Non c’è più nessuno per protestare.
___
* Barbara Spinelli è autorevole editorialista del quotidiano "La Stampa" di Torino; i suoi commenti della domenica sotto il titolo "Analisi" sono ujn sicuro modello di giornalismo riflessivo.
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