Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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29 giugno 2017

Al Jazeera English: the "voice to the voiceless”


 “I heard revolution would not be televised, Al Jazeera proved them wrong.”

Così viene reinterpretato il celebre brano di Gil Scott-Heron dal rapper egiziano-statunitense Omar Al Offendum, alla luce delle proteste in Egitto che nel 2011 fecero dimettere Mubarak. Ed è proprio in questo iconico verso che si racchiude il senso di Voci da sud, nato da una tesi di dottorato che viaggia dall’Orientale di Napoli a Doha e che ruota attorno ad una questione oggi più che mai centrale nel mondo del giornalismo: è possibile invertire il flusso che per secoli ha portato l’Occidente a riversare la sua civiltà, la sua storia, le sue notizie verso un Sud stereotipato, passivo e privo di voce?
Se è vero, come affermava Robert Fisk, che nella storia occidentale cruciale è la relazione tra potere, media e parole, quale può essere il contributo di una singola emittente mediorientale nel processo di decolonizzazione dell’informazione? Al Jazeera ha provato a cambiare verso all’informazione internazionale, trasformando un monologo unilaterale in un dialogo eterodiretto che raccoglie direttamente le voci dei protagonisti della storia e degli eventi di vaste regioni mediorientali, per poi consegnarle all’attenzione dell’Occidente.
L’autrice Viola Sarnelli ripercorre l’apertura del canale in lingua inglese, lanciato dalla trasmittente del Qatar nel 2006 con il dichiarato obiettivo di diffondere contenuti regionali e “alternativi” attraverso piattaforme, modelli e un linguaggio accessibili anche al mondo occidentale, con l’emblematico slogan “Voice to the voiceless”.
Le interviste ai giornalisti che hanno preso parte al progetto e le analisi di massmediologi e studiosi raccolte nel libro si vanno direttamente ad inserire in un dibattito ben più ampio che si interroga sul ruolo dei media. È così che l’autrice, seguendo le tappe percorse dal canale ed i suoi effetti sul pubblico internazionale, ci racconta cosa nel concreto voglia dire promuovere il giornalismo di pace: Al Jazeera English si pone come media conciliatorio, ponte tra due culture lontanissime eppure necessariamente portate al dialogo, sfruttando la lingua come denominatore comune e raccontandoci cosa succede “aldilà” dell’Occidente.
Se è vero che troppo spesso i media occidentali rincorrono una chimerica obiettività, senza dare il giusto peso alle prospettive e al contesto che spiegano i fatti, Sarnelli ci dimostra come Al Jazeera English abbia reso un altro approccio possibile: le testimonianze dirette, gli interventi, i video amatoriali ed i commenti online sono parte integrante delle fonti del canale, che mette a fuoco eventi storici come le proteste tunisina o egiziana direttamente con gli occhi dei suoi protagonisti; il tutto non resta inoltre chiuso in un dibattito interno fine a se stesso, ma viene raccontato in inglese e trasmesso in tutto il mondo, così da raggiungere non solo i protagonisti della diaspora “dal sud” in occidente, ma il pubblico occidentale stesso. Con metodo e ricca capacità argomentativa, Voci da sud pone “un punto e virgola”, come la stessa autrice suggerisce, un tassello finalmente propositivo all’interno dello scontro tra civiltà di Huntington che certo non trova soluzione grazie al singolo contributo di un’emittente, ma che necessariamente passa anche per un coinvolgimento attivo dei media, nel ritrovato significato letterale di “ponte”.
Marianna Mancini

Viola Sarnelli
Voci dal Sud. Al Jazeera English e i flussi delle notizie internazionali
Photocity.it Edizioni, Napoli, 2014, pp. 236.  

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27 giugno 2017

La radiovisione



La storia della radio ha radici alla fine del diciannovesimo secolo. Il fisico e matematico scozzese James Maxwell fu il primo a studiare il carattere ondulatorio della luce. Questi studi portarono il fisico tedesco Heinrich Hertz a capire che si sarebbe potuto trasmettere informazioni tramite le onde elettromagnetiche. L’ingegnere Nikola Tesla utilizzò per primo un dispositivo che conteneva tutti gli elementi simili alla radio, che però non riusciva né a trasmettere e né a ricevere segnali. Si deve quindi all’italiano Guglielmo Marconi, nel 1901, l’invenzione vera e propria del primo sistema in grado di trasmettere segnali radio a grandi distanze.
La radio ha subito grandi mutamenti nel corso del ventesimo secolo e sempre di più ha assunto importanza, divenendo uno strumento di comunicazione di massa. Negli anni ’20 italiani, questo strumento divenne fulcro dell’EIAR, fondamentale per la propaganda fascista. Solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, però, la radio giunse alla sua età dell’oro. Nel 1951 la prima edizione del Festival di Sanremo venne riprodotta tramite radio. Da lì in poi, per la radio, fu un vero e proprio successo. L’arrivo delle televisioni non scalfì il grande utilizzo che gli italiani fecero di questo strumento e, anzi, a fine degli anni ’90 sarà proprio l’arrivo delle web radio a rendere queste un punto fermo dell’intrattenimento. Questo portò la radio a sbarcare anche sulle televisioni, sia come semplice modo di ascoltare la musica, sia come alternativa ai programmi televisivi.
Simone di Biasio, nato a Fondi nel 1988, laureato in Editoria e Giornalismo all’Università “La Sapienza” di Roma, con il libro Guardare la radio. Prima storia della radiovisione italiana discute del successo di questo mezzo di comunicazione. Guardare la radio assume una duplice valenza. Da un lato la possibilità di osservare gli speaker al lavoro, prima erano solo delle voci fuoriuscite da uno strumento. Dall’altro osservare come la musica prende forma, i video dietro le canzoni di successo.
Il libro è una storia, racconta l’evoluzione di questo mezzo di comunicazione di massa. La radiovisione che, come dice Maurizio Costanzo, «È una radio che studia la televisione». La nascita di un nuovo medium, un nuovo strumento di comunicazione che non soppianta l’altro ma che lo integra. La radio che si fa radiotelevisione. «Che un giorno non tanto lontano noi potremo radiovedere non è in alcun modo dubbio», così scriveva "Il Corriere della sera" nel 1931. In fondo, ogni mezzo di comunicazione di massa ha subito un’evoluzione. La radio lo dimostra.

Samuele Aiesi

 

Simone di Biasio
Guardare la radio. Prima storia della radiovisione italiana
Mimesis, Milano, 2016

25 giugno 2017

Il "Tennis italiano" promuove l'esperienza digitale



La rivista Il Tennis Italiano rappresenta una sorta di bibbia italiana e internazionale del tennis.
Essa è infatti la rivista specializzata più antica del mondo, tanto che gli oltre 900 numeri della collezione completa sono allineati sugli scaffali della biblioteca di Wimbledon, sede del più prestigioso torneo del circuito professionistico. Le sue pagine hanno ospitato l’esordio di grandi firme, da Gianni Clerici, che inizia a scrivere nel 1948, a Rino Tommasi, il cui primo pezzo è del 1953. Ma la lista dei collaboratori di alto livello è lunga: comincia con Riccardo Piatti, Alberto Castellani e Claudio Pistolesi, gli unici tre coach italiani riconosciuti dall’ATP, l’Associazione dei giocatori professionisti, e prosegue con il comitato scientifico della rivista che comprende tecnici del calibro di Nick Bollettieri, Emilio Sanchez e Dennis Van Der Meer. E non finisce qui. Nel 2003 è stata votata dal Professional Tennis Registry, la prestigiosa associazione internazionale di insegnanti di tennis, come la più bella rivista dedicata a questo sport. Sono tanti i riconoscimenti e i trofei esposti in bacheca da Il Tennis Italiano che viene alla luce a Milano nel 1929 e ancora oggi, 77 anni dopo, rappresenta una delle espressioni più caratteristiche della vivacità intellettuale eimprenditoriale della città. La rivista infatti è rimasta sul mercato oltre tre quarti di secolo senza perdere un colpo, raccontando uno sport come il tennis, complesso dal punto di vista tecnico, e duro, estremamente competitivo, al limite della spietatezza per quanto riguarda l’aspetto mentale. Il segreto di una così lunga e straordinaria vita è la passione, l’amore illimitato ed esclusivo per il gioco.
Oggi la “Bibbia del tennis” incontra una nuova sfida. Ossia l’istituzione, attraverso la storia narrata nelle sue pagine, di un museo del tennis con una forte connotazione digitale. Tale progetto è ideato dall’associazione milanese Memoria & Progetto che, attraverso la partnership con Il Tennis Italiano, intende avvicinare le nuove generazioni al tennis, promuovendo la cultura di questo sport.
La dimensione multimediale permette di implementare, modificare e rinnovare i contenuti, in modo che la visita sia un’esperienza sempre diversa, modellata sul tipo di pubblico.
Tale disegno diviene un esempio positivo di multimedialità, capace di mantenere tutta la storia e la tradizione dello sport in Italia, ampliandone la fruibilità.
 Chiara Gianni 

24 giugno 2017

È lontana Lampedusa?


 



Voi che vivete sicuri 
nelle vostre tiepide case, 
voi che trovate tornando a sera 
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo 
che lavora nel fango 
che non conosce pace 
che lotta per mezzo pane 
che muore per un sì o per un no. 
Considerate se questa è una donna, 
senza capelli e senza nome 
senza più forza di ricordare 
vuoti gli occhi e freddo il grembo 
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato: 
vi comando queste parole. 
Scolpitele nel vostro cuore 
stando in casa andando per via, 
coricandovi alzandovi; 
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa, 
la malattia vi impedisca, 
i vostri nati torcano il viso da voi.
Primo Levi




Per quale motivo un uomo o una donna - spesso con bambini in grembo - decide di lasciare il proprio paese, pagare ingenti somme di denaro ad un trafficante, salire su di un barcone fatiscente, compiere un viaggio insicuro e rischioso, per giungere in una terra a loro completamente estranea? Cosa li spinge?
E soprattutto chi sono - quale il loro nome e la loro storia - tutti quegli uomini e donne, del nuovo millennio, che partono?
Domenico Quirico - per lunghi anni inviato speciale del quotidiano La Stampa - tenta, con l’abilità di reporter e la sensibilità di uomo, di rispondere a queste domande con lo scopo non solo di capire, conoscere e raccontare la Storia ma anche e soprattutto di distruggere l’alta barriera di luoghi comuni e superficialità che si è eretta in Italia- in particolare- circa il modo di considerare queste partenze.
Di migranti stiamo parlando. Né di rifugiati né di profughi tantomeno di clandestini.
"Non dovremmo usare più, per loro, la parola clandestini: inganna, svia, dovremmo restaurare l’antica cara nostra parola di migranti." (Quirico p. 30).
I migranti sono uomini, donne, bambini che compiono l’atto più antico e profondo della storia dell’umanità: migrare, spostarsi, viaggiare. Per avere salva la vita, per un futuro migliore.
"Gli uomini possiedono piedi e non radici, anzi come ha scritto il grande paleontologo André Leroi-Gourhan: «Eravamo disposti ad ammettere qualsiasi cosa, ma non di essere cominciati dai piedi», e prosegue affermando che la storia dell’umanità inizia con i piedi." (M. Aime, Contro il razzismo, Torino, 2016, p. 47).
Domenico Quirico, abbandona la sua tiepida casa italiana e parte per la Tunisia. Si reca presso il porto di Zarzis - il porto dei trafficanti di uomini - e si immedesima nella gente che sta per partire, ossia coloro che si accingono a diventare migranti.
Quirico - ora giornalista professionista, ora uomo - percorre gli stessi passi di quella gente. Paga la stessa cifra, si appropinqua presso lo stesso porto, sale sullo stesso "barcone" – un peschereccio vecchio e malandato, che potrebbe supportare il peso di non più di trenta persone, e ne traghetta almeno cento. Patisce le loro stesse angosce, paure, preoccupazioni: "arriveremo vivi? È lontana Lampedusa? Come affronteremo un naufragio?" ma, pur tuttavia, non viene guardato allo stesso modo. Sia i passeur sia i migranti lo guardano con sguardo sorpreso e interrogativo: "Chi te lo fa fare ad andare volontariamente in un luogo da cui tutti scappano, e a vivere momenti di cui tutti vorrebbero dimenticare?"
I passeur sono i traghettatori di anime, i Caronte del Nuovo Millennio. Perché di trasporto di persone via imbarcazione, e di inferno si sta parlando.

Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: "Guai a voi, anime prave! 

Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva

ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo. 

E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti".
Ma poi che vide ch’io non mi partiva, 

disse: "Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti".



Lo sguardo e le parole che la gente di Zarzis rivolge a Quirico sono esattamente le stesse che Caronte rivolge a Dante quando - chiamandolo anima viva- chiede cosa fa e lo esorta ad allontanarsi da "cotesti che son morti". E Quirico, in quel contesto, altro non è che anima viva.
Quirico salpa nel cuore della notte - insieme a molti altri uomini e donne - da Zarzis. Il viaggio si è mostrato come previsto rischioso: motore guasto - riparato almeno quattro volte - e sovraffollamento.
Durante il tragitto, Domenico giornalista tenta di intavolare conversazioni e di porre qualche domanda ai suoi compagni accanto. Ma Domenico uomo, percepisce un inverosimile silenzio e intuisce che non è il momento di parlare.
Ad un tratto il motore cede e il sovraffollamento prende il sopravvento. L’imbarcazione affonda. Uomini donne bambini e Domenico in mare. Urla, pianti, disperazione. Sopraggiunge la Guardia Costiera, salva quella gente, e la conduce a Lampedusa, presso il campo profughi. Il viaggio di Quirico era finito, quello dei migranti era appena all’inizio.
"La fuga è un atto liberatorio. Un allontanamento da una condizione o da un luogo divenuti insostenibili; un gesto di rottura col presente, il rifiuto della sua immanente necessità." Così Carlo Bordoni, scrittore italiano e collaboratore del Corriere della Sera, riassume le parole di Pierre Zaoui- studioso francese di filosofia contemporanea - espresse nel testo L’arte di essere felici (Milano, 2016).
Infatti è proprio questo il motivo per cui «popoli interi hanno ripreso, braccati dalla disperazione e dalla speranza, ad attraversare il mare» (Quirico, p. 53). I migranti del Nuovo Millennio sono persone che scappano, fuggono- più che partire- da guerre, lotte civili, politiche autoritarie e aggressive, morte. Non partire significa morte certa, fisica e spirituale. Partire significa rischiare- forse - di morire. E quel forse diviene ragione di vita, speranza; "la speranza che rende leggeri e cancella la paura e qualche volta oscura anche la ragione."(Quirico, p. 22).
Si fugge per istinto di sopravvivenza, per amore della vita. Si fugge non per se stessi, ma per i propri figli. Si fugge per un’idea di futuro. Si fugge per una terribile sacra pazienza di vivere (Quirico, p. 58). Si fugge per denunciare all’Occidente costa sta accadendo al di là del Mediterraneo. Si parla di fuga, non di codardia. Codardia è ben altro.
Coloro che fuggono sono persone umili, semplici, innocenti. Persone che hanno sempre tentato di condurre una vita dignitosa nei loro paesi; persone intrappolate nella ragnatela del potere e della violenza. Persone come noi, noi che invece viviamo nelle nostre tiepide case.
E il Mediterraneo cosa rappresenta?
Per la Storia, la "grande cerniera di cui l’avventura umana ha fatto il suo ambito prediletto, nord contro sud, est contro ovest, Oriente contro Occidente, l’Islam all’assalto della Cristianità." (Quirico, p. 49).  Per Papa Francesco, "un cimitero".
Il Mediterraneo non è solo un luogo geografico, ma anche e soprattutto un luogo storico, sociale e politico.
Domenico Quirico affronta il tema della migrazione, nucleo concettuale del giornalismo internazionale.
Infatti, come afferma Jean-Paul Marthoz nel manuale Journalisme International (Bruxelles, 2012), i conflitti interculturali e le migrazioni costituiscono "il cuore dell’attualità internazionale".
Le migrazioni sono, per definizione, un soggetto globale, perché questi movimenti simbolizzano l’interconnessione del mondo.
Francesca Caporello

Domenico Quirico
Esodo. Storia del Nuovo Millennio
Neri Pozza, Milano, 2016
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23 giugno 2017

Tra rivoluzioni e continuità


Il saggio di Balbi e Magaudda cerca di rispondere a un quesito preciso: “ci troviamo nel pieno della cosiddetta rivoluzione digitale, ma è vero o c’è una continuità fra l’epoca dell’analogico e il digitale?”. In questo testo è possibile trovare la risposta attraverso la storia socio-culturale dei media digitali e dei diversi elementi che hanno portato la nascita di questa rivoluzione digitale. Gli autori descrivono la storia dei media digitali dalla prima metà del Novecento ai giorni nostri, parlando anche di alcuni eventi significativi della fine dell’Ottocento. Sono state analizzate anche le questioni politiche e culturali di diversi Paesi, perché la digitalizzazione non è globale, al contrario di quello che si pensa quotidianamente. I due autori soffermano sulla storia del computer, di internet, del telefono cellulare e sulla digitalizzazione dei settori più importanti dell’industria culturale: la musica, il cinema, la radio, la televisione, la fotografia e la stampa.
Nella storia dei media digitale sono molto importanti le direttive politiche, gli investimenti e le mentalità delle grandi aziende, le idee e le forme tecnologiche nelle loro fasi iniziali, si può affermare che le culture dei diversi popoli e le pratiche d’uso dei dispositivi hanno reso possibile questa rivoluzione digitale.
È possibile individuare tre tematiche centrali all’interno di tutti i capitoli del libro. La prima è capire qual è stato il ruolo dei governi nazionali e delle istituzioni internazionali nel favorire, limitare o guidare lo sviluppo delle tecnologie e dei media digitali, importante è la descrizione del governo cinese. Le strategie di business e di marketing delle grandi aziende si possono inserire all’interno di questa prima parte, perché hanno cercato di imporre i propri prodotti all’interno della società. Un secondo elemento importante è la questione culturale e gli studi dei media. Attraverso questi è possibile individuare come i media si sono sviluppati e come sono diventati essenziali per la società contemporanea. L’ultimo approccio è quello degli studi scientifici e tecnologici, ossia comprendere come i processi d’innovazione e il ruolo dei diversi gruppi sociali hanno influenzato lo sviluppo della rivoluzione digitale.
Nelle conclusioni vengono sfatati alcuni miti sui media digitali. La digitalizzazione viene considerata come un processo globale e uniforme in tutto il mondo, cosa non vera perché molti paesi in via di sviluppo sono ancora arretrati tecnologicamente. Un altro mito è quello che l’utente dall’essere passivo sia diventato superattivo, ma in realtà chi partecipa attivamente è solo una piccola parte della popolazione di internet.
Un tema molto importante è quello che riguarda la stampa: dall’avvento delle testate online i giornali sono in pericoli. È appurato che in Occidente le vendite dei giornali cartacei sono diminuite e sono aumentate i quotidiani online, ma allo stesso tempo in Cina e in altri paesi sono in crescita. I due tipi di giornali posso convivere e completarsi a vicenda.
È importante capire che il processo di digitalizzazione e i media digitale devono essere considerati come parti di una tessitura organica, in cui le cornici culturali, le tecnologie, i vecchi media analogici e i nuovi dispositivi digitali sono connessi tra di loro e hanno creato la società digitale contemporanea.
Gli autori affermano che ci troviamo in una “rivoluzione conservativa”, una rivoluzione che da un lato è legata agli sviluppi tecnologici e dall’altro mantiene elementi del passato analogico.
Beatrice Frugone
                                                                                                                           

G. Balbi - P. Magaudda
Storia dei media digitali. Rivoluzioni e continuità
Laterza, Roma-Bari, 2014.

22 giugno 2017

Giornalisti in Cina



Oggi non abbiamo alcuna difficoltà a definire la figura del giornalista, riusciamo con facilità a mettere a fuoco il suo ruolo all’interno del processo di nascita, vita e morte di una notizia. Tutto questo se consideriamo la società in cui viviamo o al massimo i paesi occidentali. Che cosa succederebbe se provassimo a spingerci un po’ oltre? Sapremmo parlare con la stessa sicurezza dei giornalisti cinesi e del tipo di lavoro da loro svolto? Se la risposta è no, la lettura di Zhongguo Jizhe. Giornalisti cinesi: linguaggio e identità professionale dissiperà ogni nostro dubbio. Emma Lupano inserisce in questo volume il frutto di otto anni (2008-2015) di ricerca diretta nel campo dei media cinesi, intrapresa nell’ambito del XXIII ciclo di dottorato in Civiltà, Culture e Società dell’Asia e dell’Africa all’Università La Sapienza di Roma. 
Il materiale raccolto dall’autrice è di considerevole portata, ma è stato organizzato in maniera tale da permettere una lettura scorrevole anche a chi si approccia per la prima volta al mondo dell’informazione cinese. È presente una contestualizzazione costante, dove è spiegato innanzitutto che, dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, in Cina è avvenuta una riforma nel sistema dei media e i giornalisti hanno potuto avvicinarsi a tematiche nuove. I freelance, chiamati in cinese “liberi collaboratori editoriali”, hanno avuto un ruolo fondamentale durante questo passaggio ed è proprio su di loro che si concentrano gli studi racchiusi nel volume.
I testi sulla figura del giornalista freelance scarseggiano in Cina e per questo motivo l’autrice ha dovuto intervistare alcune persone appartenenti al mondo dell’informazione per realizzare la sua ricerca. Le interviste si sono svolte in due momenti diversi, tra il 2008 e il 2009 e tra il 2014 e il 2015 e gli intervistati sono una ventina di giornalisti di nazionalità cinese (indicati solo con le loro iniziali, per motivi di privacy). Sono persone che hanno un’esperienza lavorativa di almeno tre anni, o come freelance o presso una testata e sono stati scelti cercando di rappresentare la più ampia varietà possibile rispetto a genere, età, posizione geografica, livello di carriera. Il corpus delle interviste è costituito da più di quaranta ore di dialoghi registrati ed è stato trascritto e suddiviso in brani. Stralci di questi sono stati poi inseriti nei sei capitoli, in ordine cronologico e in base alla tematica.
Ogni capitolo è aperto da un saggio introduttivo, per permettere di comprendere il contesto di riferimento relativo all’argomento trattato. Il primo capitolo parla della divisione interna dei media cinesi, esistono infatti testate istituzionali e testate commerciali; il secondo mostra come i giornalisti cinesi stiano fronteggiando la crisi della carta stampata e il conseguente passaggio al digitale. Nel terzo e nel quarto capitolo si analizzano gli aspetti pratici della professione e le idee che guidano chi lavora nell’ambiente. Il quinto fa invece luce sul sistema di propaganda che controlla i media, argomento ripreso anche nel sesto e ultimo capitolo, dove gli intervistati parlano della loro effettiva possibilità di esprimersi liberamente e delle loro ambizioni professionali.
Scorrendo le dichiarazioni rilasciate dai giornalisti cinesi, si ritrovano alcuni Leitmotiv: l’avvento dei social media, la volontà di migliorare il paese, l’importanza di sapersi autocensurare e di esprimersi in modo tale da poter trasmettere le proprie idee senza essere ostacolati dal governo.
L’intero testo si presta inoltre a un livello di lettura più approfondito, adatto a colore che conoscono la lingua cinese. Infatti, ogni intervista è riportata anche nella sua trascrizione in ideogrammi e l’autrice realizza una puntuale analisi linguistica, evidenziando all’inizio di ogni capitolo quali sono le espressioni ricorrenti utilizzate dagli intervistati, non solo quando scrivono i lori pezzi ma anche quando parlano del loro lavoro. 
Senza dubbio la ricerca di Emma Lupano suggerisce implicitamente al lettore numerosi spunti di confronto con la situazione occidentale. I nostri media spesso dimenticano il grande valore della libertà di espressione e arrivano ad abusarne, pubblicando anche articoli e notizie non del tutto veritieri, con l’unico scopo di attirare click, visualizzazioni e guadagni.
Elena Rita Tornabene

Emma Lupano
Zhongguo Jizhe. Giornalisti cinesi: linguaggio e identità professionale
Unicopli, Milano, 2016, pp. 140.

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21 giugno 2017

Salvare i media è possibile

L’industria dei media è intrinsecamente diversa dalle altre aziende: obiettivo primario è la diffusione dell’informazione. Il suo compito è l’offerta di un bene pubblico. Questo, a mio avviso, è il punto di partenza di Julia Cagé e del suo tentativo di rivoluzionare il mondo editoriale.
L’autrice più volte ricorda ai lettori la vera missione del giornalismo, quasi come se lei stessa sentisse il bisogno di farlo, di insistere su questo punto, così spesso dimenticato.
Siamo nell’era delle contraddizioni. Da una parte l’esplosione dei produttori di informazione moltiplica le notizie in modo esponenziale, dall’altra la profonda crisi del settore ne muta profondamente le caratteristiche. L’autrice la chiama age of giants, in riferimento ai grandi colossi che dominano sempre più inevitabilmente la scena mondiale dell’editoria. Ma questi giganti comportano anche un basso livello della produzione finale, in una contrapposizione quasi fisica tra qualità e quantità. L’informazione è sempre più standardizzata, le agenzie di stampa hanno il compito di ridurre i costi di produzione delle notizie. E l’avvento del digitale non ha portato a un adeguato impiego delle nuove possibilità tecnologiche.
Proprio il digitale, che in un primo momento sembrava l’ancora di salvezza di questa nave in tempesta, oggi dimostra la sua inconsistenza e la sua incapacità a risollevare le sorti del giornalismo. I lettori online sono aumentati, si dice. Ma con precise analisi economiche, Cagé dimostra come le entrate derivanti dall’online non siano in grado di compensare le perdite del cartaceo. E, dato ancora più sconvolgente, questi lettori online non sono nemmeno così tanti. Occorre infatti distinguere tra accessi unici e lettori mensili. Per Le Monde i primi sono 8 milioni, che si riducono a 1,5 milioni di accessi al mese. Non va meglio per il New York Times, che passa dai 54 milioni di utenti unici a 7 milioni di lettori mensili. Se confrontati con le vendite dei quotidiani cartacei moltiplicate per i valori di diffusione, i lettori analogici quasi equivalgono quelli digitali. Per non parlare dei tempi di lettura: per un giornale web non si superano i 5 minuti di media.
E tutto questo ha ripercussioni sul valore della pubblicità, che appare sempre meno in grado di tenere in vita i mezzi di informazione.
Julia Cagé sfata un altro mito relativo alla stampa, quello dei sussidi statali. Attraverso dati e comparazioni tra paesi e tra settori dell’economia, l’autrice dimostra l’inadeguatezza degli aiuti statali alla stampa, e, in riferimento alla Francia – ma con suggestioni estendibili ad altri paesi – afferma la necessità di ripensare il sistema di intervento statale, in modo che sia proporzionale al volume d’affari e alla diffusione del giornale e che valga solo per testate politiche o di informazione generale, che producano contenuti originali.
Se l’industria dei media è sul baratro, l’unica soluzione sembra essere l’affidarsi a miliardari che investano milioni di dollari nel settore. Il fondatore di E-bay, il proprietario dei Red Sox, il padre di Amazon, sono solo alcuni dei ricchi donatori che hanno salvato imprese editoriali dal fallimento (e non imprese qualunque, si parla di Boston Globe e Washington Post). Ma questo rende fragile il funzionamento delle nostre democrazie. Se anche le intenzioni di questi facoltosi fossero lodevoli, un giorno verranno sostituiti e nessuno può garantire che i loro successori non utilizzeranno le loro aziende per interessi privati.
Dopo qualsiasi pars destruens che si rispetti, anche in Salvare i media arriva la pars costruens. L’autrice propone un nuovo modello di gestione dei media, una sorta di associazionismo fondato sulla partecipazione al capitale e sulla condivisione del potere. Dopo un’analisi economico-giuridica sulle diverse modalità di gestione, dalla società per azioni alle fondazioni, viene proposto in dettaglio il nuovo, rivoluzionario, modello di associazione non profit per le aziende editoriali. Tale modello ha i vantaggi della fondazione, senza averne i rischi di accentramento del potere. Permette infatti di favorire la dotazione di capitali (attraverso misure fiscali vantaggiose) e di mettere in sicurezza i capitali investiti e, nello stesso tempo, disciplina il potere decisionale, dando nuovo ruolo ad associazioni di lettori e dipendenti. In proporzione, inoltre, varrebbero di più i diritti di voto dei piccoli azionisti.
In conclusione, si può dire che il modello proposto riesca veramente a offrire una luce in fondo al tunnel, grazie alla combinazione di capitalismo (vantaggi economici per chi investe) e democrazia (controllo del potere e divisione dello stesso), rilanciando inoltre un nuovo ruolo, sempre più attivo, per dipendenti e lettori, in un tentativo di riavvicinamento tra il pubblico e la carta stampata, che appare sempre più urgente nella società contemporanea, vittima della crisi che ha colpito il mondo editoriale e di conseguenza il pieno funzionamento della democrazia.
Virginia Carnacina

Julia Cagé
Salvare i media. Capitalismo, crowdfunding e democrazia
Bompiani, Milano, 2016
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18 giugno 2017

In libreria

Vittorio Meloni
Il crepuscolo dei media
Informazione, tecnologia e mercato

Laterza, Roma-Bari, 2017, pp. 144.

Descrizione
Trasformazioni rapide e radicali stanno rivoluzionando il mondo dei media. Nuovi protagonisti digitali assumono la leadership dell’informazione, della comunicazione, della pubblicità, influenzando profondamente le nostre scelte in fatto di consumi, valori, consenso. In un breve saggio, documentato e lucido, le tendenze in atto nel mercato dei media, lo stato di salute dell’editoria, il prevedibile futuro dell’industria dell’informazione.
Link all'Indice
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14 giugno 2017

Cronache di guerra





Trentadue fotografie in bianco e nero aprono il libro di Giovanni Porzio. Raccontano di guerre, di uomini disperati, di donne che pregano, di feriti e di morti. Immagini crude che catturano pezzi di realtà così come il giornalista l’ha vista. Le foto colpiscono, ma anche il racconto, quasi come in un diario, il racconto prosegue incalzante, non risparmiando nulla. L’autore si ritrova a fare reportage nei conflitti che hanno segnato la storia dell’uomo. Somalia, Ruanda, Zaire, Kosovo, Palestina, Afghanistan, Iraq. Guerre sanguinose e lontane dalla “nostra” Europa e che spesso sono state dimenticate dal resto del mondo. È una denuncia ai paesi Occidentali, che quando non sono direttamente coinvolti in un conflitto, non intervengono repentinamente ma si curano di nascondere i propri interessi economici, stando ben attenti alla loro immagine nei confronti dell’opinione pubblica. Il comportamento delle nazioni si riflette in quello dell’informazione. I reporter vengono mandati solo dopo lo scoppio dei conflitti e quando arrivano sul posto, fanno il conteggi di morti, feriti e armi, per poi andarsene. Il giornalista è così sballottato da una zona di guerra all’altra, strumentalizzato dalle forze politiche. Porzio cerca di scoprire e di andare oltre la facciata e le informazioni povere che gli arrivano dalle fonti istituzionalizzate. La sua è anche una denuncia al lavoro del giornalista che lo vede impegnato a fare conteggi di vittime e carnefici, spostandosi da una guerra all’altra. Quando Porzio arriva in Ruanda le stragi sono già finite. I massacri a colpi di machete si possono raccontare solo con i cadaveri nascosti nel bosco o nelle fosse comuni. A volte si riesce a trovare qualche testimone e i loro racconti non fanno che confermare la crudeltà delle morti di quel popolo dimenticato dal resto del mondo. Anche se le nazioni occidentali si fanno promotrici dei diritti umani e tutelartici delle libertà di ogni persona nel mondo, nei casi come i genocidi e i conflitti nei Paesi africani e del Medioriente (ma anche per casi molto vicini come il Kosovo), la popolazione viene dimenticata facilmente, riducendo il tutto a scontri tribali, brutali e privi di senso.
In questo libro si parla del lavoro di reporter e delle difficoltà che si trovano ad affrontare una volta arrivati sul posto. Per trovare informazioni e scoop bisogna sapersi destreggiare tra pratiche burocratiche molto severe e segreti militari che non ammettono il trapelamento di alcun tipo di notizia. Vi sono rigide regole a cui il giornalista deve attenersi se non vuole incorrere a gravi conseguenze o esporsi ai rischi che un’area di guerra può avere. A Baghdad, Porzio e alcuni suoi colleghi, sono stati catturati dai soldati di Saddam mentre tentavano di andare sul confine per raccogliere notizie di prima mano. Furono rilasciati tutti, ma i giorni di prigionia misero a dura prova il loro spirito di adattamento.
Con l’innovazione tecnologica ci sono stati grandi cambiamenti nel mestiere del reporter. Grazie al telefono satellitare, inaugurato dalla Cnn durante la guerra del Golfo, le informazioni possono essere inviate alla redazione in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. La guerra quindi si è trasformata in un evento in diretta sulle televisioni di tutto il mondo. Chi controlla le notizie provenienti dai conflitti “lontani” ha una grande responsabilità nei confronti dell’opinione pubblica.
La propaganda per fini politici e militari è da sempre stata usata, fin dai tempi di Carlo Magno e Giulio Cesare e ora con internet e smartphone alla portata di tutti, la gestione delle informazioni è diventata una questione delicata. Ognuno è sommerso da informazioni provenienti da tutto il mondo e la verifica delle fonti non è sempre accurata come dovrebbe essere. Spesso sono gli stessi governi che attuano un rigido controllo sulle informazioni che riguardano la guerra. Le fonti limitate e sempre più istituzionalizzate portano a notizie povere di contenuto e spessore, lasciando a chi detiene il potere il pieno utilizzo delle informazioni per controllare l’opinione pubblica. E per il reporter cercare di fornire un quadro più completo e approfondito del conflitto diventa un lavoro molto difficile. Porzio ci mette di fronte alla censura e alla controinformazione che gli stessi stati attuano sulle proprie testate. Un aspetto che tendiamo a dimenticare. In Italia, prima della guerra del Golfo, la Rai aveva proibito la messa in onda dell’intervista di Saddam ottenuta da Bruno Vespa.
Tra interessi economici, politici, operazioni militari, attacchi dei nemici e rapimenti, il reporter deve riuscire a raccogliere informazione per farne notizie da inviare alla redazione. Deve rispettare le rigide regole dello stato in cui si trova, altrimenti c’è l’espulsione.
Ad ogni capitolo si è proiettati in un nuovo paese, un nuovo conflitto senza preavviso e con un ritmo incalzante. Porzio ti catapulta in realtà passate, ti descrive ciò che ha vissuto, attraverso i suoi occhi e la sua mente. Non vengono risparmiate immagini crude o pensieri scomodi. Come un diario ci si addentra nel raccontare ciò che si è visto nei telegiornali, retroscena celati, testimonianze di uomini e donne che hanno visto la guerra e le sue atrocità, ma anche di attentatori suicidi e della loro storia ricostruita a ritroso.
Porzio ci lascia con un’immagine di un mondo indifferente. Ancora oggi ci sono conflitti, genocidi da 200.000 morti e centinaia di migliaia di rifugiati di cui nessuno parla. Guerre snobbate dai media perché non rientrano negli interessi economici e strategici dell’Occidente. Scontri etichettati come “lotte tribali” o “colpi di stato falliti” senza indagare su ciò che è accaduto davvero, sulle cause o sulle soluzioni. Un giornalismo questo, rivolto alla guerra, senza considerare la pace ma che insegue gli interessi di chi detiene il potere e le risorse economiche.
Alice Mangolini





Giovanni Porzio
Cronache dalle terre di nessuno. Sedici anni da inviato sulla linea del fuoco. Guerre, informazione, propaganda
Milanostampa, Milano, 2007.
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10 giugno 2017

Rober Fisk, il tafano inglese

Robert Fisk è uno dei più autorevoli giornalisti in tema di Medioriente. Vive a Beirut, conosce perfettamente l'arabo e la società mussulmana, ma soprattutto ha passato gli ultimi trent'anni sui principali fronti dell'Asia Minore – prima per il Times e poi per l'Indipendent – ed è stato l'unico giornalista occidentale a intervistare Osama Bin Laden, per ben tre volte.
Nelle sue Cronache mediorientali l'autore regala uno spaccato obiettivo e completo della storia di questa regione negli ultimi cento anni almeno. Una storia nella quale l'Occidente ha avuto un peso consistente e dalla quale ne esce con un ritratto tutt'altro che lusinghiero. Egli, pugnace e approfittatore, pare una sorta di amante per il Medioriente, spirituale e orgogliosa: le promette più volte libertà e democrazia, ma sono vane speranze. Sì, perché lui ha ben altri fini, più materiali. Caso emblematico è la prima guerra del Golfo quando l'immensa coalizione occidentale andò in Iraq nel 1990 per difendere l'indipendenza del Kuwait e liberare il popolo iracheno dal suo dittatore. Peccato che non si era mai mosso un dito per il problema palestinese, risolto sulla carta già dal 1967 dalla risoluzione 242 dell'Onu, e che aveva privato centinaia di famiglie arabe della loro casa, del loro paese, della loro storia a vantaggio del sogno sionista. In realtà il vero obiettivo non era la tutela del diritto internazionale, ma quello di mantenere immutato il valore monetario del petrolio. E qual è stato il frutto di questo di questa campagna per il Bene e per la Pace? Ottocento tonnellate di esplosivo (più di quelle usate nella seconda guerra mondiale) utilizzate sulle città irachene, senza discriminazione tra obiettivi militari e civili. La distruzione delle infrastrutture del paese e quindi la sua messa in ginocchio. Ma la cosa peggiore è forse il mezzo milione di bambini morti di cancro negli anni seguenti per via dei bossoli e i brandelli di bombe occidentali all'uranio impoverito, con i quali hanno giocato attratti dalla loro lucentezza. Bambini che non hanno potuto neppure godere di una cura adeguata per via delle sanzioni e l'embargo dei farmaci varati dall'Onu su richiesta degli Stati Uniti.
Ma questa è solo una delle decine di cicatrici ancora sanguinanti che tingono qua e là il Medioriente. Fatti passati completamente in sordina o chiamati al massimo semplici fatalità, “effetti collaterali”, come fossero cataclismi naturali che non si potevano evitare. E Fisk è ben conscio del fatto che ancora fanno male all'Umma (la comunità mussulmana), che dovevano avere ineluttabili conseguenze drammatiche nei nostri paesi. Il motivo è presto detto: ci siamo fatti odiare.
Il merito più grande dell'autore è forse quello di dire ai suoi lettori: “Aprite gli occhi! Non esistono nella realtà i buoni e i cattivi, come nelle favole”. Quando andiamo a fare la guerra per armi di distruzione di massa inesistenti, uccidendo migliaia di civili che non hanno una colpa al mondo, non siamo “buoni”. Quando ce ne infischiamo delle ruspe israeliane da noi finanziate che radono al suolo le case palestinesi, con all'interno bambini e paraplegici, non siamo “buoni”. Quando lasciamo che il dittatore di turno violi per decenni ogni minimo diritto umano nelle camere di tortura perché ci fa comodo, non siamo “buoni”. Anche i terroristi – termine fra l'altro capzioso, che tronca fin dal principio qualsiasi forma di dialogo ed esame critico perché tocca nel corde della paura – sono persone come tutti noi e non, come spesso sono dipinti, “bestie” composte di pura malvagità viscerale, semplicemente “cattivi”. Se fanno qualcosa, soprattutto un gesto estremo come quelli che ormai siamo abituati a vedere, esiste un motivo alla base, per quanto sia inaccettabile il risultato, un motivo che noi gli abbiamo servito su un piatto d'argento. Allora la regola aurea secondo Fisk, quella che ci permette di vedere al di là della coltre illusoria che governi e media ci ondeggiano davanti agli occhi tutti i giorni, è chiedersi perché. Solo così ci si può liberare dallo spauracchio del terrore che non ci fa pensare razionalmente. Ma questo ovviamente non lo possiamo fare. A ogni nuovo attentato si spendono ore di trasmissione e fiumi d'inchiostro per parlare di tanti elementi marginali, girando torno torno al “perché” senza mai arrivarci. Farlo significherebbe chiedersi come mai le nostre linde bandiere sono imbrattate da così tante macchie di sangue innocente, bisognerebbe vedere in faccia la realtà, cioè che noi abbiamo fatto di peggio.
Il lavoro che svolge Fisk è certosino. Non espone semplicemente i fatti nudi e crudi, ma li basa su prove. Porta al banco della giuria articoli, documenti, interviste, estratti di dibattiti politici, rapporti della Croce Rossa Internazionale o dell'Unicef. Una enorme massa di materiale che non lascia spazio a personali giudizi. Basta farle parlare perché dicano la verità. Il libro quindi è pesante (anche moralmente), ma pure addolcito dalla penna di Fisk. Alleggerisce la cronaca quasi romanzandola. Conduce per mano il lettore, come Virgilio fa con Dante, fra i soldati iraniani gassati da quelli iracheni nella prima (quella vera) guerra del Golfo, oppure sulla uterina carlinga dell'Apache statunitense dalla quale la guerra pare un campo del Risiko e ci si sente un dio, per poi passare dalle 
stelle alle stalle, cioè a terra direttamente sotto il fuoco “nemico”, dove davanti alla paura della morte niente funziona più come prima e tutto perde di senso.
Appare quindi scontata, se non addirittura un dovere morale, la lettura di questa opera, nonostante la fatica e il dolore e la vergogna che attanagliano il lettore di pagina in pagina. Questo per lo meno se si vuole riuscire a collocare le singole notizie con cui i notiziari ci bombardano nel loro reale contesto. Per giudicarle in modo obiettivo e non di pancia. Senza conoscere i passi che hanno portato a quel punto nella strada della Storia, non si può che dare giudizi scorretti e persino razzisti perché non li si può capire nella loro essenza. Se non sappiamo, le nostre parole si possono facilmente tramutare in ferri che sciolgo le carni di nuovo, corde che stringono i colli di nuovo, bombe che dilaniano i corpi di nuovo, gettando fango sugli innocenti.

Matteo Blasigh



Robert Fisk
Cronache mediorientali. Il grande inviato di guerra inglese
racconta cent'anni di invasioni, tragedie e tradimenti
Il Saggiatore, Milano, 2006, 1180 pp.
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09 giugno 2017

Inno alla cultura sportiva




Roma 1881. La creazione della Rivista degli sports nazionali sdogana e rende di uso comune la parola “sport”.
Sempre a Roma, centotrentacinque anni dopo, la disciplina e la stampa sportiva sono celebrate con la pubblicazione del libro di Mario Arceri Giornalismo e Comunicazione dello Sport.
In quest’opera, l’autore, giornalista che ha assistito a sette Olimpiadi, cinque Mondiali, diciannove Europei e quasi tutte le finali delle Coppe Europee, traccia la storia dell’attività atletica, ponendo particolare attenzione al suo valore sociale e alla sua influenza sulla carta stampata.
Come i poeti classici, cantori delle gesta degli atleti di Olimpia e creatori di miti, il cronista sportivo d’oggi narra imprese sportive e dà vita a nuovi eroi.
Proprio nel mito del campione, figura da imitare per requisiti tecnici, atletici e (a volte) anche morali, Arceri individua uno degli ideali positivi che lo sport genera. Non solo. Il merito più grande da attribuire alla pratica sportiva è, senz’altro, la sua capacità di favorire la coesione sociale. Lo scrittore ne scorge un esempio pratico nelle cerimonie di apertura e di chiusura dei Giochi Olimpici, dove gli atleti di tutto il mondo si riuniscono in una sola folla, infrangendo barriere ideologiche, religiose, politiche.
Dalla specificazione dei valori dello sport come elementi positivi per la comunicazione, il giornalista passa poi alla narrazione della storia della stampa sportiva italiana e dei suoi tre quotidiani: La Gazzetta dello Sport, Il Corriere Dello Sport – Stadio e Tuttosport.
Testate che, con il loro lessico immediato, hanno influenzato il linguaggio comune.
Grazie al contributo di Mario Arceri, lo sport, spesso considerato un settore superficiale, acquista dignità e valore. La sua opera, un manuale da 386 pagine, diviene un inno alla cultura sportiva, intesa come approfondimento storico, sociale e geopolitico. Una conoscenza approfondita che merita di essere coltivata continuamente, specie per chi la storia dello sport desidera raccontarla, ponendosi come mediatore nei confronti del lettore.
“Il giornalismo non può prescindere dalla cultura - scrive Arceri, precisando che - non è solo la conoscenza e il rispetto della grammatica e della sintassi nei pezzi o negli interventi in voce, ma studio e approfondimento di quanto si è chiamati a raccontare”.
Il suo libro diventa così un inno alla cultura, non solo sportiva.
Passando dal particolare al generale, il giornalismo è profondamente indagato nella sua interezza.Con grande meticolosità viene analizzata la continua metamorfosi del giornalismo e del modo di fare informazione causata dalla multimedialità, in perenne sviluppo.
Con la scrittura scorrevole del cronista, Mario Arceri ci guida nell’esplorazione del suo libro, come in un viaggio, le cui tappe sono: giornalismo, sport, comunicazione, media e marketing.
L’appendice ci offre degli esempi pratici di scrittura e di impaginazione e specifica le funzioni dell’ufficio stampa. L’ultima “fermata”, di impronta giuridica, propone il Testo Unico dei Doveri del Giornalista, il Codice Media e Sport e il Decalogo del Giornalismo Sportivo.
Terminato questo viaggio percorso su pagine, il lettore si sentirà arricchito e desideroso di proseguire l’acculturamento personale. Una volontà fondamentale e necessaria per diventare giornalisti competenti e appassionati.

Chiara Gianni

 

 
Mario Arceri
Giornalismo e Comunicazione dello Sport
UniversItalia, Roma 2016, 386 pp.
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01 giugno 2017

In libreria

Disinformazione e manipolazione delle percezioni. 
Una nuova minaccia al sistema-paese
a cura di L. S. Germani
Eurilink, Roma, 2017, pp. 154.

Descrizione
Questo volume approfondisce il fenomeno della disinformazione come arma di lotta politica, militare e/o economica adoperata da Stati e attori nonstatuali, dedicando particolare attenzione all’uso delle nuove tecnologie informatiche e dei nuovi media nelle azioni disinformative. Nell’era del cyber-power, infatti, aumenta la vulnerabilità di governi, aziende, gruppi sociali e individui nei confronti della disinformazione: un’arma adoperata da Stati e attori non-statuali, spesso in maniera occulta, per raggiungere i propri scopi influenzando e sfruttando uno o più settori della società. La disinformazione mira a creare nel bersaglio una percezione falsa o distorta della realtà allo scopo di indurlo a prendere determinate decisioni che favoriscano gli interessi del “disinformatore”. Essa può anche essere finalizzata a indebolire le capacità cognitive e decisionali del bersaglio diffondendo notizie che generano in esso confusione e incertezza. Oggi la disinformazione non è più un’arma in esclusiva dotazione degli Stati e dei loro servizi d’intelligence: essa è ormai uno strumento alla portata di attori non-statuali sia leciti (partiti politici, aziende e società finanziarie, gruppi di interesse, organizzazioni non-governative) che illeciti (gruppi terroristici ed eversivi, organizzazioni criminali, “poteri occulti”, sette religiose estremiste). Questo è il primo libro pubblicato nel nostro Paese che analizza la disinformazione come minaccia alla sicurezza e alla competitività del sistema-Italia. Esso nasce dal convegno “Disinformazione e manipolazione delle percezioni: una nuova minaccia al sistema-Paese”, promosso nel 2015 dalla Link Campus University e dall’Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici. Il volume contiene, inoltre, un contributo del Dipartimento Informazioni per la Sicurezza (DIS) della Presidenza del Consiglio.

 
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