Di fronte a quel che accade ogni giorno attorno a noi, è urgente che ogni Persona prenda la parola ogni volta che ascolta parole razziste, in ogni luogo, pubblico e privato. Ogni Persona deve assumersi la responsabilità di dire con voce forte e chiara NO. Non è più il tempo del poi, è il tempo del subito, in questo istante devo saper replicare con determinazione ad ogni manifestazione di razzismo, ad ogni esibizione muscolare o verbale del disprezzo per la Persona. Non è più il tempo del "Perché proprio io? / sono solo parole di quattro scemi / ma che dovrei dire?". La nostra parola è urgente, ogni NO è urgente. Per non dover dire un giorno a noi stessi e ai nostri figli "io non avevo capito / credevo che fossero solo degli ignoranti / credevo che scherzassero / credevo che ..". Noi ne abbiamo tutta la responsabilità fin da ora e ogni silenzio è incoraggiamento all'avanzata del razzismo.
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25 febbraio 2017
E' giunto il tempo della responsabilità
Di fronte a quel che accade ogni giorno attorno a noi, è urgente che ogni Persona prenda la parola ogni volta che ascolta parole razziste, in ogni luogo, pubblico e privato. Ogni Persona deve assumersi la responsabilità di dire con voce forte e chiara NO. Non è più il tempo del poi, è il tempo del subito, in questo istante devo saper replicare con determinazione ad ogni manifestazione di razzismo, ad ogni esibizione muscolare o verbale del disprezzo per la Persona. Non è più il tempo del "Perché proprio io? / sono solo parole di quattro scemi / ma che dovrei dire?". La nostra parola è urgente, ogni NO è urgente. Per non dover dire un giorno a noi stessi e ai nostri figli "io non avevo capito / credevo che fossero solo degli ignoranti / credevo che scherzassero / credevo che ..". Noi ne abbiamo tutta la responsabilità fin da ora e ogni silenzio è incoraggiamento all'avanzata del razzismo.
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15 febbraio 2017
Alla ricerca del ghepardo che corre
Li chiamano “codici a barre bidimensionali”, utilizzati per memorizzare informazioni destinate a essere lette tramite smartphone o tablet. Sono i QR code. Impossibile non trovarli, sui manifesti per le strade, sui depliant, perfino sui libretti delle istruzioni. Sono ovunque. E basta inquadrare il codice con la fotocamera del telefono per accedere in un attimo ai contenuti online. Dalla carta al digitale. Certo, l’ultimo luogo dove ci si aspetterebbe di trovare i codici QR potrebbero essere i libri, dove il piacere di sfogliare le pagine, sentirne profumi e suoni, sembrano mantenere incontaminato un certo modo di vedere le cose. Prima ancora di leggere, è un modo di pensare e di vedere il mondo.
Nel 2015 Michele Mezza lancia la sfida con il libro Giornalismi nella rete, edito da Donzelli Editore.
Giornalismi nella rete non è soltanto un libro. È anche qualcosa di più: un progetto, un sito, un database. Le pagine del libro sono infatti accompagnate da una serie di QR code, attraverso i quali è possibile connettersi al sito giornalisminellarete.donzelli.it e seguire in tempo reale i dati, che continuano ad essere raccolti anche dopo la stesura del libro. Il perché di tutto questo è spiegato chiaramente da Mezza nelle pagine iniziali: “Scrivere un libro sul giornalismo oggi è come fotografare un ghepardo che corre”. La foto risulterà inevitabilmente sfocata, ma è proprio l’imprecisione e l’impalpabilità di quell’immagine a rendere la foto così realistica. E che dire ora che quel ghepardo inafferrabile si sta trasformando in vento?
Un libro che parla di giornalismo, dunque. Effettivamente l’argomento sembra sposarsi a meraviglia con il concetto del QR code: il giornale oggi non può pensare di reggersi soltanto sul supporto cartaceo e la rete amplia il quantitativo di informazioni accessibili. Si moltiplicano le edizioni online e altrettante redazioni native della rete. Ma se pochi anni fa giornalisti ed editori della carta stampata consideravano la “dematerializzazione” del prodotto editoriale come un’involuzione, oggi possiamo verificare come le edizioni online di un giornale diano nuovo respiro alla vendite.
Il titolo stesso del libro, con la sua doppia interpretazione, sottolinea il delicato momento per i giornalisti. Giornalismi nella rete può infatti riferirsi ai nuovi modi di fare giornalismo nati grazie al web, ma può anche riferirsi a quei giornalismi il cui destino prevede un cambiamento: giornalismi presi nella rete, catturati da un futuro ad alta velocità.
Fin dalle prime pagine del libro, l’autore focalizza la sua attenzione sui primi avvenimenti che aprirono le porte del futuro per il giornalismo. Nel 2013 arriva la notizia dell’acquisto del Washington Post da parte di Jeff Bezos, fondatore di Amazon. Il colosso dell’e-commerce ha a che vedere con l’idea di un giornale che persegua l’obiettivo ultimo di un rapporto stretto con il lettore. E ancora, nel 2015, il New York Times e il Guardian hanno annunciato la loro intesa con il colosso di Zuckerberg, Facebook. In sostanza, “si tratta di un accordo per cui i giornali cedono al social network le proprie notizie perché le distribuisca in tutto il mondo, a seconda dei profili personalizzati che ha ricavato dai suoi 1,5 miliardi di utenti”. Ciò che ci si può aspettare è un’unica grande edicola digitale che provvederà a proporci notizie da tutto il mondo in base alle nostre preferenze: succederà così che ognuno leggerà il proprio giornale personalizzato. Ai giornalisti spetta una delle sfide più importanti e complesse degli ultimi anni: capire che oggi più che mai la velocità è notizia e che quel ghepardo che corre, in un modo o nell’altro, va cavalcato. Per fare tutto questo, secondo Mezza, non basta trasportare il giornale cartaceo sul web o modificare l’interfaccia di un quotidiano già presente online. È opportuno, prima di tutto, pensare ad un nuovo modo di fare giornalismo, reimmaginarsi la propria professione. Significa pur sempre mettere in dubbio alcuni concetti fondanti del giornalismo, ma è l’unica via possibile: prima del restyling, è necessario un rethinking.
Un esempio su tutti: un dato essenziale nel procedimento di identificazione e definizione della notizia è la cosiddetta “regola delle 5W”. Qualsiasi notizia sul giornale risponde a precise domande. Sono infatti sempre presenti un who (chi?), un where (dove?), un when (quando?), un what (che cosa?) e un why (perché?). Solo negli ultimi anni i giornalisti vedono la comparsa di una nuova “W” nel processo di notiziabilità: oggi più che mai, la notizia deve rispondere anche all’interrogativa while (nel frattempo?). Siamo nel pieno del giornalismo real-time: il fatto non genera più la notizia, ma avviene in contemporanea con essa.
Se si lascia campo libero a Facebook, Google e altri colossi, permettendogli di assorbire al loro interno i frammenti di un giornalismo in continua detonazione, la rete darà luogo a nuove manipolazioni sociali. Ma proprio la rete deve essere il terreno di un conflitto vitale che riduca la predominanza dei monopoli e dia nuova linfa a uno sviluppo più trasparente. E i giornalisti sono chiamati ad essere i soldati di tale battaglia, in un’epoca in cui le armi si moltiplicano giorno dopo giorno.
Il sottotitolo scritto sulla copertina del libro di Michele Mezza esprime bene la mission del lavoro. Giornalismi nella rete è un libro per non essere sudditi di Facebook e Google, un “kit di sopravvivenza” per i giornalisti di oggi e uno starter kit per i giornalisti che verranno. L’autore ci indica con un dito quale potrebbe e dovrebbe essere il futuro del giornalismo, tenendo sempre e comunque gli occhi rivolti al nostro passato: nella lettura di una notizia, così come nella lettura di tutto ciò che ci circonda, il “durante” ha acquisito grande importanza, ma il “prima” rimane il requisito fondamentale. Solo così possiamo intuire e capire il futuro.
Fabio Liguori
Michele Mezza
Giornalismi nella rete. Per non essere sudditi di Facebook e Google
Donzelli, Roma, 2015.
Giornalismi nella rete non è soltanto un libro. È anche qualcosa di più: un progetto, un sito, un database. Le pagine del libro sono infatti accompagnate da una serie di QR code, attraverso i quali è possibile connettersi al sito giornalisminellarete.donzelli.it e seguire in tempo reale i dati, che continuano ad essere raccolti anche dopo la stesura del libro. Il perché di tutto questo è spiegato chiaramente da Mezza nelle pagine iniziali: “Scrivere un libro sul giornalismo oggi è come fotografare un ghepardo che corre”. La foto risulterà inevitabilmente sfocata, ma è proprio l’imprecisione e l’impalpabilità di quell’immagine a rendere la foto così realistica. E che dire ora che quel ghepardo inafferrabile si sta trasformando in vento?
Un libro che parla di giornalismo, dunque. Effettivamente l’argomento sembra sposarsi a meraviglia con il concetto del QR code: il giornale oggi non può pensare di reggersi soltanto sul supporto cartaceo e la rete amplia il quantitativo di informazioni accessibili. Si moltiplicano le edizioni online e altrettante redazioni native della rete. Ma se pochi anni fa giornalisti ed editori della carta stampata consideravano la “dematerializzazione” del prodotto editoriale come un’involuzione, oggi possiamo verificare come le edizioni online di un giornale diano nuovo respiro alla vendite.
Il titolo stesso del libro, con la sua doppia interpretazione, sottolinea il delicato momento per i giornalisti. Giornalismi nella rete può infatti riferirsi ai nuovi modi di fare giornalismo nati grazie al web, ma può anche riferirsi a quei giornalismi il cui destino prevede un cambiamento: giornalismi presi nella rete, catturati da un futuro ad alta velocità.
Fin dalle prime pagine del libro, l’autore focalizza la sua attenzione sui primi avvenimenti che aprirono le porte del futuro per il giornalismo. Nel 2013 arriva la notizia dell’acquisto del Washington Post da parte di Jeff Bezos, fondatore di Amazon. Il colosso dell’e-commerce ha a che vedere con l’idea di un giornale che persegua l’obiettivo ultimo di un rapporto stretto con il lettore. E ancora, nel 2015, il New York Times e il Guardian hanno annunciato la loro intesa con il colosso di Zuckerberg, Facebook. In sostanza, “si tratta di un accordo per cui i giornali cedono al social network le proprie notizie perché le distribuisca in tutto il mondo, a seconda dei profili personalizzati che ha ricavato dai suoi 1,5 miliardi di utenti”. Ciò che ci si può aspettare è un’unica grande edicola digitale che provvederà a proporci notizie da tutto il mondo in base alle nostre preferenze: succederà così che ognuno leggerà il proprio giornale personalizzato. Ai giornalisti spetta una delle sfide più importanti e complesse degli ultimi anni: capire che oggi più che mai la velocità è notizia e che quel ghepardo che corre, in un modo o nell’altro, va cavalcato. Per fare tutto questo, secondo Mezza, non basta trasportare il giornale cartaceo sul web o modificare l’interfaccia di un quotidiano già presente online. È opportuno, prima di tutto, pensare ad un nuovo modo di fare giornalismo, reimmaginarsi la propria professione. Significa pur sempre mettere in dubbio alcuni concetti fondanti del giornalismo, ma è l’unica via possibile: prima del restyling, è necessario un rethinking.
Un esempio su tutti: un dato essenziale nel procedimento di identificazione e definizione della notizia è la cosiddetta “regola delle 5W”. Qualsiasi notizia sul giornale risponde a precise domande. Sono infatti sempre presenti un who (chi?), un where (dove?), un when (quando?), un what (che cosa?) e un why (perché?). Solo negli ultimi anni i giornalisti vedono la comparsa di una nuova “W” nel processo di notiziabilità: oggi più che mai, la notizia deve rispondere anche all’interrogativa while (nel frattempo?). Siamo nel pieno del giornalismo real-time: il fatto non genera più la notizia, ma avviene in contemporanea con essa.
Se si lascia campo libero a Facebook, Google e altri colossi, permettendogli di assorbire al loro interno i frammenti di un giornalismo in continua detonazione, la rete darà luogo a nuove manipolazioni sociali. Ma proprio la rete deve essere il terreno di un conflitto vitale che riduca la predominanza dei monopoli e dia nuova linfa a uno sviluppo più trasparente. E i giornalisti sono chiamati ad essere i soldati di tale battaglia, in un’epoca in cui le armi si moltiplicano giorno dopo giorno.
Il sottotitolo scritto sulla copertina del libro di Michele Mezza esprime bene la mission del lavoro. Giornalismi nella rete è un libro per non essere sudditi di Facebook e Google, un “kit di sopravvivenza” per i giornalisti di oggi e uno starter kit per i giornalisti che verranno. L’autore ci indica con un dito quale potrebbe e dovrebbe essere il futuro del giornalismo, tenendo sempre e comunque gli occhi rivolti al nostro passato: nella lettura di una notizia, così come nella lettura di tutto ciò che ci circonda, il “durante” ha acquisito grande importanza, ma il “prima” rimane il requisito fondamentale. Solo così possiamo intuire e capire il futuro.
Fabio Liguori
Michele Mezza
Giornalismi nella rete. Per non essere sudditi di Facebook e Google
Donzelli, Roma, 2015.
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Recensione
13 febbraio 2017
Giornalismo 3D
Ho scelto di recensire questo libro di Marco Gasperetti dedicato agli scenari del Giornalismo 3D in quanto, già
dalla copertina molto esplicativa, mi sembrava interessante il possibile
confronto tra l'attività giornalistica “antica”, fatta con le macchine da
scrivere e pesanti cineprese, a quella attuale, molto dinamica e quasi
“tascabile”, a portata (forse) di tutti.
“La multimedialità e l'interattività hanno rivoluzionato profondamente
il giornalismo.
La metamorfosi tecnologica si è manifestata con grande impatto nei
giornali italiani alla fine degli anni Settanta e da allora non si è più
fermata.
Le principali tecniche di comunicazione sono state assimilate dal nuovo
paradigma e, insieme ai linguaggi multimediali, l'hanno arricchito. Oggi
possiamo considerare il giornalismo come un qualcosa di tridimensionale dove il
vecchio cronista, che utilizzava il linguaggio della scrittura, della
fotografia o del video, si è trasformato in un comunicatore che indistintamente
utilizza più codici” (Gasperetti, p. 5).
Per una più facile comprensione, potremmo dire che Marco Gasperetti ha
suddiviso il suo libro in tre parti.
Nella prima parte l'autore si sofferma a spiegare che cos'è la notizia e
cosa la rende tale.
Distingue la buona dalla cattiva notizia inserendo alcuni esempi e fa un
rapido riassunto sul come si debba scrivere una notizia partendo dalla regola
delle 5W fino ad arrivare a stilare una sorta di “Decalogo della chiarezza”:
dieci regole basilari per cercare di scrivere nel modo più comprensibile per
farsi capire dal maggior numero di
persone.
Il giornalista deve saper poi che ogni giornale è diverso e tratta
argomenti diversi, indi per cui, dovrà adattare un linguaggio più o meno
specifico a seconda di chi leggerà il giornale.
Prosegue classificando gli articoli in ben dodici categorie e pone
particolare attenzione all'aspetto dell'impaginazione e del lavoro grafico che
sta dietro ad una buona riuscita di un giornale.
La seconda parte del libro si concentra sull'importanza che ha la
comunicazione giornalistica.
L'insegnamento delle tecniche giornalistiche andrebbero insegnate già a
scuola. Si parla di una sostanza che permea le basi della società e dell'educazione.
Imparare a comunicare nel modo corretto, secondo l'autore, può essere un
fattore di crescita.
Nell'ultima parte del suo libro l'autore ci ricorda l'importanza per
un giornalista della deontologia professionale.
Dall'istituzione dell'Ordine (nei primi anni Settanta), sono state
redatte Carte dei doveri del giornalista e decaloghi di alto livello. Per
esempio quella sulla tutela dei minori o carte d'informazione a garanzia degli
utenti e degli operatori del Servizio pubblico radiotelevisivo.
La seconda parte di questa “rivoluzione tecnologica” in campo
giornalistico è avvenuta a partire dagli anni Novanta con l'affermazione
dell'età multimediale e con essa l'uso di testi, fotografie e video negli
articoli ipermediali.
La possibilità che abbiamo ora di essere interattivi, diventando allo
stesso tempo riceventi ed emittenti, sta aprendo nuovi scenari.
Ognuno infatti può realizzare un sito di comunicazione, un blog, o
"emanare" notizie sui social network ed essere "seguito" da
migliaia di persone (followers).
Tutto ciò impone di ampliare la conoscenza delle principali tecniche di
giornalismo ai non addetti ai lavori per trasmettere al meglio l'informazione e
la deontologia del buon comunicatore. Marco Gasperetti affronta questi temi e proietta il lettore verso un futuro prossimo:
quello del Giornalismo 4D. Si vedranno allora cittadini in grado di capire le dinamiche delle
notizie e loro stessi le racconteranno come cronisti "quasi
perfetti".
Greta
Repetti
Marco
Gasperetti,
Giornalismo
3D. La metamorfosi di una professione
ETS, Pisa, 2015.
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Recensione
12 febbraio 2017
Media e memoria
Gli strumenti del ricordo. I media e la memoria è un importante contributo ai Memory Studies, una disciplina contemporanea che si occupa delle problematiche che legano memoria e nuove tecnologie. Alice Cati, nel suo libro, non tratta solo delle questioni più recenti sul tema del ricordo, ma vuole dare al lettore una solida base di conoscenza degli studi sulla memoria. Con un linguaggio scientifico e tecnico, illustra tutti i contributi più importanti alla disciplina, a partire da pensatori di inizio Novecento, come Proust e la sua teorizzazione della "memoria involontaria", Freud e il concetto di "memoria inconscia", Halbwachs e la "memoria collettiva", Warburg e la "memoria iconografica", spiegando in modo chiaro e sintetico il pensiero degli autori. Un altro punto importante su cui si focalizza Cati è il rapporto tra memoria e media, riportando, anche in questo caso, l’apporto di pensatori del Novecento come Leroi-Gourhan, il primo ad ipotizzare che l’evoluzione culturale dell’uomo si fondi su un progressivo processo di esternalizzazione della memoria. Su questo concetto di basano successivi studi neuroscientifici e psico-cognitivisti, come l’opera Origins of the Modern Mind di Merlin Donald. Negli anni Novanta si è fatto avanti un nuovo modello teorico per lo studio della memoria, che pone l’accento sulla trasmissione del senso, che diventa fondativo per l’identità del gruppo. In questo caso si parla, quindi, di "memoria culturale".
Cati passa, poi, ad un’attenta disamina del rapporto tra memoria individuale e collettiva e i vari media, che non sono solo i più "innovativi" e "tecnologici", ma anche quelli fondamentali come la scrittura, la stampa, la televisione, la fotografia, la radio. In particolare concentra il suo studio su tre casi particolari, che analizza nell’ultimo capitolo del libro: il rapporto tra ricordo e fotografia, esplicato dalla monumentale opera fotografica The Brown Sisters di Nicholas Nixon, che ogni anno per quarant’anni fotografa la moglie e le sue tre sorelle, fermando attimi che, letti progressivamente, mostrano lo scorrere della vita, ed elevando la fotografia amatoriale di famiglia ad arte; Ancients, un video in time-lapse (velocizzando l’immagine fissa su un cielo stellato visto dal deserto di Atacama in Perù) che rappresenta la "memoria cosmica", che trascende il singolo e il punto di vista umano; infine il rapporto tra memoria e malattia, nel fumetto di Paco Roca, Rughe, che racconta la terribile impotenza di chi perde, giorno dopo giorno, i suoi ricordi per colpa dell’Alzheimer.
Oggi ci troviamo davanti ad un nuovo tipo di memoria, la "connective memory", che mescola tanto l’individuale che il collettivo, il privato e il pubblico, il passato e il futuro in un flusso continuamente presente nel tempo. Lo studioso Fredric Jameson ritiene che ciò abbia indebolito la nozione di storicità, creando un quadro temporale retto da un "presente continuo", dove il passato è sempre a portata di mano, perciò gli oggetti del ricordo possono essere ripescati a piacimento dentro un serbatoio potenzialmente infinito. Ci sembra di poter racchiudere tutta la nostra vita dentro ad un software, dentro ad un computer, pensando di conservare i ricordi per sempre. Ma la nostra memoria non è un "archivio morto" di ricordi, conoscenze, immagini, ma un costante processo di rielaborazione e traduzione del passato nel presente, è un qualcosa di profondamente diverso da tutti quei mezzi informatici di cui ci serviamo. "Viviamo in un’epoca avida di ricordi" scrive Cati, ma le tecnologie digitali, le custodie inesauribili di dati e ricordi della nostra epoca, sono davvero dei "dispositivi della memoria" o piuttosto dispositivi che favoriscono oblio e rimozione? Questa è la domanda centrale che si pone l’autrice e che pone anche alla coscienza di ciascun lettore.
Elena Arata
Alice Cati
Gli strumenti del ricordo. I media e la memoria
La Scuola Brescia, 2016.
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Cati passa, poi, ad un’attenta disamina del rapporto tra memoria individuale e collettiva e i vari media, che non sono solo i più "innovativi" e "tecnologici", ma anche quelli fondamentali come la scrittura, la stampa, la televisione, la fotografia, la radio. In particolare concentra il suo studio su tre casi particolari, che analizza nell’ultimo capitolo del libro: il rapporto tra ricordo e fotografia, esplicato dalla monumentale opera fotografica The Brown Sisters di Nicholas Nixon, che ogni anno per quarant’anni fotografa la moglie e le sue tre sorelle, fermando attimi che, letti progressivamente, mostrano lo scorrere della vita, ed elevando la fotografia amatoriale di famiglia ad arte; Ancients, un video in time-lapse (velocizzando l’immagine fissa su un cielo stellato visto dal deserto di Atacama in Perù) che rappresenta la "memoria cosmica", che trascende il singolo e il punto di vista umano; infine il rapporto tra memoria e malattia, nel fumetto di Paco Roca, Rughe, che racconta la terribile impotenza di chi perde, giorno dopo giorno, i suoi ricordi per colpa dell’Alzheimer.
Oggi ci troviamo davanti ad un nuovo tipo di memoria, la "connective memory", che mescola tanto l’individuale che il collettivo, il privato e il pubblico, il passato e il futuro in un flusso continuamente presente nel tempo. Lo studioso Fredric Jameson ritiene che ciò abbia indebolito la nozione di storicità, creando un quadro temporale retto da un "presente continuo", dove il passato è sempre a portata di mano, perciò gli oggetti del ricordo possono essere ripescati a piacimento dentro un serbatoio potenzialmente infinito. Ci sembra di poter racchiudere tutta la nostra vita dentro ad un software, dentro ad un computer, pensando di conservare i ricordi per sempre. Ma la nostra memoria non è un "archivio morto" di ricordi, conoscenze, immagini, ma un costante processo di rielaborazione e traduzione del passato nel presente, è un qualcosa di profondamente diverso da tutti quei mezzi informatici di cui ci serviamo. "Viviamo in un’epoca avida di ricordi" scrive Cati, ma le tecnologie digitali, le custodie inesauribili di dati e ricordi della nostra epoca, sono davvero dei "dispositivi della memoria" o piuttosto dispositivi che favoriscono oblio e rimozione? Questa è la domanda centrale che si pone l’autrice e che pone anche alla coscienza di ciascun lettore.
Elena Arata
Alice Cati
Gli strumenti del ricordo. I media e la memoria
La Scuola Brescia, 2016.
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11 febbraio 2017
In libreria
Lorenzo Cremonesi
Da Caporetto a Baghdad
La grande guerra raccontata da un inviato nei conflitti di oggi
Rizzoli, Milano, 2017, 307 pp.
Da Caporetto a Baghdad
La grande guerra raccontata da un inviato nei conflitti di oggi
Rizzoli, Milano, 2017, 307 pp.
Descrizione
Che cosa lega Caporetto a Baghdad? Apparentemente poco o nulla, in realtà molto. Questo libro racchiude le cronache, i pensieri, i confronti tra gli eventi bellici avvenuti nel 1914-18 e le situazioni, le problematiche incontrate da un inviato nelle guerre contemporanee. Ci sono le visite ai vecchi campi di battaglia in Francia, Belgio, Germania, sulle Alpi, ma anche i continui rimandi ai conflitti tra Israele e il mondo arabo, assieme agli scenari siriano, iracheno, afghano, libico degli ultimi anni e soprattutto agli episodi salienti delle recenti sfide lanciate dal “Califfato”. Si mette in luce quanto rilevanti siano tuttora in Medio Oriente i confini disegnati dalle potenze coloniali dopo la Prima guerra mondiale e l’importanza odierna dei gruppi, ideologie e movimenti che vorrebbero abbatterli per sempre. Una proposta di riflessione sulla guerra, le sue dinamiche, le sue conseguenze, per un pubblico europeo che in generale la vorrebbe rifuggire, ma ne è inevitabilmente circondato, se non coinvolto direttamente.
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Storia del giornalismo
09 febbraio 2017
Dieta vegana: moda o alimentazione consapevole?
Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un incremento significativo delle persone che cambiano stile di vita e adottano un’alimentazione vegetariana o vegana. Alcuni parlano di moda: forse in qualche caso è così, ma nella maggioranza dei casi chi sceglie questo cambiamento e mantiene nel tempo questa decisione è consapevole di tutti i benefici che apporta. Benefici che partono dal benessere individuale della persona, ma che arrivano ad incidere sull’impatto ambientale che l’uomo ha sul pianeta. Partiamo da una riflessione: gran parte delle malattie che portano mortalità in Occidente sono legate ad un’alimentazione sbagliata, pensiamo ad esempio alle malattie cardiovascolari. In senso strettamente salutistico, in realtà, basterebbe ridurre il consumo di carne e derivati animali per evitare l’insorgenza di questi disturbi. Ma non è solo questo il punto: con l’avvento del consumismo, si è sviluppato un sistema di sfruttamento degli animali inimmaginabile. Sono poche, ma ci sono testimonianze che documentano le condizioni in cui vengono tenuti gli animali “da macello” e probabilmente se la gente le conoscesse, solo per questo motivo, cambierebbe qualcosa. Gran parte della terra coltivata sull’intero pianeta è destinata ad allevamenti o a colture per sfamare il bestiame che deve arrivare sulle nostre tavole; tantissime terre del sud del mondo sono utilizzate per le coltivazioni di soia, da portare agli allevamenti, e tolgono risorse preziose alle popolazioni più bisognose. Insomma, le motivazioni per attuare anche solo un piccolo cambiamento nella nostra vita di tutti i giorni sono tantissime. Il passo fondamentale è informarsi e oggi abbiamo tante opportunità per farlo. Non teniamo la testa sotto la sabbia.
Elena Arata
08 febbraio 2017
Giornalismo senza filtro
Alessandro Gazoia vuole analizzare il ruolo dei media nelle relazioni che instaurano con i poteri, politici e finanziari, ed il pubblico; il modo in cui funzionano che le tipologie stesse di media sono in continua evoluzione, ed è necessario conoscerli per non subire il flusso di informazioni.
Da quasi un secolo la memoria collettiva si organizza intorno ad eventi mediati dalle comunicazioni di massa (es. Twin Towers, rapimento Moro), si dà per scontato che la notizia sia giunta a tutti in breve tempo, la curiosità è in come quell’evento abbia interrotto il corso normale della vita di ognuno. I media sono quindi in grado di coinvolgere, condizionare, focalizzare l’attenzione della totalità degli utenti di quel media su un determinato fatto; ciò assume dimensioni sproporzionate nell’epoca in cui siamo connessi l’intera giornata tramite smart phone. I grandi eventi sono programmati e costruiti attraverso i media, di fatto se un evento non ha risonanza mediatica è come se non fosse mai accaduto. Sono privilegiati quei fatti che si crede possano maggiormente appassionare l’opinione pubblica, suscitare emozioni forti (meglio se negative) e imbastire un dibattito; soprattutto gli avvenimenti imprevisti causati dall’uomo hanno forti possibilità di essere comunicati e manipolati. Nelle crisis reporting il giornalista non è neutro (come in ogni azione giornalistica), influenza i dati “osservati” e normalmente nella pluralità mediale vi sono più narrazioni in competizione tra loro, non giungendo ad un consenso generale.
In un certo senso si può affermare che un fatto, non passando attraverso il filtro dei media, è come se non esistesse; McNair afferma che il terrorismo può avere un significato come atto comunicativo solo se è trasmesso dai mass media. Fino a quando non è raccontato l’atto terroristico non ha significato sociale. Esempio emblematico è stato il rapimento di Aldo Moro dove si manifestò la lotta per il controllo dell’informazione e della comunicazione politica. Poiché l’azione politica illegale esige contemporaneamente una massima segretezza e una massima pubblicità, vi fu il massimo controllo politico dell’informazione per arginare l’operazione spettacolare e mediatica delle Brigate Rosse. McLuhan addirittura affermò: “La situazione più valida e giusta è di ridurre al minimo la copertura giornalistica, sino a giungere, se necessario, al black-out totale delle notizie: proprio perché i terroristi mirano ad usare la stampa e la tv come cassa di risonanza per la loro immagine e per i loro programmi, occorre negargli il raggiungimento di tale obiettivo”. Di fatto la misura del black-out non venne adottata perché l’attenzione del paese era troppo forte ed un filtro troppo stretto si sarebbe rotto con notizie diffuse senza controllo; la comunicazione non andava silenziata, ma controllata.
L’effetto che possono avere le notizie risulta amplificato nella nostra epoca, poiché le nuove tecnologie ci permettono di mantenerci informati in tempo reale. Oggi il terrorismo ha programmato la propria strategia di comunicazione su uno spettatore che vede e teme in diretta, chi viene a conoscenza delle notizie sente il crollo tra interno ed esterno, da spettatore a potenziale vittima (emblematica è la propaganda dell’ Isis in internet). La caduta di queste barriere tra persone e fatti, persone e persone, concretizzatasi nel web 2.0 comporta anche che il pubblico possa diventare parzialmente giornalista su blog o social network; ognuno dispone delle tecnologie che permettono di produrre e diffondere istantaneamente foto, video, audio, testi. Un numero crescente di persone si informa attraverso il cellulare o altri dispositivi connessi ad internet e spesso acquisiscono le notizie attraverso piattaforme sociali (Facebook, Twitter) Quella che appare come un’inezia, poiché molto spesso i post riportano articoli di siti ufficiali e quindi informazioni vere e verificate da professionisti, rappresenta una deriva dell’informazione: i social network prevedono una fruizione personalizzata e tendono a mostrarci notizie “personalizzate”. Van Dijck afferma: “ le tecnologie per l’informazione e la comunicazione sono diventate forze ambientali, antropologiche, sociali e interpretative. Creano e modellano le nostre realtà, cambiano la nostra auto-comprensione, modificano il modo in cui ci relazioniamo, potenziano il modo in cui interpretiamo il mondo: tutto ciò in modo pervasivo, profondo e ininterrotto”. Anche il giornale politicamente più schierato rappresenta un punto di vista organico, condivisibile o meno; le piattaforme sociali invece offrono notizie confezionate per noi come abiti su misura che consolidano le nostre concezioni e inaridiscono il nostro pensiero critico.
Il fatto grave è che coloro che gestiscono i social network li descrivono come semplici piattaforme asettiche, contenitori riempiti dagli utenti, che risultano utili o dannosi in base all’uso che se ne faccia. Questa fuga dalle responsabilità, tipica della maggior parte delle società della Silicon Valley, risulta sempre più difficile. In occasione dell’omicidio di James Foley, Twitter per la prima volta è andata contro la sua auto definizione di “semplice piattaforma per la diffusione di contenuti” ed ha cancellato account e propaganda dell’Isis oltre a foto e video dell’esecuzione diffusi da altri utenti. Anche Facebook sta adottando un comportamento dichiaratamente editoriale con il sistema di fact-checking che segnala agli utenti eventuali fake news presenti.
Facebook, Twitter, Google hanno un controllo incredibile e preoccupante su quali informazioni noi, utente o impresa dei media, possiamo vedere e condividere. Gli abbiamo dato un’enorme fiducia che deve essere guadagnata e confermata con regolarità. Se prendono decisioni editoriali, è fondamentale che i criteri siano esposti in anticipo in modo chiaro e aperto, e che siano applicati in modo coerente e corretto. Lo spazio pubblico operato dal settore privato, la sorveglianza digitale, l’assoluta asimmetria nel potere e nella conoscenza tra utente e piattaforma, sono il lato oscuro della connessione universale e della capacità di comunicare liberamente. Pensare che internet, rendendoci creatori oltre che fruitori di contenuti, permetta una comunicazione senza filtro è un’illusione.
Giacomo Rizzi
Da quasi un secolo la memoria collettiva si organizza intorno ad eventi mediati dalle comunicazioni di massa (es. Twin Towers, rapimento Moro), si dà per scontato che la notizia sia giunta a tutti in breve tempo, la curiosità è in come quell’evento abbia interrotto il corso normale della vita di ognuno. I media sono quindi in grado di coinvolgere, condizionare, focalizzare l’attenzione della totalità degli utenti di quel media su un determinato fatto; ciò assume dimensioni sproporzionate nell’epoca in cui siamo connessi l’intera giornata tramite smart phone. I grandi eventi sono programmati e costruiti attraverso i media, di fatto se un evento non ha risonanza mediatica è come se non fosse mai accaduto. Sono privilegiati quei fatti che si crede possano maggiormente appassionare l’opinione pubblica, suscitare emozioni forti (meglio se negative) e imbastire un dibattito; soprattutto gli avvenimenti imprevisti causati dall’uomo hanno forti possibilità di essere comunicati e manipolati. Nelle crisis reporting il giornalista non è neutro (come in ogni azione giornalistica), influenza i dati “osservati” e normalmente nella pluralità mediale vi sono più narrazioni in competizione tra loro, non giungendo ad un consenso generale.
In un certo senso si può affermare che un fatto, non passando attraverso il filtro dei media, è come se non esistesse; McNair afferma che il terrorismo può avere un significato come atto comunicativo solo se è trasmesso dai mass media. Fino a quando non è raccontato l’atto terroristico non ha significato sociale. Esempio emblematico è stato il rapimento di Aldo Moro dove si manifestò la lotta per il controllo dell’informazione e della comunicazione politica. Poiché l’azione politica illegale esige contemporaneamente una massima segretezza e una massima pubblicità, vi fu il massimo controllo politico dell’informazione per arginare l’operazione spettacolare e mediatica delle Brigate Rosse. McLuhan addirittura affermò: “La situazione più valida e giusta è di ridurre al minimo la copertura giornalistica, sino a giungere, se necessario, al black-out totale delle notizie: proprio perché i terroristi mirano ad usare la stampa e la tv come cassa di risonanza per la loro immagine e per i loro programmi, occorre negargli il raggiungimento di tale obiettivo”. Di fatto la misura del black-out non venne adottata perché l’attenzione del paese era troppo forte ed un filtro troppo stretto si sarebbe rotto con notizie diffuse senza controllo; la comunicazione non andava silenziata, ma controllata.
L’effetto che possono avere le notizie risulta amplificato nella nostra epoca, poiché le nuove tecnologie ci permettono di mantenerci informati in tempo reale. Oggi il terrorismo ha programmato la propria strategia di comunicazione su uno spettatore che vede e teme in diretta, chi viene a conoscenza delle notizie sente il crollo tra interno ed esterno, da spettatore a potenziale vittima (emblematica è la propaganda dell’ Isis in internet). La caduta di queste barriere tra persone e fatti, persone e persone, concretizzatasi nel web 2.0 comporta anche che il pubblico possa diventare parzialmente giornalista su blog o social network; ognuno dispone delle tecnologie che permettono di produrre e diffondere istantaneamente foto, video, audio, testi. Un numero crescente di persone si informa attraverso il cellulare o altri dispositivi connessi ad internet e spesso acquisiscono le notizie attraverso piattaforme sociali (Facebook, Twitter) Quella che appare come un’inezia, poiché molto spesso i post riportano articoli di siti ufficiali e quindi informazioni vere e verificate da professionisti, rappresenta una deriva dell’informazione: i social network prevedono una fruizione personalizzata e tendono a mostrarci notizie “personalizzate”. Van Dijck afferma: “ le tecnologie per l’informazione e la comunicazione sono diventate forze ambientali, antropologiche, sociali e interpretative. Creano e modellano le nostre realtà, cambiano la nostra auto-comprensione, modificano il modo in cui ci relazioniamo, potenziano il modo in cui interpretiamo il mondo: tutto ciò in modo pervasivo, profondo e ininterrotto”. Anche il giornale politicamente più schierato rappresenta un punto di vista organico, condivisibile o meno; le piattaforme sociali invece offrono notizie confezionate per noi come abiti su misura che consolidano le nostre concezioni e inaridiscono il nostro pensiero critico.
Il fatto grave è che coloro che gestiscono i social network li descrivono come semplici piattaforme asettiche, contenitori riempiti dagli utenti, che risultano utili o dannosi in base all’uso che se ne faccia. Questa fuga dalle responsabilità, tipica della maggior parte delle società della Silicon Valley, risulta sempre più difficile. In occasione dell’omicidio di James Foley, Twitter per la prima volta è andata contro la sua auto definizione di “semplice piattaforma per la diffusione di contenuti” ed ha cancellato account e propaganda dell’Isis oltre a foto e video dell’esecuzione diffusi da altri utenti. Anche Facebook sta adottando un comportamento dichiaratamente editoriale con il sistema di fact-checking che segnala agli utenti eventuali fake news presenti.
Facebook, Twitter, Google hanno un controllo incredibile e preoccupante su quali informazioni noi, utente o impresa dei media, possiamo vedere e condividere. Gli abbiamo dato un’enorme fiducia che deve essere guadagnata e confermata con regolarità. Se prendono decisioni editoriali, è fondamentale che i criteri siano esposti in anticipo in modo chiaro e aperto, e che siano applicati in modo coerente e corretto. Lo spazio pubblico operato dal settore privato, la sorveglianza digitale, l’assoluta asimmetria nel potere e nella conoscenza tra utente e piattaforma, sono il lato oscuro della connessione universale e della capacità di comunicare liberamente. Pensare che internet, rendendoci creatori oltre che fruitori di contenuti, permetta una comunicazione senza filtro è un’illusione.
Giacomo Rizzi
Alessandro Gazoia
Senza Filtro. Chi controlla l’informazione
Minimum Fax, Roma, 2016, 404 pp.
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07 febbraio 2017
Fermi tutti, arriva il Festival
Chissà
se nel lontano 1950 Angelo Amato e Angelo Nizza, inventori del festival della
canzone italiana, hanno pensato che un giorno proprio la loro creazione avrebbe
bloccato un’intera nazione. Già perché, come ormai accade da lungo tempo, anche
quest’anno è arrivato il tanto atteso Festival di Sanremo, un evento dalla
portata mediatica eccezionale e probabilmente inarrivabile su scala nazionale
che ferma, immobilizza, cattura l’attenzione di tutta l’Italia, Italia che per
una settimana circa trasferisce il suo cuore pulsante nella piccola cittadina
rivierasca. Volente o nolente l’argomento Festival si prende il primato nella
sua settimana, solitamente a metà febbraio, ed entra in maniera importante in
tutti i media. Dalla radio ovviamente, alla televisione, in parte ai giornali e
a Internet che vede nei blog e nei moderni social fabbriche di commenti e di opinioni su Sanremo e tutto ciò che
gli ruota attorno. Per questi cinque giorni nel nostro Paese la crisi sembra
scomparire, i compensi milionari percepiti da presentatori e vallette fanno
scalpore fino a un certo punto, la tragedia di Rigopiano è quasi dimenticata,
Renzi e la Raggi sostituiti da Conti e dalla De Filippi tutto si focalizza sul
Festival, che diventa principale fonte di notizia. La manifestazione canora
mobilita milioni di persone davanti allo schermo, registra ascolti impensabili
per il resto della stagione televisiva tutti pronti per i 20 big. I cantanti in
gara insomma, molte volte ex concorrenti di talent show o vecchie glorie della
musica italiana, mai o molto difficilmente voci di prim’ordine. Eppure in
questa settimana è il Festival la grande attrazione, come se la maggioranza
degli italiani decidesse di prendersi una pausa, una vacanza dalla propria vita
difficile e si mettesse lì seduta sul divano a guardare l’evento dell’anno.
Quando c’è Sanremo tutto passa in secondo piano il protagonista è il Festival
c’è poco da fare e a chi si chiede il perché, vien da rispondere con l’ormai
celebre jingle: perché Sanremo è Sanremo.
Lorenzo
Bonsignorio
06 febbraio 2017
Viaggio alla scoperta del giornalismo
Un manuale. È questa la più immediata definizione per Giornalismo e Comunicazione dello Sport di Mario Arceri. Un manuale consigliabile a tutti coloro che vogliono seguire la strada del giornalismo e hanno il sogno di diventare professionisti di questo mestiere. Arceri non si limita infatti a trattare temi sportivi, ma li inserisce nel più ampio contesto giornalistico generale evidenziandone le evoluzioni sempre con una solida base contestualizzante, creata con il racconto della storia e degli avvenimenti che l’hanno segnata. Leggendo il titolo e vedendo l’immagine posta in copertina molti, come me d’altronde, penseranno a un testo dedicato interamente al fenomeno sociale dello sport, ma in realtà così non è. Il libro analizza infatti compiutamente i cambiamenti che si sono verificati nel corso degli anni e che hanno fatto la storia della carta stampata. Da Gutenberg ai social network, passando per il Fascismo e le due Guerre mondiali.
La seconda definizione con cui si può tranquillamente descrivere questo libro è: un viaggio. Un viaggio che, come scrive lo stesso Arceri nella prefazione, possono fare coloro che: «intendono impegnarsi nella sfida avvincente di essere protagonisti del mondo della comunicazione». Un percorso dal quale si esce certamente migliorati e più pronti per intraprendere la strada del giornalismo, perché il tempo della lettura è paragonabile a quello di una lezione che interessa l’alunno. Arceri da giornalista di esperienza qual è veste i panni del professore, cosa che fa regolarmente presso l’Università di Roma, e chi legge in realtà ascolta la ricca lezione di uno dei decani di questo mondo. L’autore non è di quelli che regalano false speranze anzi presenta nel suo libro la cruda realtà di un settore in crisi qual è quello della carta stampata e dell’editoria in generale, che offre poche chance ai giovani ma che mantiene nonostante ciò un fascino diverso da tutte le altre professioni. La cosa che colpisce di Giornalismo e Comunicazione dello Sport è la semplicità di scrittura, il testo così come la disposizione dei vari capitoli è chiaro e segue un filo logico preciso. Anche chi non ha mai sentito parlare di giornalismo e delle sue varie forme può tranquillamente leggere e comprendere quest’opera. I temi toccati, come detto, sono davvero moltissimi a partire dalla professione di giornalista, per trattare poi la comunicazione nelle sue varie forme e lo sport nei suoi aspetti più salienti per il giornalismo fino ad arrivare alla storia vera e propria e alle nuove tecnologie che tanto stanno cambiando questo mondo. Un plauso particolare va poi riservato all’appendice del libro. Quest’ultima si può considerare una sorta di lezione pratica dopo la teoria della prima parte, che analizza con esempi pertinenti le varie forme di articoli del giornalismo sportivo e che offre anche un quadro dell’ufficio stampa e delle sue mansioni oltre che la riproposizione, in maniera integrale, dei documenti fondamentali che servono per esercitare la professione di giornalista. Arceri crea appunto un bel mix di teoria e pratica così come di sogno e realtà. Da un lato il racconto delle emozioni che si provano a seguire un’Olimpiade e dall’altro le difficoltà che tutti i gruppi editoriali stanno provando ormai da anni sulla propria pelle con cali vertiginosi di copie vendute e di conseguenza di personale. I nuovi media sono anche in questo testo inevitabilmente una parte importante, ma la visione che ne offre Arceri, e che personalmente sento di condividere, è un qualcosa di nuovo. Con lo sviluppo delle tecnologie contemporanee il giornalista non perde di importanza, come molti pensano, ma anzi al contrario assume un ruolo ancora più incisivo e fondamentale perché è lui che attraverso la cultura posseduta deve saper domare i nuovi mezzi per offrire un’informazione comunque di alto livello e sicura per chi legge, deve insomma diventare faro dei lettori nel mare magnum di internet e dei suoi figli. Il lavoro di Arceri è il frutto più maturo di un’esperienza quarantennale al Corriere dello Sport, 40 anni di cambiamenti vissuti e analizzati per poi proporli a chi si affaccia ora nel fascinoso quanto ostile mondo del giornalismo.
Lorenzo Bonsignorio
Mario Arceri
Giornalismo e Comunicazione dello Sport
Universitalia, Roma, 2016.
La seconda definizione con cui si può tranquillamente descrivere questo libro è: un viaggio. Un viaggio che, come scrive lo stesso Arceri nella prefazione, possono fare coloro che: «intendono impegnarsi nella sfida avvincente di essere protagonisti del mondo della comunicazione». Un percorso dal quale si esce certamente migliorati e più pronti per intraprendere la strada del giornalismo, perché il tempo della lettura è paragonabile a quello di una lezione che interessa l’alunno. Arceri da giornalista di esperienza qual è veste i panni del professore, cosa che fa regolarmente presso l’Università di Roma, e chi legge in realtà ascolta la ricca lezione di uno dei decani di questo mondo. L’autore non è di quelli che regalano false speranze anzi presenta nel suo libro la cruda realtà di un settore in crisi qual è quello della carta stampata e dell’editoria in generale, che offre poche chance ai giovani ma che mantiene nonostante ciò un fascino diverso da tutte le altre professioni. La cosa che colpisce di Giornalismo e Comunicazione dello Sport è la semplicità di scrittura, il testo così come la disposizione dei vari capitoli è chiaro e segue un filo logico preciso. Anche chi non ha mai sentito parlare di giornalismo e delle sue varie forme può tranquillamente leggere e comprendere quest’opera. I temi toccati, come detto, sono davvero moltissimi a partire dalla professione di giornalista, per trattare poi la comunicazione nelle sue varie forme e lo sport nei suoi aspetti più salienti per il giornalismo fino ad arrivare alla storia vera e propria e alle nuove tecnologie che tanto stanno cambiando questo mondo. Un plauso particolare va poi riservato all’appendice del libro. Quest’ultima si può considerare una sorta di lezione pratica dopo la teoria della prima parte, che analizza con esempi pertinenti le varie forme di articoli del giornalismo sportivo e che offre anche un quadro dell’ufficio stampa e delle sue mansioni oltre che la riproposizione, in maniera integrale, dei documenti fondamentali che servono per esercitare la professione di giornalista. Arceri crea appunto un bel mix di teoria e pratica così come di sogno e realtà. Da un lato il racconto delle emozioni che si provano a seguire un’Olimpiade e dall’altro le difficoltà che tutti i gruppi editoriali stanno provando ormai da anni sulla propria pelle con cali vertiginosi di copie vendute e di conseguenza di personale. I nuovi media sono anche in questo testo inevitabilmente una parte importante, ma la visione che ne offre Arceri, e che personalmente sento di condividere, è un qualcosa di nuovo. Con lo sviluppo delle tecnologie contemporanee il giornalista non perde di importanza, come molti pensano, ma anzi al contrario assume un ruolo ancora più incisivo e fondamentale perché è lui che attraverso la cultura posseduta deve saper domare i nuovi mezzi per offrire un’informazione comunque di alto livello e sicura per chi legge, deve insomma diventare faro dei lettori nel mare magnum di internet e dei suoi figli. Il lavoro di Arceri è il frutto più maturo di un’esperienza quarantennale al Corriere dello Sport, 40 anni di cambiamenti vissuti e analizzati per poi proporli a chi si affaccia ora nel fascinoso quanto ostile mondo del giornalismo.
Lorenzo Bonsignorio
Mario Arceri
Giornalismo e Comunicazione dello Sport
Universitalia, Roma, 2016.
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