Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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29 giugno 2012

Fornero: “Il lavoro non è un diritto”. Trema la Costituzione


Non è una novità che il cosiddetto “sistema della casta” nostrano abbia più volte dimostrato notevole povertà espressiva e comunicativa, scarso interesse verso efficaci e puntuali strategie di interazione pubbliche e frequente propensione a “strafalcioni”, gaffes, errori e ridicolaggini morfologico-lessicali. I politici italiani hanno peraltro dato prova di saper assommare a cotante ristrettezze linguistiche un altrettanto curriculum di ignoranza sui temi di cultura generale; celebri sono state difatti le famigerate inchieste delle Iene di pochi anni fa: appollaiati dietro i cespugli di Montecitorio e Palazzo Madama, gli “incravattati” di Italia 1 infastidivano, muniti di quesiti di storia e geografia, deputati e senatori incapaci di rispondere correttamente. Nel 2012 la storia si sta clamorosamente ripetendo, peggio di prima.
Elsa Fornero, attuale reggente del dicastero del Lavoro e delle Politiche Sociali sotto l’egida del governo Monti, è una delle figure del cosiddetto “esecutivo tecnico” più criticate e meno sopportate dall’opinione pubblica. A parte le discutibili deliberazioni e scelte adottate durante il suo mandato, l’ atteggiamento accademico austero e intransigente, la precaria capacità nel comunicare efficacemente con un popolo che non ha eletto né lei né i suoi colleghi di Palazzo Chigi, nonché l’utilizzo di certe espressioni linguistiche (la celeberrima “paccata”) e comportamentali (le lacrime versate appena prima di annunciare agli italiani nuovi ed estenuanti sacrifici) poco affini al suo impegno socio-istituzionale hanno reso il ministro una personalità non proprio simpatica e piacevole agli occhi della cittadinanza ormai dedita a parodie, sberleffi e insulti che sarebbero persino in grado di superare per rabbia e intensità gli analoghi rivolti ai membri dell’ex governo Berlusconi.
Nonostante l’avversione del popolo, Elsa sembra voler superare se stessa: in un’ intervista al "Wall Street Journal", il ministro ha osato affermare che “il lavoro non è un diritto, deve essere guadagnato, anche attraverso il sacrificio”. Tralasciando la valanga reazionaria degli utenti Facebook e Twitter, da sempre in guerra contro la vacua dialettica ministeriale e parlamentare, di fronte a siffatte parole alcune domande sorgono spontanee: com’è possibile che l’occupante di un dicastero statale, docente presso l’Università di Torino, soggetto che dovrebbe masticare pane e giurisprudenza ogni giorno a colazione, pranzo e cena pronunci certe insinuazioni? Perché colei che ha in mano il destino (poco felice) di un paese sull’orlo della rivoluzione popolare non è a (perfetta) conoscenza del fulcro della “sacra” Costituzione italiana?
Articolo 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”; Articolo 4: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”.
Due disposizioni che reggono, a mo’ del mitologico Atlante, l’intero dettato costituzionale, giammai sottoponibili ad un eventuale processo di revisione del Testo fondamentale, frutto del faticoso e sudato lavoro dei Padri Costituenti succeduti a vent’anni di terrore, di cui a cinque di morte, devastazione, dominazione straniera, Auschwitz e Marzabotto.
Consultando le stime tutt’altro che incoraggianti dell’occupazione giovanile (under 30 perlopiù senza impiego e ancora accasati dai genitori, laureati con 110 e lode in fuga verso mete più soddisfacenti e meglio remunerabili) e alla questione esodati e disoccupati, le parole del ministro Fornero rappresentano un nuovo, doloroso schiaffo alla dignità di cittadino italiano, cittadino vessato dall’onnipresente e onnipotente clientelismo, dal predominio delle grandi poltrone, dagli sberleffi di chi ha trovato una lucrosa e dignitosa sistemazione in un’altra era e non si rende conto che i giochi sono cambiati, e non a suo sfavore. Sarà inutile, pertanto, modificare quel benedetto articolo 18 di cui la signora Elsa va tanto discorrendo: è l’intera Costituzione a procedere verso il baratro dell’inutilità e dell’anacronismo, non il singolo disposto.
Paolo Giorcelli

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27 giugno 2012

L’informazione giornalistica naviga e sbarca nel web

Ci troviamo nell’era digitale e come ogni innovazione che si è sviluppata nel corso dei secoli, anche l’informazione è cambiata, si è evoluta. Le novità che la caratterizzano vengono analizzate ed esposte in questo volume, frutto di una ricerca della Columbia sul giornalismo digitale statunitense. I dati forniti mostrano le grandi differenze tra i media tradizionali e quelli digitali (includendo non solo i contenuti diffusi via internet ma anche prendendo in considerazione piattaforme come smartphone e tablet). I ricercatori individuano il “peccato originale” dell’informazione digitale nella possibilità di fruire gratuitamente dei contenuti giornalistici da parte dei lettori. Abitudine ora difficile da togliere, ma che impedisce alle imprese di trarre un adeguato profitto dalle visualizzazioni on-line. Vengono poi analizzate le varie strategie adottate dalle aziende editoriali per far fronte a questo problema mediante grafici e ricerche statistiche.
La parola chiave è “innovazione”. Per sopravvivere in un mercato sempre più competitivo è necessario individuare i “lettori tipo”, comprendere come attirare la loro attenzione, come fidelizzarli e come aumentare l’audience senza compromettere la qualità dell’informazione. Strategie di marketing e non solo. Serve anche attenzione alla grafica del web, saper trattare la vendita degli spazi pubblicitari e predisposizione a comprendere come fare la differenza in mezzo al continuo proliferare di nuovi concorrenti. Stare al passo con i tempi. Ma in questo quadro di figure specializzate nelle strategie di vendita e di diffusione del prodotto giornalistico che ruolo hanno i giornalisti? Senza di essi non vi sarebbe nulla da vendere, eppure in questo turbinio di novità talvolta viene meno il giornalista dipendente fisso, a favore del free lance, sogno di ogni imprenditore che desidera avere meno dipendenti possibili legati all’azienda.
La ricerca della Columbia University prende in esame anche i nuovi strumenti di condivisione sociale: Facebook, Twitter, Digg e Reddit. Vengono presi in considerazione i social network perché è ormai chiaro il ruolo che questi rivestono nella vita della gente. I ricercatori mostrano come non sia stata ancora individuata una strategia vincente per sfruttare le potenzialità di Facebook e Twitter in quanto l’utente non vi accede con lo scopo di informarsi. Forse l’ispirazione arriva proprio dai social network e le strategie vincenti risultano essere quelle dei blog attivati dai siti di informazione. Blog che invitano gli utenti a commentare e partecipare attivamente; cosa che permette al lettore di non sentirsi un fruitore passivo e non solo, i commenti e i consigli della gente consentono di apportare preziose migliorie al sito.
 La ricerca mostra come siano cambiate le cose dalla diffusione delle edizioni cartacee alla fruizione di dispositivi mobili come tablet e smartphone, soffermandosi sull’importanza che le piattaforme digitali hanno per il brand aziendale. I ricercatori non mettono in evidenza solo le strategie positive adottate dalle varie imprese editoriali, anzi, all’interno del manuale si mette in primo piano più volte l’errore spesso compiuto dalle aziende: quello di calcolare i prezzi sui costi e non sul valore che ha il giornalismo digitale. Questo accurato lavoro vuole sottolineare l’importanza che rivestono le edizioni digitali per i fruitori del materiale, in quanto viene data la possibilità di avvalersi di strumenti utili come gli archivi e l’interattività.
Nella grandezza di internet chi non si sa muovere rischia di perdersi. Quando si hanno poche scelte a disposizione è difficile sbagliarsi, ma una piattaforma immensa come internet può rivelarsi dispensatrice di grandi possibilità o landa desolata dove nessun lettore poserà mai lo sguardo. Questo volume in un centinaio di pagine riesce a dare un’idea della situazione in cui si trova l’editoria digitale statunitense. Strategie di mercato, errori commessi dalle imprese più note e meno note e il rapporto storicamente simbiotico tra pubblicità e contenuto che nell’era digitale sta venendo meno. Un consiglio sussurrato lungo tutto il percorso del libro è che la strategia vincente è quella di saper reagire velocemente ai cambiamenti. Una lettura utile per comprendere il panorama del mondo digitale, anche se, considerata la velocità di mutamento dello “stato delle cose”, occorrerebbe leggerla tutta d’un fiato.
Silvia Civano

Giornalismo digitale. Lo stato delle cose
Report a cura della Columbia Journalism School, 2011, 104 pp.
*link al testo integrale disponibile in lingua italiana nel sito LSDI.

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25 giugno 2012

Ricordando Luciana

Luciana Garibbo
Politica, amministrazione e interessi a Genova (1815-1940)
Milano, Franco Angeli, 2001, 368 pp.
Descrizione
Il volume, edito per iniziativa della Facoltà di Scienze Politiche e del Dipartimento di Ricerche Europee dell'Università di Genova in onore dell'Autrice, raccoglie una serie di saggi che offrono nel loro insieme, attraverso un panorama inedito della storia di Genova e della sua classe dirigente tra ottocento e novecento, un originale paradigma interpretativo della storia locale. Il primo ampio saggio, che qui si pubblica per la prima volta, ricostruisce nelle sue linee generali la cultura politica della città tra età moderna e contemporanea. Centrale, in questo come in altri saggi, è l'analisi della gestione del Comune visto come centro e rappresentazione della vita della città. Attraverso la ricostruzione dell'organizzazione del potere e del governo della città si evidenziano i complessi percorsi culturali attraverso cui la classe dirigente risponde alle sfide poste dal mutamento, a partire dal difficile adeguamento delle élite della antica e libera repubblica oligarchica, importante alternativa mercantile e repubblicana ai regimi assoluti imperanti in Europa, al più modesto ruolo di rappresentanti di interessi locali nella struttura accentrata dello Stato piemontese prima ed italiano poi. Nelle diverse fasi del periodo considerato il Comune rappresenta non solo il tramite del rapporto tra comunità locale e Stato, ma anche il centro di organizzazione della struttura del potere cittadino per i legami che intercorrono tra amministratori ed élite economiche ed intellettuali locali e nazionali. Attraverso la ricostruzione delle diverse maggioranze espresse dal consiglio comunale si sono individuate le culture politiche egemoni nella città, verificando inoltre il rapporto tra le scelte culturali, amministrative, economiche delle sue classi dirigenti e le istanze provenienti dalla società. Si tratta quindi di una storia insieme politico-amministrativa, culturale e sociale, che si snoda tra istituzioni e consenso.
Luciana Garibbo (1930-2012) ha insegnato Storia dei movimenti e dei partiti politici presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Genova dal 1972 al 1997 ed è stata, fino al 1993, direttore dell'Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell'Età contemporanea. Fra le sue pubblicazioni vanno, soprattutto, segnalate: La neutralità della Repubblica di Genova (1972); Élites e masse dall'Unità al periodo giolittiano (1980); Dimensione storica e forme di conoscenza (1989); Origine struttura e funzioni del partito unico nel regime fascista (1992).
*Link all' Indice del volume.

24 giugno 2012

In libreria

Daniela Manetti
Un'arma poderosissima. Industria cinematografica e Stato durante il fascismo 1922-1943

Milano, Franco Angeli, 2012, 272 pp.
Descrizione
Il cinema in Italia è stato studiato nella sua evoluzione critico-estetica, come prodotto intellettuale e nella sua importanza sociale quale oggetto di consumo e nuova forma di spettacolo e di intrattenimento legata alla nascita del tempo libero, nonché come mezzo di comunicazione di massa o "deposito" di memoria. Alcuni saggi vanno attribuiti anche a giuristi, soprattutto esperti di diritto pubblico dell'economia. A questi ambiti di ricerca e ai relativi approcci e metodologie sono sostanzialmente da ricondurre anche i diversi studi che, a partire dagli anni Cinquanta-Sessanta, si sono occupati degli aspetti economici del film o del cinema, spesso in prospettiva storica. Nell'ottica della storia economica, il volume ricostruisce le vicende dell'industria cinematografica italiana durante il fascismo e i suoi rapporti con lo Stato, per la rilevanza dei fattori politico-istituzionali e per il ruolo che questi ebbero nel ventennio e nella ripresa e nell'espansione economica del settore. La ricerca non si limita, però, alla legislazione incentivante: l'azione dello Stato è in quegli anni talmente pervasiva da richiedere la parallela considerazione di altri aspetti, dal controllo alla censura, dalla comunicazione alla propaganda. Aspetti che si intrecciano costantemente, facendo dell'industria cinematografica un settore al quale il regime dedicò particolare attenzione per la consapevolezza che il duce ebbe della potenza dell'immagine e del cinema come strumento fondamentale nell'organizzare il consenso e nell'autopromozione

*link all'Indice  del libro.

22 giugno 2012

In libreria

Roberto Race
Napoleone il comunicatore. Passare alla storia e non solo con le armi
Milano, Egea, 2012, 144 pp.
Descrizione
C’è un filo rosso che attraversa tutta l’epopea di Napoleone. Dalla spedizione italiana alla missione in Egitto, fino ai trionfi di Ulm o Austerlitz, alle successive disfatte e al doppio esilio. È la sua straordinaria, modernissima, visionaria, profetica capacità di comunicare. Napoleone ha inventato l’opinione pubblica così come siamo abituati a intenderla oggi. Ha utilizzato per la prima volta il merchandising, ha saputo promuovere la sua immagine mentre guidava la Grande Armée alla conquista di mezza Europa. In questo libro Roberto Race spiega modalità ed eventi che segnano l’ennesimo primato del generale Bonaparte, meno conosciuto dei tanti conquistati nelle battaglie condotte per mezza Europa. Un volume utile sia a chi intenda approfondire le radici delle tecniche moderne di comunicazione, sia a chi voglia entrare in contatto con una dimensione ancora non completamente esplorata di una delle figure più originali della storia moderna.
*link all'Indice e all'Introduzione

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21 giugno 2012

La fine dei giornali (scadenti)

La crisi degli imperi di carta! Gli ultimi giornali! La scomparsa delle riviste! La fine del giornalismo! Le cavallette!
È vero, vari fattori – tra tutti l’impatto considerevole di internet – hanno decretato una discesa nella vendita di giornali; se si guardano i numeri è chiara una drastica diminuzione di vendita dei quotidiani cartacei a partire dal 2000. Questo non vuol dire né che il giornalismo sia morto, né che i quotidiani abbiano perso quella importanza e quella funzione sociale che hanno avuto durante ‘800 e ‘900. Semplicemente nel XX secolo abbiamo visto quello che è stato l’apice di successo dell’informazione su carta. I giornali sono vivi, alcuni morenti, altri meno. Possiamo iniziare a decretare morto un giornale quando veramente non sarà più possibile acquistarlo in edicola (il resto sono allarmismi di pseudo-nostalgici).
Perchè alcuni sopravvivono ed altri no? Penso al Manifesto, il giornale indipendente e comunista, dalle magnifiche prime pagine e dalla curiosa situazione in cui i giornalisti erano anche editori e proprietari. La testata che nel 1996 vendeva oltre 34mila copie nel 2010 è scivolata a 19mila; nel 2006 aveva iniziato a chiedere soldi ai lettori con donazioni ed aumenti di prezzo del quotidiano, operazione riproposta due anni dopo quando la legge sui fondi all’editoria aveva ridimensionato gli aiuti pubblici. Donazioni, aumenti di prezzo (fino a 5 euro il giovedì) e fondi pubblici (4 milioni e 3 nel 2010) non sono bastati a tenere in vita un giornale simbolo dell’informazione di sinistra della seconda metà del ‘900. Perchè? Perchè nessuno lo leggeva più. È la più semplice legge di mercato, se nessuno è interessato a comprare, non si vende.
È inutile non rendersi conto di come internet, l’informazione immediata su tablet e smartphone, il giornalismo dal basso dei blog e i servizi su you-tube abbiano dato, e stiano dando, una scossa notevole all’equilibrio del giornale cartaceo. Eppure un buon prodotto continua a vendere, come? Offrendoti qualcosa che gli altri non possono darti. Penso alle riviste allegate, ai libri ad un euro, a cd, dvd e coltelli da cucina non vendibili singolarmente, all’inserto viaggi, cucina, salute, auto, orologi, a tutte le proposte che invitano il lettore ad andare in edicola la mattina. Penso all’idea geniale di De Bortoli (o chi per lui) della collana ‘I classici del pensiero libero’ che portò in edicola ad un euro Kant, Locke e Cartesio insieme al Corriere della Sera, o la rinascita dell’allegato domenicale (gratuito) della Lettura, con copertine ‘regalate’ da grandi artisti contemporanei. Penso alla collana ‘cucina facile’ di Repubblica - ogni venerdì e sabato un libricino colorato con ricette tematiche (un euro) - o alla collana dei racconti d’autore del Sole 24 Ore in allegato con la splendida Domenica. Queste cose su internet non si possono trovare, un giornale per resistere nella giungla dell’informazione telematica del 2012 deve riuscire a vendersi bene, ad allegare, a regalare, ad offrire qualcosa che gli altri non possono darti neanche sul web. È la dura legge del mercato.

Giulio Silvano

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20 giugno 2012

In libreria

Letizia D'Angelo 
La più celebre penna femminile del giornalismo italiano.
Oriana Fallaci - Scrittore
Soveria Mannelli, Rubettino, 2011, 266 pp.
Descrizione
Oriana Fallaci, la più famosa penna femminile del giornalismo italiano, è qui riletta nella continuità di un’opera che attraversa, nelle sue luci e ombre, i drammi del Novecento fino all’apocalisse delle torri newyorkesi. Viene qui delineata la mappa di una rotta finora intentata, quella che voglia attraversare la vita e gli scritti della sulfurea autrice fiorentina nella loro completezza. Un’immersione nello sguardo vigile e pungente della giornalista che ha calcato le scene internazionali grazie alla sua qualità di pensar male, la cui Olivetti Lettera 32 ha fatto tremare i potenti, battendo il ritmo del cosiddetto secolo breve. Ne emerge una Fallaci liberata dalla zavorra delle polemiche e strumentalizzazioni politiche, rivestita dei panni a lei più consoni: quelli di «scrittore».
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L’Iran delle parole disarmate

 Curato da Ahmad Rafat, giornalista italo iraniano membro fondatore dell’associazione Iniziativa per la Libertà d’Espressione in Iran, L’ultima primavera è uno dei numerosi testi di analisi e di testimonianza diretta pubblicati dall’Information Safety and Freedom (ISF), associazione italiana che si occupa di libertà di informazione nel mondo e del cui comitato esecutivo fa parte lo stesso Rafat.
Dodici dei più illustri nomi del giornalismo iraniano raccontano esperienze di repressione, censura e autocensura nel proprio Paese. La lotta per la libertà di informazione attraverso gli occhi e le parole di Ahmad Rafat, Massoumeh Shafie, Maryam Afshang, Ahmad Zeydabadi, Mehrangiz Kar, Ebrahim Nabavi, Lili Farhadpour, Mashaollah Shamselvaezin, Emadeddin Baghi, Mohammad Ghouchani, Mohsen Sazgara, Bijan Rouhani. Ma anche di Stefano Marcelli e Roberto Reale, giornalisti italiani. Tanti nomi, persone e storie diverse. Denominatore comune il desiderio di un’informazione libera, svincolata dal potere, non censurata.
 Ciò che viene descritto nel libro ritrae in maniera inedita il Regime degli Ajatollah e delinea i confini di quell’opposizione liberale di cui però nessuno parla.
I pensieri e le esperienze dei giornalisti, tradotti e impressi su carta, omaggiano l’esercizio della libera espressione, in uno spirito solidaristico rivolto a scrittori e intellettuali ai quali è stato negato il diritto alla comunicazione e all’espressione.
E’ proprio Marcelli, presidente dell’associazione ISF, a scrivere le prime pagine, forse le più crude, sicuramente le più esemplificative. Racconta di Akbar Ganji, il giornalista rinchiuso nel carcere di Evin, “la casa dei fantasmi”, che nel suo settimanale Roche no (Nuova via) aveva denunciato i delitti compiuti dal regime contro gli intellettuali dissidenti e per questo condannato a 6 anni di reclusione. Resiste alle torture, non chiede la grazia, continua a scrivere dal carcere. Nell’estate del 2005 invita il popolo iraniano a boicottare le elezioni contro la prevista vittoria del falso riformista Khatami e inizia uno sciopero della fame che durerà 2 mesi. Si mobilitano per lui Amnesty International, le Nazioni Unite, Kofi Annan: ne denunciano le pessime condizioni, ma il giornalista non viene liberato. “Questa candela è quasi spenta - scrive dal carcere di Evin - ma questa voce non sarà messa a tacere”. Ma non si spegne, Ganji: verrà rilasciato nel 2006.
Anche Ahmad Zeidabai, oggi collaboratore della BBC World Service, fu imprigionato. Nel libro, mediante un’intervista, racconta che cosa ha significato lavorare in un giornale, Hamshahri (Il Cittadino), considerato il capofila del giornalismo indipendente iraniano dell’era post rivoluzionaria. Parla di autocensura, sostiene che solo in rare occasioni è riuscito a evitarla: “non è facile scrivere liberamente, quando si è appreso questo mestiere in un paese dove la censura è una regola e non un’eccezione”.
Viaggio nella storia del giornalismo iraniano, tra i tentativi compiuti dai giornalisti per poter esercitare con libertà e dignità la loro professione. Pagine e pagine alla scoperta dell’Iran più intellettualmente acceso e crudo, quello dei dissidenti disarmati che non usano altro messo mezzo se non la parola. Le donne e il giornalismo di Lili Farhadpour, il viaggio di un fotografo raccontato da Rouhani, e ancora il ruolo dei blog e la repressione in rete analizzati da Roberto Reale. E la conclusione, di Rafat: la speranza è l’ultima a morire.
Il coraggio unito all’entusiasmo e al desiderio di chi vuol “far sapere”, di chi ama il proprio paese e lo vuole libero, di chi difende la propria professione.
Inno alla libertà di manifestazione delle idee. Ciò che fa di un paese un paese democratico.  -
Irene Salinas

 

L'ultima primavera. La lotta per la libertà di informazione in Iran
a cura di Ahmad Rafat
Firenze, Polistampa, 2006, 160 pp.
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19 giugno 2012

La comunicazione come veicolo di convivenza pacifica

Dopo Penser la communication e Il faut sauver la communication, Dominique Wolton torna a riflettere sul tema a lui caro della comunicazione con un libro, ancora inedito in Italia, dal titolo “Informare non è comunicare”. Per l’Autore l’informazione equivale al messaggio e la comunicazione alla relazione. Da qui parte l’elaborazione della sua teoria, che approda al concetto di cohabitation, la convivenza.  Non è sufficiente interagire o trasmettere messaggi affinché gli uomini si comprendano meglio fra loro, visto che più circolano informazioni e più ci sarà “Incommunication”, termine coniato precedentemente dallo stesso Wolton, che si può provare a tradurre con incomunicabilità. E’ quando ci si scontra con una sana incomunicabilità che si deve cercare l’accordo, negoziare e, idealmente, giungere all’auspicata convivenza fra esseri umani tanto differenti fra loro.
Per molto tempo informazione e comunicazione sono stati considerati quasi come sinonimi, se non altro alleati nella difesa della libertà di espressione. Da quando però, soprattutto grazie a Internet, l’accesso all’informazione è diventato più rapido e la scelta più vasta, hanno cominciato a evidenziarsi le differenze fra i due termini. La possibilità per gli utenti di accedere facilmente a un bacino di informazioni sempre crescente non facilita allo stesso tempo la comunicazione, come si sarebbe portati a pensare in un primo momento. Questo perché oggi una delle caratteristiche principali dell’informazione è la velocità, spesso applicata senza riflettere anche alla comunicazione. Comunicare, però, richiede tempo, il tempo dell’essere umano, che non è quello della tecnologia e non potrà mai esserlo. Wolton ricorda che, come già prima di lui aveva sostenuto Paul Watzlazick, “Non è possibile non comunicare” e che gli individui comunicano per un bisogno di condivisione, di seduzione e per convincere gli altri delle proprie idee. Tuttavia, se prima l’obiettivo era quello di stabilire una comunicazione fra le persone, ora è piuttosto quello di gestire l’incomunicabilità, che per forza di cose nasce quando culture diverse si mettono in relazione.
In opposizione con la teoria predominante secondo la quale il progresso della tecnica determina un avanzamento della comunicazione, il saggio di Wolton è una dichiarazione di appartenenza ad un’altra teoria, meno diffusa, che, partendo dalla dimensione antropologica della comunicazione, si concentra sulle politiche necessarie a evitare che l’incomunicabilità diventi causa di conflitti. Il pensiero che l’Autore fa proprio è inscindibile dall’uguaglianza fra gli individui e dalla democrazia, senza le quali non ci potrebbe essere negoziazione. E’ questa la base teorica di cui egli si serve per condurre le numerose ricerche di cui si occupa, non ultima quella sulla francophonie. La mappa della francofonia, che si estende ben oltre il territorio metropolitano, toccando tutti i Paesi che un tempo furono colonie, nonché i départements d’Outre mer, anch’essi ex colonie ma oggi veri e propri distaccamenti territoriali francesi, ha stimolato grandi flussi migratori che hanno finito per trasformare la Francia in un importante laboratorio europeo di convivenza tra culture differenti.
Si potrebbe definire umanista la visione che l’Autore esprime in Informer n’est pas communiquer, quando ribadisce l’impossibilità di ridurre la comunicazione alla tecnica e sceglie lo scambio come orizzonte di ogni esperienza umana e sociale. Wolton si inserisce, così, in un campo già noto agli studiosi della comunicazione, riuscendo però a fare chiarezza su concetti che, sebbene ampiamente discussi, rimanevano alquanto nebulosi.
Camilla Trombi
Dominique Wolton
Informer n’est pas communiquer
Paris, CNRS Editions, 2010, pp. 147.









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18 giugno 2012

Il portale per la libertà di stampa e il diritto all’Informazione

LSDI – Libertà di Stampa, Diritto all’Informazione è “un gruppo di lavoro nato dall’iniziativa di alcuni amici impegnati nel mondo dell’informazione e, in parte, nella Federazione Nazionale della Stampa”, nato con l'obiettivo di :
 “far confluire in un unico spazio varie esperienze di riflessione, analisi e dibattito sui temi dell’informazione onde costituire un laboratorio di senso della professione giornalistica nel mondo contemporaneo e cercare di dare corpo all’utopia dl buon giornalismo.” .

LSDI è dunque il portale ideale per venire a conoscenza dei tanto decantati “giornalismi possibili” attraverso la discussione aperta dei pregi e dei difetti del “vetro”. Sondaggi, riflessioni, statistiche, appuntamenti ed eventi sono solo alcuni degli spunti offerti dal sito, il quale punta moltissimo sulle realtà giornalistiche extra italiane e sui modelli d’oltreoceano, ben diversi dal “nostro” modo di fare informazione e legati a paradigmi giornalistici aperti e ben disponibili alla novità e al cambiamento. Al di là delle diffuse preoccupazioni sulle possibilità di sopravvivenza del classico metodo di fare informazione e delle grandi testate internazionali sull’orlo del collasso economico-finanziario, notevole importanza viene attribuita al citizen journalism e ai fautori del modello partecipativo, al rapporto con le fonti nell’era digitale, alla multimedialità del prodotto informativo, alla qualità dello stesso e all’evoluzione della professione del giornalista nell’epoca di Facebook e Twitter (network sociali divenuti non solo veicoli quasi primari dell’informazione - comunicazione, ma persino fonti per la costruzione, l’assemblaggio e la presentazione della notizia).
All’interno di un “calderone” in cui si scontrano senza sosta antico e moderno, professionale e amatoriale, ufficialità e self-making, crisi editoriale e sviluppo tecnologico – interattivo, flussi unidirezionali e feedback sempre più dotati di poteri decisionali, LSDI  confronta il futuro e il passato dell’informazione, promuovendo altresì discussioni a raggio allargato presso eventi, convegni, conferenze, tavole rotonde, dibattiti e festivals (uno fra tutti, il Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia). Ancora, il portale presenta interessanti prospetti sulla libertà di stampa nelle varie zone del globo e sulle nuove legislazioni in merito.
Fra i vari articoli di LSDI  spiccano i report di alcuni sondaggi promossi da enti, associazioni, centri di ricerca, centri sperimentali e dipartimenti accademici, risultati che peraltro confermano la definitiva crisi dello stampato (e della fiducia riposta dalla cittadinanza dei lettori) a scapito della multimedialità web, l’aumento di blog e piattaforme virtuali personalizzate e personalizzabili, il declino del giornalisti con “penna e blocchetto” e delle grandi aziende editoriali, uno fra tutti, Rupert Murdoch, travolto congiuntamente dai drastici cali delle vendite nella madrepatria australiana (The Sun On Sunday) e dagli spinosi contenziosi giudiziari nel Regno Unito. Non per ultima, una valutazione fatta dal sito Career Cast.com che ha piazzato il cronista al 196° posto nella classifica dei lavori, appena prima dei contadini e dei soldati, completa un quadro non proprio soddisfacente della tradizionale professione giornalistica.
Accanto alle (spesso) funeste previsioni di questi sondaggi, Lsdi ha proposto anche vivaci riflessioni sulla contemporaneità dell’essere “gatekeeper” e “newsmaker” (gli scenari intravisti dal Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, la tesi di una studentessa della “Sapienza” di Roma su “passioni, vita e dolori del giornalista da precario” ...), i già citati nuovi modelli di giornalismo online tramite le piattaforme 2.0 (blog, social media...), alcuni consigli e “vademecum” per l’apprendista redattore “multitasker” alle prese con le sfaccettature della multimedialità (addirittura un manuale per diventare giornalista hacker scritto dal professor Giovanni Ziccardi e intitolato Il giornalista hacker. Piccola guida per un uso sicuro e consapevole della tecnologia), la filosofia della condivisione e dell’interazione dei network sociali, la nascita di nuovi progetti web non-profit (ad esempio la piattaforma di video giornalismo investigativo promossa dall’americana CIR – Center for Investigative Reporting) e l’impegno sociale dei “big” della virtualità contro il terrorismo e i crimini perpetrati in Rete.
Paolo Giorcelli

*link al sito di LSDI
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17 giugno 2012

Il Mediamondo di Quomedia

 
La rivista online "Quomedia. La convergenza della comunicazione" allarga il suo campo di riflessione all’intera categoria della comunicazione, proponendo brevi news anche sugli sviluppi più recenti della tecnologia (nuove versioni dei supporti elettronici, tablet, personal computer, cellulari), sulla situazione di mercato e sul business delle aziende più promettenti a livello globale e sugli attuali trend multimediali e sociali. Tali argomenti sono suddivisi in quattro settori: business e mercato, editoria e tlc, video e tv e internet e stampa.
Molto simili a lanci di agenzia, le notizie fornite dal sito interessano tutto il mondo della convergenza mediale, spaziando dal cartaceo alla televisione e a internet e soffermandosi perlopiù sulle possibilità di “unione” di queste diverse realtà tecnologiche per mezzo di programmi e contenuti distribuibili per più canali. Ed è così che il gossip si sposta dai classici rotocalchi ai social network (ad esempio, il confronto fra la quantità followers su Twitter di una e dell’altra celebrità), la cronaca si sofferma sulla pericolosità di hacker, pirati e criminali informatici, le nuove realtà editoriali prediligono immediatamente il web e i reality show puntano sempre di più sui feedback, sulle risposte immediate dei “surfers” virtuali nei confronti di un concorrente o della decisione della casa produttrice.
 Quomedia riserva particolare attenzione ai casi internazionali, puntando sulle singole vicende o sui singoli personaggi e analizzando il trend delle principali imprese editoriali globali, il corretto o errato sfruttamento della maggior parte dei media disponibili e il veicolamento delle news e delle views attraverso quest’ultimi, il valore commerciale dei più famosi brand tecnologico-informatici e le loro scelte di business, il rapporto fra politica e multimedialità, lo sviluppo del digital marketing, la programmazione delle emittenti televisive studiata in relazione alla multicanalità in Rete, l’approdo in Borsa dei social network, la rapida ascesa dell’e-book e la nascita di nuovi volti dello spettacolo grazie al web e alla condivisione virtuale.
Numerose sono stati gli articoli scelti dal sottoscritto, il quale ha ravvisato la semplicità e l’immediatezza di lettura e comprensione delle notizie riportate dal sito. Vorrei citare, ad esempio, alcune stime sulla diffusione del giornalismo online nei paesi in via di sviluppo (Africa in primis) e dei social network nell’ “invalicabile” Cina della censura e della repressione, le responsabilità penali di YouTube in territorio tedesco, la quotazione a Wall Street di Facebook (sull’indice Nasdaq e con il simbolo Fb), la classifica sulla fruizione dei browser (segnalando in particolar modo la rimonta di Internet Explorer su Firefox e Google Chrome) e alcuni dati sul tempo adoperato dagli utenti dei social network. Segnalo, infine, due casi eclatanti di licenziamento e arresto causati dal “cinguettio” di Twitter (appunto, il “tweet”), rispettivamente al giornalista sportivo francese Pierre Salviac, reo di aver ingiuriato la premiere dame Valerie Trierweiler, compagna del neo eletto presidente François Hollande, e a Nabeel Rajab, manifestante e direttore del Centro per i diritti umani. Queste ultime due vicende sono state evidenziate da Quomedia come esempi dell’ormai enorme potenziale del web partecipativo in quanto co-costruttore dell’opinione pubblica, strumento di condivisione di idee e pensieri nella flessibilità e nell’immediatezza spazio-temporale e artefice di un nuovo modo di “fare” politica che presto potrebbe addirittura surclassare i tradizionali e forse un po’ superati paradigmi della leadership e della massa informe e indistinta, segno di una democrazia che, grazie alla straordinarietà dei new media, può sognare una vera e propria utopia globalizzata.
Paolo Giorcelli

*link al sito di Quomedia

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16 giugno 2012

Inchiesta a sud di Lampedusa

Tempi duri per il giornalismo di qualità. Tempi duri, quindi, anche per il reportage e l'inchiesta che difficilmente trovano spazio, causa elevati costi economici, nell'informazione nostrana. Ma c'è sempre l'eccezione che conferma la regola. A sud di Lampedusa di Stefano Liberti ne è un esempio. L'autore, vincitore con questo libro del Premio Indro Montanelli, è uno dei pochi giornalisti italiani che seguono gli aspetti piò oscuri (e più facilmente soggetti a luoghi comuni) dei movimenti migratori dall'Africa verso l'Europa. Questo libro, frutto di cinque anni sulle rotte dei migranti, ci restituisce il quadro vivo e sfacettato di un fenomeno che l'appiattimento mediatico riduce a generalizzata, ingestibile "emergenza".
Andrea Ghiazza

Stefano Liberti
A sud di Lampedusa
Roma, Minimum fax, 2011, 210 pp.
*link alla scheda di presentazone e ad un estratto del libro sul sito di Minimum fax.

15 giugno 2012

La tipografia di Babele

ARMUS – Archivio Museo della Stampa
La tipografia di Babele. Giornali in 100 lingue
14 giugno - 14 luglio 2012


“La mostra, proveniente dalla Berio, ci evoca le mille e mille voci dal corpo di Gutenberg, uno straordinario corale cronachistico dell’Uomo Tipografico di McLuhaniana memoria che trova all’Armus il suo naturale compositoio”: così Francesco Pirella, Direttore dell’Armus, ha definito i giornali in mostra. Stampati in gran parte tra 1956 e 1960, provengono dalle foreste equatoriali africane, dal mondo arabo, dall’India, dall’Indonesia, dalla Cina, dalla Groenlandia e dai paesi allora molto lontani dell’Oltre Cortina europea come Bulgaria, Serbia, Cecoslovacchia, Polonia. Rappresentano la storica redazione del piombo operativa nell’intero pianeta. Fu Pierleone Massajoli (Torino, 1928 – Genova, 2011), antropologo ed etnolinguista tra i più importanti in Liguria, a conservare per 50 anni nei suoi cassetti questa raccolta di oltre 300 giornali, con precise etichette manoscritte che ne identificavano la lingua. È un lavoro di studio che con questa mostra abbiamo in qualche modo proseguito, ma che può essere ancora approfondito in varie direzioni: ad esempio, della storia della scrittura, dei mass-media e della stampa, dei problemi sociali delle minoranze linguistiche. Massajoli, studioso del brigasco, dialetto ligure alpino, ha diretto per 28 anni la rivista Il Nido d’Aquila, fondata nel 1983, che aveva ed ha tuttora al centro dei suoi interessi il rischio di estinzione delle minoranze linguistiche, perché “la morte di una lingua è il sintomo di una morte culturale: con la morte di una lingua scompare un modo di vivere”, ci ricordano Daniel Nettle e Suzanne Romaine.
A cura di Alberto Nocerino in collaborazione con Laura Castelli Massajoli, Francesca e Matilde Massajoli. Progetto espositivo dell’Armus. Assistenza: Giorgio Tanasini con Giancarlo Peroni, Giovanni Richelmi e Gian Franco Crosta, Riccardo Palanti.
Archivio Museo della Stampa
Magazzini dell’Abbondanza al Porto Antico – Palazzo Verde
Via del Molo 65 – 16128 Genova
Orari:
* 11.30 – 18.30 dal mercoledì al venerdì
* 10.00 – 17.00 sabato e domenica
* Chiuso al lunedì e al martedì

Ingresso libero

14 giugno 2012

Asinara Revolution

Il blog L'isola dei Cassintegrati nasce per dar voce alla protesta di 3000 operai di Porto Torres licenziati dalla Vinyls. Gli operai cercano in tutti i modi di raggiungere l'agenda dei media nazionali: manifestano a Roma, occupano l'aeroporto, bloccano i traghetti. Ma ottengono solo poche righe sulla stampa locale. Decidono allora di occupare l'ex carcere di massima sicurezza sull'isola di Asinara. Michele Azzu e Marco Nurru, due ragazzi di poco più di vent'anni, sentendo di quest'occupazione decidono di aprire un blog per denunciare e rendere pubblica la situazione di estremo disagio che stavano vivendo uomini e donne senza una prospettiva di lavoro. La storia di questi coraggiosi e dignitosi operai che per mesi e mesi si sono visti prendere in giro da sindacati, dirigenti d’azienda e politici, è diventato un libro intitolato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), che descrive sin dall’inizio il desiderio di aiutare quella gente sarda in difficoltà.
I due audaci blogger, vincitori del Premio Eretici Digitali nella scorsa edizione del Festival del giornalismo di Perugia, sono i protagonisti di questo panel. A fargli da spalla ci sono i giornalisti Alessandro Gilioli de L’Espresso e Luca Telese di In Onda (LA7) che hanno discusso sull'efficacia comunicativa dei blog e sull'intuizione avuta da Azzu e Nurra. Giglioli afferma che l'idea di fare una parodia de L'Isola dei Famosi per raccontare in modo ironico le tristi vicende degli operai sardi ha dato alla questione un'ampia visibilità sia a livello nazionale che fuori dall'Italia. Purtroppo a questo non sono seguite le risposte politiche che ci si aspettava. Il lavoro di Azzu e Nurra, ha spiegato Telese, è una grande operazione comunicativa che racconta il “non lavoro”, o meglio, quella realtà priva di occupazione in cui vivono o sopravvivono buona parte degli operai italiani. Il blog e il romanzo rappresentano una meta narrazione dell'isola, una storia che è una metafora dell'Italia. Una storia di giornalismo.
Anna Lucia Dimasi

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13 giugno 2012

"Il Lavoro" di Genova


 “…sui banchi di pietra se ne stanno seduti i vecchi del porto con “Il Lavoro” in mano ancora da sfogliare, muti e attenti come se ci fosse bisogno di loro per presidiare anche solo il riflesso del varco di Caricamento, l’ultima porta della città. […] I giovani portano tutti le giacchette della festa, come era la moda solo pochi anni fa e tengono il Lavoro infilato nella tasca posteriore dei calzoni. Il giornale spunta fuori dal lembo della giacca, come un attrezzo di lavoro tenuto pronto per l’evenienza.”

Maurizio Maggiani (La Regina disadorna, 2002, pp. 83-84).
Giovedì 14 giugno 2012 ore 17.30
Sala del Consiglio Provinciale
Largo Eros Lanfranco, 1 Genova

Presentazione del volume
"Il Lavoro" di Genova. Storie e testimonianze (1903 - 1992)
a cura di Marina Milan e Luca Rolandi
Genova, Provincia di Genova,  2012, 401 pp. 
In occasione della digitalizzazione del quotidiano.

Saluto di Piero Fossati - Commissario straordinario della Provincia di Genova.
I
nterventi di Tirreno Bianchi - Compagnia Pietro Chiesa; Francesco De Nicola - Università degli studi di Genova; Franco Manzitti - Ultimo direttore de "Il Lavoro";
Franco Monteverde - Capo Redattore de "la Repubblica" di Genova.
Saranno presenti gli Autori.

Link al video
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11 giugno 2012

In libreria

Andrea Sangiovanni
Le parole e le figure.
Storia dei media in Italia dall’età liberale alla seconda guerra mondiale
Roma, Donzelli,  2012, 374 pp.
Descrizione
C’è stata una «rete» capace di connettere il mondo molto prima di internet. «L’intera superficie del paese – sosteneva infatti Samuel Morse nel 1873, a proposito del telegrafo e degli Stati Uniti – sarà solcata da quei nervi che hanno il compito di diffondere, alla velocità del pensiero, la conoscenza di tutto quello che accade in tutto il territorio, cosa che trasformerà l’intero paese in un unico grande quartiere»: ecco le fondamenta della contemporanea comunicazione di massa, di quello che McLuhan avrebbe definito «villaggio globale». Il libro ripercorre, in un continuo confronto con i modelli internazionali, la nascita e l’evoluzione in Italia di un sistema dei media fondato sulla parola e l’immagine. Parole scritte e lette, attraverso l’industria del libro e della stampa quotidiana e periodica, ma anche ascoltate, attraverso gli strumenti per la riproduzione meccanica del suono e la radio. E immagini, figure che occhieggiano ammiccanti dai manifesti suggerendo nuovi consumi, o che vengono disegnate dalla luce, dalla «matita della natura», come uno dei primi sperimentatori, William Talbot, definiva la fotografia. O, ancora, che iniziano ad animarsi nelle sequenze fotografiche di Muybridge e stupiscono il mondo con i primi rulli cinematografici dei fratelli Lumière. Intrecciando prospettive diverse – dalla storia della tecnologia a quella sociale, dalle trasformazioni dei linguaggi alla costruzione dei pubblici – prende forma, in queste pagine, l’avvincente ricostruzione del lungo processo di formazione del sistema delle comunicazioni di massa nel nostro paese.

10 giugno 2012

In libreria

Geert Lovink
Ossessioni collettive. Critica dei social media
 Milano, Egea, 2012, 304 pp.
Descrizione
Con la grande maggioranza degli utenti di Facebook presa dalla smania di aggiungere amici, scrivere «mi piace», lasciare commenti, sarebbe forse il caso di fermarci e riflettere sugli effetti che i social network hanno sulle nostre vite oramai sature di informazioni. Che cosa ci spinge, quasi fosse un obbligo, a impegnarci tanto diligentemente con i diversi network? Il libro esamina la nostra ossessione collettiva per l’identità e il management di sé stessi coniugati con la frammentazione e il sovraccarico di informazione della cultura online. Lovink traccia un percorso innovativo, analizzando criticamente motori di ricerca, video online, blog, radio digitale, mediattivismo e Wikileaks. Questo libro lancia un forte messaggio rivolto a tutti gli utenti della Rete: liberiamo le nostre capacità critiche e cerchiamo di influenzare tecnologia e spazi di lavoro, o saremo destinati a sparire nella Rete. Pungente e acuto, senza essere pessimista, Lovink offre una critica delle strutture politiche e del potere incorporati nelle tecnologie che modellano la nostra vita quotidiana.
*Link all'Indice  e alla Prefazione

08 giugno 2012

Tempi duri per il giornalismo di qualità

“Se al giornalista si impone la museruola, è la democrazia a essere strangolata”. Parola di Stephan Russ-Mohl docente di Giornalismo a Lugano nell'Università della Svizzera italiana e direttore di EJO, European Journalism Observatory. C'è da crederci. Il suo compendio teorico e pratico sul Fare giornalismo presenta subito una atipicità: è scritto da un accademico e non da un vero e proprio giornalista. Anche se Russ-Mohl come è solito definire lui stesso, sovente “si sporca le mani” collaborando attivamente con diversi giornali. Definirlo un manuale brillante, dedicato solamente agli aspiranti giornalisti, sarebbe riduttivo. Vuole essere un compendio per i giovani che si vogliono avvicinare alla professione e un ulteriore stimolo per i professionisti nel loro quotidiano lavoro di redazione e di management. L'autore colloca la sua opera come un ponte tra le generazioni che permetta di trarre insegnamenti dal passato in termini di professionalità, indipendenza e credibilità senza però tralasciare le potenzialità future del giornalismo. Il volume risulta scorrevole e mai banale e soprattutto vuole essere informativo.  C'è subito un aspetto da chiarire. Fare Giornalismo presenta un punto debole per ammissione dello stesso autore: concentra la sua attenzione sulla stampa. È una scelta ben precisa. Russ-Mohl non ha dubbi: “il mestiere si impara al meglio dai quotidiani”. Un mestiere che presenta differenti sfumature a seconda del diverso contesto geografico e culturale ma il professore svizzero supera questi ostacoli operando una netta distinzione tra i diversi modelli: italiano e anglosassone in testa. Ma avendo un unico obiettivo comune: la ricerca e la finalità di una professione che faccia della qualità e dell'obiettività la sua arma vincente. Compito ancora più difficile in Italia dove l'indipendenza da qualsiasi forma di potere si scontra inevitabilmente con la precisa scelta editoriale dei quotidiani. Ecco svelato il tallone d'Achille del giornalismo “oggettivo”. L'informazione nostrana definita “plagiata” da John Street e “dimezzata” da Giampaolo Pansa deve quindi superare il parallelismo tra media e politica. Il sostanziale collateralismo tra giornalismo e potere politico ed economico mina, così, la credibilità dell'intero settore. Inoltre in Italia per raggiungere pubblici sempre più vasti e numerosi si segue la strada del sensazionalismo e della spettacolarizzazione fino ad arrivare ai titoli “gridati”. Russ-Mohl però ha l'antidoto giusto: consigli pratici, utili e preziosi che permettono di perseguire un esercizio di bella scrittura rimanendo il più possibile ancorati alla realtà dei fatti. O meglio alle numerose sfaccettature della realtà che devono essere scandagliate e analizzate. Perché fare giornalismo è in primo luogo sinonimo di ricerca, indagine, investimento, controllo. Significa non accontentarsi, ampliare le proprie prospettive, non perdere nemmeno un dettaglio. Utile e pratica la parte dedicata alle responsabilità del giornalista dove ci si addentra nei meandri del diritto dell'informazione in Italia al fine di svelare i limiti della professione e tutelare la figura del giornalista. Davvero interessante e ricco di spunti il capitolo relativo alla deontologia professionale e alle “vittime”delle notizie- come le definisce Russ-Mohl – ossia coloro che hanno subito un danno per negligenza o irresponsabilità del giornalista. Come si vede l'autore svizzero spiega le regole di un mestiere affascinante ma non dimentica gli aspetti critici che contraddistinguono il giornalismo. Questa ingegnosa ricerca di autocritica, cosa rara in un mestiere talvolta ovattato, incontra altri aspetti: la crescente dipendenza del giornalismo dalle pubbliche relazioni e il futuro incerto ai tempi di Internet, in cui nessuno è disposto a pagare per le notizie e per l'approfondimento competente.
Un manuale che si presenta come una via al giornalismo in cui non mancano la scorrevolezza di esposizione, l'ironia e l'atteggiamento culturale fermo e deciso di chi vuole un giornalismo migliore.
Andrea Ghiazza

Stephan Russ-Mohl
Fare giornalismo
Bologna, Il Mulino, 2011, 219 pp.
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07 giugno 2012

Canottiere muore in allenamento, tutto tace

Nessuna edizione straordinaria di un qualche telegiornale. Nessun servizio con musica straziante di sottofondo. Nessun articolo degno di nota. Il nulla più totale se non per qualche raro trafiletto, apparso qua e la sul web.
Così l'Italia ricorda per l'ultima volta il canottiere 24enne Nemanja Nesic, morto il 6 giugno, durante un allenamento in preparazione della Coppa del Mondo di Monaco, ultima tappa di avvicinamento alle Olimpiadi di Londra 2012, alle quali il giovane atleta avrebbe partecipato sul quattro senza pesi leggeri, delle nazionale croata.
Che l'Italia sia ormai una Nazione "schiava" del calcio, è più che mai appurato. Che i media non riescano a trovare neanche lo spazio per un giovane atleta, morto facendo ciò che più amava, appare però ancor più sconfortante.
La domanda che sorge spontanea, è che cosa occorra quindi per essere degni di attenzione.
Forse non bastano i 13 allenamenti massacranti la settimana, le 8/9 ore quotidiane, i 40/50 km percorsi ogni giorno senza mai lamentarsi, la sveglia puntata ogni giorno alle 5.30, o il doversi pagare una palestra per allenarsi e per prepararsi alle Olimpiadi.
È invece giusto premiare quotidianamente gli strapagati e viziati calciatori. È giusto premiare persone che in periodi difficili come quelli attuali, truccano le partite per guadagnare ancor più soldi.
Questo è il triste destino di tutti gli sport meno diffusi, meno praticati o perchè no, soltanto meno conosciuti al grande pubblico. Questo è il destino di quegli sport che ingiustamente vengono definiti "minori", ma che minori sono solo nei budget.
Occorre ridefinire il concetto di sport, ormai sinonimo di calcio. Occorre segnalare e premiare i numerosi volontari e dopolavoristi, che in Italia ogni giorno, si allenano e allenano, portando avanti piccole società, veri e propri centri di aggregazione giovanile.
Occorre finirla di accorgersi di questi ragazzi una volta ogni quattro anni, solo se sul gradino più alto del podio olimpico, o solo se coinvolti in notizie di gossip da giornale estivo.
Ciò che però è essenziale, è un cambiamento del nostro atteggiamento, di tutti i lettori, spettatori e amanti dello sport, con la speranza che in futuro, non vi siano più morti di serie a e di serie b.
Francesco Malerba

06 giugno 2012

L’European Journalism Centre

L’European Journalism Centre è un istituto non-profit indipendente e internazionale con sede a Maastricht. È un importante centro di formazione e aggiornamento per i giornalisti e i professionisti della comunicazione. EJC ha realizzato numerosi progetti e seminari e gioca un ruolo unico a livello europeo come partner di scuole di giornalismo e di media companies. Le sue finalità sono: promuovere un giornalismo di qualità in tutto il contesto europeo e nei paesi in via di sviluppo; formare giornalisti in grado di rispondere alle esigenze dell’industria dei media; stimolare la riflessione sulle sfide del presente e del futuro, attraverso ricerche, questionari e pubblicazioni; promuovere la discussione, il dibattito e lo scambio di opinioni ed esperienze tra giornalisti.
Nell’ultimo anno, si è concentrato sulle criticità della situazione del giornalismo nei paesi in condizione di crisi. Tra i vari articoli, consultabili sul sito www.ejc.net, ricordo: “How to survive as a journalist in Somalia”, pubblicato il 14/03/2012; “How to practise investigative journalism in the Arab region”, pubblicato il 5/03/2012 e “Media freedom in Israel eroding fast”, pubblicato il 28/11/2011. Oltre agli articoli sulla libertà di stampa, un ampio spazio è stato dedicato anche alla formazione tecnica del mestiere del giornalista: “Tips for writing radio news scripts” è un articolo del 7/12/2011 che dà suggerimenti su come scrivere il copione dei lanci delle notizie alla radio e “How to use quotes in news and features” del 13/02/2012 sull’uso delle virgolette. Vorrei porre attenzione anche sugli articoli riguardanti la rivoluzione tecnologica: “The future of news: crowdsourced and connected” del 1/12/2011 sul cambiamento dei modelli di consumo delle notizie, e “Minority voices on social media networks” del 23/11/2011 sul caso specifico delle minoranze presenti in Europa e di come hanno cercato l’aggregazione sui social media. 
Selena Zamarian
* Link al sito di European Journalism Centre

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L’Osservatorio europeo di giornalismo

L’ Osservatorio europeo di giornalismoEuropean Journalism Observatory (EJO) – è un centro di studi non-profit dell’Università della Svizzera italiana. Ha sede a Lugano ed è stato inaugurato nel 2004 con il sostegno della Fondazione per il Corriere del Ticino. Il progetto di EJO è quello di avvicinare il mondo accademico della comunicazione e dei ricercatori a quello dei professionisti dei media. EJO si occupa di: comparare i diversi sistemi e le ricerche scientifiche provenienti da Europa e Stati Uniti al fine di rilevare le innovazioni tecnologiche e le tendenze più significative; monitorare come l’industria editoriale e la cultura giornalistica si evolvono; avviare ricerche proprie per contribuire al miglioramento della professione giornalistica; organizzare conferenze e workshop. EJO gestisce, inoltre, il sito internet www.ejo.ch, sul quale è possibile consultare la maggior parte delle pubblicazioni. I suoi studi hanno una visione transnazionale e sono condotti da ricercatori e collaboratori con esperienza internazionale, in particolare svizzeri, tedeschi e italiani. Per quanto riguarda il team italiano, il direttore è Stephan Russ-Mohl, professore di Giornalismo e Media Management. L’Osservatorio si rivolge ai professionisti del settore, ma anche ai non addetti ai lavori, poiché gli argomenti trattati interessano tutti noi come cittadini e come fruitori dei media.
La maggior parte delle notizie tratta il tema del web e di come l’informazione passa attraverso internet. Nella sezione che raccoglie gli articoli sulla libertà di stampa, EJO si è occupato di come la censura da parte di alcuni governi è attuata sulla rete. Negli articoli più recenti, si parla di Cina, Iran e Birmania. L’Osservatorio ha anche rivolto particolare attenzione all’attualissima competizione tra giornalismo digitale e giornalismo tradizionale. In particolare, in risposta alla crisi che sta attraversando la carta stampata, sta svolgendo un’indagine su alcune testate internazionali per offrire un panorama completo sui diversi modelli di business adottati dai giornali per creare nuove fonti di ricavo. Al momento, sono stati analizzati Il Sole24 Ore, Le Monde, il Financial Times, The Guardian, El País, The Times e il New York Times e per ogni testata sono state presentate le strategie messe in atto per quanto riguarda sia la versione online dei giornali, sia gli abbonamenti alle applicazioni a pagamento. Anche se al momento la ricerca non risulta ancora conclusa, l’Osservatorio ha comunque constatato che non esiste una soluzione univoca adatta a tutti, ma che ciascuna testata deve trovare la propria strada in base alle singole caratteristiche e alla tipologia di pubblico di riferimento, differenziandosi dalla concorrenza diretta . Per esempio, Il Sole24 Ore punta molto sullo sviluppo del business online con un piano strategico multipiattaforma; Le Monde, El País e The Guardian hanno un approccio più social e più open, attraverso l’utilizzo di chat, reti sociali e blog che consentono la comunicazione diretta tra il lettore e il giornalista; il Financial Times e The Times puntano sulla credibilità e sull’assenza della pubblicità, proponendo i contenuti online esclusivamente a pagamento; mentre per il New York Times cresce il numero di copie pagate anche grazie alla versione online, ma crollano i ricavi della pubblicità. La tendenza per il futuro, secondo l’Osservatorio, è quella di puntare su metodi alternativi alla pubblicità e su nuove strategie per attirare i lettori .
Selena Zamarian




05 giugno 2012

Un libro, una speranza

 L’Africa dimenticata, l’Africa tribale, nera. Luoghi comuni nati dalla disinformazione.
Africa & Media, pubblicato per iniziativa del Gruppo Abele di don Luigi Ciotti, è un libro sull’Africa, il suo territorio sconfinato e i suoi abitanti, sui media africani che parlano degli africani, e sui media internazionali che parlano troppo poco e in maniera sbagliata di essi. Si tratta di un insieme di racconti, articoli, riflessioni di studiosi e giornalisti impegnati… Impegnati soprattutto a sciogliere i nodi dell’informazione e far dimenticare quei luoghi comuni.
La realtà africana per quanto riguarda il mondo dell’informazione è davvero complicata: nonostante la diffusione dei mezzi di comunicazione stia aumentando, negli ultimi anni  il pubblico che ha la possibilità di accedervi rimane ristretto all’élite urbana. Alcuni dati rendono davvero l’idea: la diffusione dei giornali nell’africa subsahariana è di 12 copie ogni mille abitanti, e a stento arriva a 33 nel Nordafrica. La televisione resta uno strumento di lusso, accessibile solo a pochi, sia per il costo dell’apparecchio in sé, sia perché la maggior parte della popolazione non ha accesso alla corrente elettrica nelle proprie abitazioni.  Il mezzo di comunicazione più diffuso è la radio. Le radioline portatili che funzionano a batterie e che si possono portare al collo durante i lavori nei campi. Le radio che trasmettono musica, ma che subiscono pesanti limitazioni della libertà sui temi politici, sociali ed economici. La sete di informazione è tale che anche le emittenti religiose, riducono spesso al minimo il loro obiettivi evangelici prediligendo una programmazione che aiuti e sostenga gli ascoltatori nella loro quotidianità. La radio, soprattutto nell’Africa subsahariana è l’unico mezzo di comunicazione davvero di massa e, come tale, in grado di diffondere messaggi tanto positivi quanto negativi. In Rwanda, l’azione propagandistica di Radio Milles Collines è stata il mezzo principale attraverso il quale si è potuto attuare uno dei peggiori genocidi della storia, nel 1994. Un lungo lavoro di pianificazione e preparazione durato anni e realizzato attraverso la radio ufficiale e radio Milles Collines ha istigato la popolazione, divisa tra hutu e tutsi, all’odio etnico, trasformando o, almeno non facendo apparire il conflitto per quello che in realtà era: un conflitto meramente politico.
Ma il libro, anche attraverso questa esperienza (certamente negativa, ma con una forza immensa), fa intravedere cosa può diventare il sistema mediatico africano. Dal 1995 è stato liberalizzato l’etere e sono nate le emittenti private e comunitarie, che nonostante le limitazioni politiche, continuano le loro trasmissioni grazie a giovani africani caparbi e italiani che hanno creato piccole emittenti e scuole per insegnare ai giovani tutto ciò che permetta loro di abbattere i costi di creazione e manutenzione degli apparecchi. La politica, le istituzioni ed anche la comunità internazionale devono intervenire per creare un’industria, un mercato autoctoni: non più o non solo aiuti calati dall’alto, ma trasmissione delle competenze, del know-how che permetta ai giovani di fare "Un salto di qualità ed uscire da quello stato di “non conoscenza” che nutre conflitti e guerre" (Romano Prodi). Sembra assurdo pensare allo sviluppo dei media in un continente in cui il problema quotidiano è sopravvivere, alle guerre, alle malattie, alla fame. Eppure attraverso i media si può, come nell’Italia degli anni ’50, insegnare, alfabetizzare, diffondere una cultura che possa permettere alle nuove generazioni di cambiare le cose.
E i mezzi occidentali, per esempio durante il genocidio del Rwanda, dov’erano? Erano distratti… Distratti dalle prime elezioni libere in Sudafrica dopo l’apartheid. Erano nello stesso continente, ma pronti a raccontare una storia felice. I giornali occidentali non potevano mandare altri inviati: i fondi destinati alla sezione esteri erano e sono troppo limitati.  In Italia poi…
Le notizie restano sui computer delle agenzie; la cronaca, la politica, lo sport occupano tutto lo spazio disponibile sulla pagina dei quotidiani così come nell’agenda del pubblico. Quindi le notizie che riescono a sfondare qualche muro sono le istantanee dell’Africa, i visi dei bambini in lacrime o il resoconto di un avvenimento tragico. Mai approfonditi, mai inseriti in un contesto culturale o storico. Contesti che è necessario spiegare ad un pubblico occidentale poiché possa capire una cultura diversa dalla propria. Contesti e approfondimenti che permettano al pubblico di smettere di catalogare le “cose africane” come incomprensibili, ataviche, assurde.  Sui nostri quotidiani "Le guerre sono sempre etniche o tribali; la corruzione è sempre naturale; la violenza rientra nell’ordine della normalità africana, qualcosa di intrinsecamente connaturato alla visione del mondo e al modo di essere dei popoli del continente e dei loro dirigenti" (Jean-Léonard Touadi_ giornalista Rai e insegnante).
Questo libro, nonostante le difficoltà che incontra come qualunque media parli di Africa (a soli 3 anni dalla sua pubblicazione è introvabile in librerie e biblioteche: ho contattato direttamente l’autore per averne una copia ) cerca di rompere qualche muro, cerca di insegnare a guardare la positività intrinseca all’Africa, proprio come si fa per qualsiasi altro paese occidentale e dovrebbe essere letto per acquisire una conoscenza che permetta anche a noi, nuove generazioni occidentali, di cambiare le cose.
Giulia Corazza

 
Africa & Media,
Giornalismi e cronache da continente dimenticato.
a cura di Mario Sarti
Torino,  EGA editore, 2009, 170 pp.

04 giugno 2012

Sul giornale non l’ho letto

Terrorismo, attentati, Al-Qaida. Queste le parole ricorrenti sui nostri giornali quando si tratta di Mondo arabo. Ma succede solo questo? I media europei trattano a sufficienza le vicende di questi paesi? Forse no. Ed è proprio questo lo scopo del libro: analizzare come i media coinvolti in quest’area abbiano trattato gli argomenti, e in particolare quanto sia profonda la loro conoscenza del contesto politico ed economico dei paesi in esame.
Ogni giorno sui nostri quotidiani leggiamo notizie di politica estera ed economia, ma quante volte questi articoli riguardano i paesi arabi? Quasi mai. Quando accade i temi ricorrenti sono appunto quelli del terrorismo, degli attentati, mai delle guerre interne ai paesi, della loro situazione politica, dell’economia.
Lo Yemen è uno Stato posto all’estremità meridionale della Penisola araba, diviso da gravissime rivolte che hanno portato a una considerevole crisi interna, indebolendo in maniera sostanziosa il sistema istituzionale. È un paese in difficoltà, le istituzioni sono deboli, è considerato lo Stato più povero del Mondo, con alti tassi di disoccupazione e forte crescita demografica; una ricerca delle Nazioni Unite da anni pone il paese in fondo a tutte le statistiche regionali per l’indice di sviluppo umano. La situazione è ancora più grave se si pensa che ben presto le risorse idriche del paese saranno del tutto esaurite.
Non è questo però quello che interessa ai media internazionali. In particolar modo in Italia l’attenzione sulla crisi yemenita e sulla debolezza delle istituzioni è assolutamente assente.
La sicurezza internazionale è argomento rilevante. Nessuno si occupa di indagare e riferire i concreti fattori di rischio che rendono così fragile il paese. Solo le principali testate arabe si occupano di fornire ai propri lettori delle informazioni sempre più dettagliate sulla situazione interna, economica e politica, di questi Stati.
La ricerca di Anna Marina Medici effettuata sui maggiori quotidiani europei, di cui due italiani, mostra quanto questa situazione sia grave; le informazioni sono limitate a quelli che sono, secondo chi scrive, gli argomenti di maggiore interesse. Forse però chi legge non può capire a fondo ciò che succede se non viene fornito un quadro completo della situazione. Questo è il più grande errore commesso dai media: i lettori/telespettatori non vengono messi nelle giuste condizioni per farsi una propria idea sulla situazione, non vengono forniti gli elementi necessari.
Eppure l’Italia dovrebbe essere molto interessata alla stabilità dello Yemen, sia per il suo passato di collaborazione, sia per motivi economici. Nel 1926 l’Italia fu il primo paese in assoluto a stabilire regolari relazioni diplomatiche con lo Yemen; da tempo cerca inoltre di contribuire alla stabilizzazione e alla democratizzazione dell’area.
L’Italia è quindi costantemente presente sul territorio ma l’opinione pubblica ha sempre sottostimato o addirittura ignorato i più importanti fattori di destabilizzazione nello Yemen e la gravità dei suoi conflitti interni.
Una sola ricorrente notizia ci arriva costantemente: lo Yemen è una pericolosa nuova “base” per il terrorismo internazionale.
Alessandra Farina


Yemen: la crisi e la sicurezza
Informazione e opinione pubblica in Europa e nel Golfo
A cura di Anna Maria Medici
Milano, Mimesis, 2011, 96 pp.


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02 giugno 2012

In libreria

Giuseppe Costa, Giuseppe Merola, Luca Caruso
Giornalismo e Religione. Storia, Metodo e Testi
Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana 2012,  840 pp.

Prima Comunicazione: la rivista dei giornalisti

Prima Comunicazione è una rivista di informazione che, mensilmente, pubblica storie, notizie, interviste e voci sull’evoluzione e sui progressi del mondo dell’informazione e della comunicazione. Nasce a Milano nel 1973 da un’idea di Umberto Brunetti e Alessandra Ravetta. “La comunicazione come tecnica di potere” è la frase che compariva sopra la testata di Prima dal 1973 al 1976 e che esprime la volontà da parte dei fondatori di creare “non un giornale per i giornalisti, ma una cronaca dell’informazione e dell’uso che la società ne faceva” . Questa rivista è uno strumento indispensabile per capire come funziona e cosa succede nel mondo del giornalismo, della televisione, della pubblicità, della comunicazione pubblica e dei nuovi media. Prima si indirizza, quindi, alla società dell’informazione e, più precisamente, a un pubblico di opinion leader e professionisti della comunicazione: direttori, editori, giornalisti, politici, professori universitari, responsabili della pubblicità e delle relazioni pubbliche.
Prima Comunicazione si presenta con una veste grafica ordinata e strutturata. Le principali rubriche sono:
- Borsino dei direttori, la vita, la storia professionale e qualche curiosità sui giornalisti che arrivano in cima – ogni mese, presenta quattro o cinque giornalisti;
- Fatti & Flash, fatti e notizie della editoria, della tivù, di internet e della comunicazione;
- Lavori in corso, leggi e norme della comunicazione in parlamento;
- E la barca va, gli avvenimenti della economia, della finanza e della borsa. E dei giornali che li raccontano – a cura di Carlo Riva;
- Tendenze digitali, trend di quotidiani e periodici – con alcune considerazioni su direttori, redazioni e concorrenza.
Negli ultimi due anni, Prima Comunicazione ha intervistato numerosi professionisti dell’informazione, direttori o giornalisti autorevoli, dedicando loro il servizio di copertina. Ne ricordo alcuni:
- marzo 2012: intervista a Marco Tarquinio, direttore dell’Avvenire;
- dicembre 2011: articolo dedicato a Giorgio Napolitano. Grazie al suo modo di fare comunicazione, è stato definito l’uomo dell’anno. Non esiste nessuna strategia di marketing o regia comunicativa che gli impone come comportarsi, è lui in persona che decide quando e cosa comunicare, il suo modo di essere diventa comunicazione ed è consapevole che ogni parola che pronuncia è destinata a pesare;
- settembre 2011: il direttore Roberto Napoletano spiega che il Sole24ore fa un’informazione più ‘documentale’ e ha recuperato il rigore e l’identità storica che gli appartenevano;
- marzo 2011: intervista a Monica Mondardini, amministratore delegato del gruppo editoriale L’Espresso;
- gennaio 2011: il direttore dell’Espresso Bruno Manfellotto racconta a Prima il rilancio e il restyling della rivista;
- dicembre 2010: l’ex-direttore di Raitre Paolo Ruffini racconta il successo e l’esplosione di audience per le quattro puntate di ‘Vieni via con me’ e di una serie consistente di programmi che ha ricevuto buoni riscontri da parte del pubblico: ‘Ballarò’, ‘Che tempo che fa’, ‘Report’;
- settembre 2010: l’editore radiofonico Eduardo Montefusco dà spiegazioni sul perché il business della radio gode di ottima saluta e registra sorprendenti guadagni attraendo pubblicità, a differenza delle redazioni giornalistiche e degli studi televisivi. A seguito dello switch off, in tivù si sono moltiplicati i canali e le grandi reti hanno subito un calo dello share. La radio non corre questo pericolo perché crea un legame particolare, un feeling con l’ascoltatore, di conseguenza alla radio preferita si resta sempre legati.
Sulle pagine di Prima, sono spesso presenti notizie e tendenze che riguardano il mondo digitale. Riporto alcuni articoli: “La libertà corre sul web” (ottobre 2011, p. 80), articolo che parla di Digital Democracy, un’organizzazione che nei Paesi in via di sviluppo insegna a usare la tecnologia come strumento di partecipazione politica; “Attacco Banzai alle fortezze dell’editoria on line” (aprile 2011, p.67), dedicato a Banzai Media, una holding che ha guadagnato molto successo su Internet; “Ora si può fare” (settembre 2010, p.79), presenta il nuovo quotidiano online Lettera43.
Prima Comunicazione è presente anche su internet con un proprio sito http://www.primaoline.it/, nel quale si trovano anche i classici “bottoni” che rinviano alle pagine di Facebook e Twitter. Nella sezione In edicola, è possibile leggere una parte di alcuni articoli tratti dall’edizione cartacea, mentre nella sezione Primaonline, sono pubblicate integralmente alcune interviste e notizie in anteprima, alle quali i lettori possono rispondere, pubblicando i propri commenti.
La tendenza di Prima Comunicazione è quella di raccontare i successi di chi ce l’ha fatta, di chi è arrivato in alto. Prima tratta in modo specifico i temi legati al mondo dell’informazione, un settore che oggi sta attraversando un periodo di crisi, di instabilità e di incertezza per il futuro. Ciononostante, le sue scelte ricadono sui protagonisti e sulle storie di chi rischia, proponendo al mercato qualcosa di innovativo, o di chi ha già ottenuto successo. Prima ha uno sguardo sul mondo dell’informazione che è positivo, offre tutte le informazioni e i dati necessari affinché i lettori, principalmente professionisti che già lavorano nel mondo della comunicazione, siano costantemente informati. Grazie a Prima, i lettori possono monitorare il mercato e prendere spunto, soprattutto sulle tendenze in ambito digitale ed evitare, così, di rischiare di trovarsi impreparati ai cambiamenti.
Selena Zamarian

*link al sito di Prima Comunicazione
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