Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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31 gennaio 2019

In libreria

Ambrogio Borsani
La claque del libro. 

Storia della pubblicità editoriale da Gutenberg ai nostri giorni
Neri Pozza, Milano, 2019, pp. 187.

Descrizione

Abbandonato l'utero dello stampatore il libro si trova di fronte la spaventosa giungla del mercato. Editori rivali, eserciti di concorrenti, scrittori invidiosi, cecchini della critica, influencer malevoli. E su tutti domina il nemico mortale: l'indifferenza del mondo. Contro questi pericoli l'editore provvede a sostenere alcuni dei nuovi nati con squadre di promotori, uffici stampa, agenti pubblicitari. La claque del libro ricostruisce la storia delle promozioni editoriali nei secoli. A cominciare da Peter Shöffer, collaboratore di Gutenberg che nel 1469 per primo ebbe l'idea di stampare un foglio con diciannove titoli e di affiggerlo ai muri. Il libro di Ambrogio Borsani ripercorre le tappe fondamentali delle operazioni di sostegno al libro intrecciandole con la storia della pubblicità. Da Shöffer a Renaudot, primo teorico dello scambio. Da Parmentier a Diderot, infaticabile promotore dell'Encyclopédie. La grande stagione dei manifesti, da Chéret a Depero. Si ricostruiscono le case-histories di lanci clamorosi come quello di Fantomas, l'esempio più sorprendente di marketing tra i libri seriali del primo Novecento, e altri eventi straordinari come Via col vento e Il Piccolo Principe. Storie di grandi scrittori come Mark Twain, Hemingway e Steinbeck che si prestavano volentieri alla pubblicità. Un viaggio tra grandi successi e tonfi paurosi, fino a osservare il libro al tempo dei social. Follower, influencer, like, stroncature, cuoricini, emoticon ammiccanti o dispettosi, incensi e veleni della rete. Dai metodi inflazionati di promozione che promettono a tutti un grande successo al singolare caso di Rupi Kaur, astuta regina della poesia social. La storia del libro come racconto appassionante di splendori e miserie del mondo editoriale.
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28 gennaio 2019

Gente di Avvenire: il futuro raccontato al presente.

Si pensa spesso che i cattolici siano degli “intransigenti retrogradi”. Avvenire rappresenta uno sguardo d’eccezione, la sua storia e le sue aspirazioni, anche per i non-credenti, stupiscono. Sin dalla sua fondazione, Avvenire, organo ufficiale della CEI, è la voce che contraddistingue i cattolici ed il loro pensiero all’interno di una società in trasformazione, tanto quella del 1968, come quella del nuovo millennio. Papa Montini, in una riunione di redazione, fornì alcune indicazioni per il giornalista cattolico: “deve cercare di dare sempre parole severe, facili, amichevoli, divertenti, solenni, e profonde, parole che fanno del bene a chi le accetta.” Viene da chiedersi, allora, se l’aggettivo “cattolico” debba essere circoscritto ai fedeli della Santa Romana Chiesa. Attraverso la narrazione corale dei redattori, con stili narrativi diversi, si scopre che non è così: la redazione di Avvenire è una grande famiglia, in cui laici ed ecclesiastici di credi differenti hanno trovato spazio per diffondere le loro idee, a partire da un comun denominatore: non si può prescindere dal valore della vita umana e della verità, qualunque sia l’ambito in cui si opera. Ecco perché il libro è diviso in sei parti, in cui vengono trattate tematiche care fin dalle origini ad Avvenire ed al Vangelo: il mondo, la Chiesa, la società, la giustizia, la scienza, la cultura.
A ben vedere, i cattolici sono chiamati innanzitutto ad avere un rapporto sano ed etico con le scienze, la cultura, l’economia, la giustizia, i social network, e combattere le declinazioni negative che caratterizzano anche le pagine dei giornali: la tecnoscienza che riduce l’uomo alla sua componente biologica, l’economia che rende infelici e diseguali; la piaga sociale del gioco d’azzardo, manovrato dalla mafia e dalla politica; i social che divengono cassa di risonanza dell’odio e della rabbia, e non vengono adoperati per creare spazi di condivisione e di bene.” La rivoluzione “cattolica” deve avvenire tramite la cultura: una cultura che, secondo le parole del curatore Alessandro Zuccari, “non è solamente l’informazione che si occupa di libri, di musica, di mostre d’arte e questioni storiografiche, quanto piuttosto un’informazione che metta questo patrimonio di conoscenze al servizio di una più profonda comprensione dell’attualità e perfino della cronaca in apparenza minuta.” Si deve estendere alla curiosità onnivora tipica dei veri eruditi, ad una chiave di lettura del passato e del presente, per permettere il dialogo fra voci opposte, segno di una reale apertura al futuro.
Nondimeno, Avvenire esemplifica un modello che dovrebbe essere adottato non soltanto dai quotidiani di ispirazione cattolica, ma da chiunque si occupi di giornalismo e informazione. Come asserisce il direttore Marco Tarquinio nell’introduzione all’opera, “un’informazione ben fatta, accurata e libera nei confronti del pensiero dominante aiuta a vedere il bene ed il male, il brutto ed il bello, il giusto e l’ingiusto, il falso e il vero.”, capace di “dare spazio a chi non ha voce”.
Maria Ester Canepa

Voci del verbo Avvenire. I temi e le idee di un quotidiano cattolico 1968-2018, a cura di Alessandro Zaccuri, Vita e Pensiero, Milano, 2018, pp. 192.
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26 gennaio 2019

In libreria

Daniela Attilini
Quelli di via Teulada
Graphofeel, Roma, 2018, pp. 126.

Descrizione
"[...]  via Teulada non è un posto segnalato da guide turistiche, non è un noto monumento e nemmeno un'opera d'arte; ma ognuno di noi può trovarvi un pizzico della propria storia. Ognuno di noi deve qualcosa a quel cancello, a quel cortile ben curato con l'aiuola centrale fiorita. Ognuno di noi, se alza il viso per leggere da lì la storica scritta "Rai-Radiotelevisione Italiana", sa che quella Rai - quei programmi realizzati lì dentro, tra le mura di quegli studi - è entrata tra le mura di
casa nostra. E lo ha fatto prima di tutti. Quando la si chiamava, tanti
tanti anni fa, Mamma Rai forse l'appellativo non era poi tanto sbagliato.
Prefazione di Tito Stagno

25 gennaio 2019

Scuola Holden. Tra Academy, Università e scrittori in serie

La Scuola Holden, nota scuola di scrittura che si fa vanto del volto di Alessandro Baricco come testimonial, diventa università. Sembra una bufala, ma non lo è. Il sito infatti è già aggiornato e nella nuova sezione “Academy” fa sorridere il peso dato alle “sette discipline” insegnate (che conferiscono un diploma simile ad una laurea al Dams).
Queste sono, e cito: “un ristrettissimo numero di capacità fondamentali per chiunque voglia abitare il mondo reale. Sono sette, e le abbiamo chiamate Discipline”. Fa sorridere perché una frase simile, così fresca e giovane, così pubblicitaria, implica una proposizione fondamentale: tutti coloro che non conoscono queste Discipline non sono capaci di abitare il mondo reale.
Ma sorvolando quest'enorme ambizione (giustamente equiparata al costo di
ogni corso proposto), vorrei soffermarmi su ciò che conta davvero in questa scuola: la scrittura. La Scuola nasce come scuola di scrittura, e un paradosso fondamentale sorge navigando a caso nel sito; giustamente la scrittura è considerata un “mestiere artigianale”, nella presentazione. Ma non ne sono sicuro. L'opinione diffusa (da cui, però, bisogna spesso riguardarsi) è che la Scuola sia una officina di autori tutti uguali o simili come i pezzi usciti da una fabbricazione in serie. Tutti capaci di scrivere libri, e molti sono pubblicati dalla stessa casa editrice. Ma li rende, una sola pubblicazione (e, direi, seriale), degli scrittori? O sono una trovata recente, un ingranaggio del piccolo, e poco ridente, mercato librario?
A voi le vostre opinioni, a me le mie. Ma sono convinto che la scrittura non si possa insegnare, e sono ancor più convinto che si possa esercitare a casa, nel silenzio della propria stanzetta o pure sulla metro, nella bolgia di pendolari stressati e simpatici perdigiorno. Non c'è bisogno di pagare una cifra enorme per migliorare i muscoli nella palestra sotto casa. Allo stesso modo, non si paga una cifra simile per allenarsi nella “questione privata” che è la scrittura, ma forse solo per avere gli agganci per pubblicare. O peggio, per scrivere come vogliono gli altri che tu scriva. E dov'è lo scrittore? Dov'è l'artista? E l'ingegno? Dov'è la fantasia? Dove sono gli scrittori? No, non credo siano alla Scuola Holden. Ma queste sono mie opinioni, e se voi siete appena usciti (poveri) da una Scuola simile, non provo nessun odio per voi, ma solo compassione.
Cosimo Angelini
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19 gennaio 2019

In libreria

Carlo Gubitosa
Il giornalismo a fumetti.
Raccontare il mondo col linguaggio della nona arte
NPE, Lucca, 2019, pp. 239.
Descrizione
La storia, la cronaca e le tecniche del graphic journalism in un volume nato
dall'esperienza di un giornalista appassionato di fumetti, che ha imparato a
scriverli su riviste autoprodotte per arrivare fino alle più prestigiose testate nazionali. Questo manuale accompagna in un nuovo genere del giornalismo chi vuole scrivere per il fumetto e chi vuole disegnare per l'informazione, per vivere la magnifica avventura di trasformare buone idee in pagine che possano lasciare il segno del fumetto, della grafica e del giornalismo nella vita di chi legge, ma anche in quella di chi scrive e disegna. Un percorso che inizia con l'avvento del racconto grafico negli USA, passa attraverso l'esperienza italiana della rivista «Mamma!» come laboratorio sperimentale di giornalismo grafico per una generazione di autori, e segue l'ingresso del comics journalism negli spazi più autorevoli della stampa periodica italiana e internazionale. Un volume che raccoglie esperienze, testimonianze e percorsi d'autore, arricchito con un potente impianto di analisi teorica e 48 pagine di sceneggiature originali, 53 tavole di giornalismo a fumetti e 448 pagine di contenuti digitali extra.
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18 gennaio 2019

In libreria

Thierry Frémaux
Cannes Confidential
Il direttore del festival più importante del mondo racconta i dietro le quinte

Donzelli, Roma, 2018, pp. 536.

Descrizione
«Non lascio mai i luoghi da cui provengo e mi affeziono a qualunque posto in cui vado, cosa che, a volte, crea qualche problema nella mia vita. E la mia vita è Cannes». Il Festival di Cannes è il luogo del cinema per eccellenza, un concentrato affascinante, scintillante, glorioso e anche contraddittorio di tutto quello che il cinema ha rappresentato e rappresenta tuttora: dalla sperimentazione allo star system, dal mercato alla scoperta di nuovi talenti. Thierry Frémaux è il direttore del Festival da oltre un decennio: dalle sue scelte dipende il destino di cineasti, produttori, attori, sceneggiatori. In questo libro, scritto in forma di diario, Frémaux racconta in maniera intima e personale in cosa consiste il suo lavoro, accompagnando i lettori in una sorta di backstage letterario del più importante festival del mondo. Frémaux ci guida nel cuore della macchina del Festival, per celebrare anzitutto coloro che lo rendono possibile, perché, come egli stesso scrive: «Cannes appartiene a quelli che lo fanno: i cineasti, gli attori, gli operatori professionali, i giornalisti, gli spettatori, i visitatori, i turisti e i cannensi». L’anno che precede l’evento che mette il cinema al centro del mondo viene ripercorso da Frémaux in un concitato susseguirsi di incontri con star e registi, di aneddoti e storie dal dietro le quinte della Selezione ufficiale. Senza risparmiare giudizi taglienti e inaspettati apprezzamenti. O clamorose esclusioni. Il delicato processo di scelta è preceduto da un lunghissimo lavoro preparatorio che il direttore del Festival descrive in queste pagine in modo magistrale, fino a farci entrare in quello stato di tensione che si conclude con un personalissimo atto decisionale: un no o un sì che cambieranno le sorti di un film. Un omaggio alla settima arte, rivolto non solo alla comunità del cinema, ma a tutti coloro che il cinema lo consumano, lo amano, e non rinunciano a farsi trasportare dai sogni e dalle emozioni che esso veicola.

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16 gennaio 2019

In libreria

Daniela Attilini
Quelli di via Teulada
Graphofeel, Roma, 2018, pp. 126.
Descrizione
 "[....] via Teulada non è un posto segnalato da guide turistiche, non è un noto monumento e nemmeno un'opera d'arte; ma ognuno di noi può trovarvi un pizzico della propria storia. Ognuno di noi deve qualcosa a quel cancello, a quel cortile ben curato con l'aiuola centrale fiorita. Ognuno di noi, se alza il viso per leggere da lì la storica scritta "Rai-Radiotelevisione Italiana", sa che quella Rai - quei programmi realizzati lì dentro, tra le mura di quegli studi - è entrata tra le mura di casa nostra. E lo ha fatto prima di tutti. Quando la si chiamava, tanti tanti anni fa, Mamma Rai forse l'appellativo non era poi tanto sbagliato". - Prefazione di Tito Stagno.
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15 gennaio 2019

Giornalismo in forma di fumetto

Gianluca Costantini è il miglior esponente della nuova frontiera del giornalismo e fedele alla linea è una raccolta delle sue opere, sparse tra le pagine delle testate più autorevoli a livello mondiale, che ci fa comprendere in modo semplice e veloce come il suo lavoro sia un concentrato di carica artistica, espressiva ed emozionale. Lui scandisce le sue cronache con tavole e vignette.
Certe storie hanno un impatto incredibile se rappresentate sotto forma di vignette, proprio come i fumetti che hanno accompagnato la nostra infanzia. Pagine in cui l’autore si schiera e prende una posizione senza renderla ingombrante.
Il tratto grafico è posizionato sulla linea di confine tra reale e irreale: spesso usa fotografie e immagini reali colorate innaturalmente con lo scopo di suscitare determinate emozioni e mettere in risalto alcuni elementi. È impressionante l’uso dei colori caldi nel racconto “il giorno della conoscenza”, Costantini in poche pagine ci sbatte letteralmente in faccia la storia dell’attentato in Ossezia del Nord, quando nel 2004 morirono 300 persone, di cui 186 bambini. Le verità di quel giorno sono poco chiare e Costantini si rivolge direttamente al lettore senza entrare in temi giudiziari non di sua competenza ma vuole creare quell’empatia spesso assente durante le cronache di attentati “non occidentali”.
Oggi il graphic journalism è diventato necessario. Le immagini restano molto più della scritte e Costantini, da giornalista di razza quale è, le utilizza in modo magistrale per raccontare eventi e storie, regalandoci una visione ampia e approfondita delle violazioni dei diritti umani ai quattro angoli del mondo. Dà voce a poeti messi a tacere, giornalisti rinchiusi e attivisti torturati. Un atlante dei diritti umani calpestati.
La sua linea semplice e pulita, parla a nome degli esclusi, a chi toglie agli altri e a se stesso nella vana speranza di un futuro diverso. A tratti ho trovato in Costantini un po’ di De Andrè, non vuole chiamare a una rivoluzione e formare una coscienza di classe ma prova a dare una voce a tutti, nessuno escluso. Leggendo le strisce di “Mafia”, dove Costantini dà spazio non ai morti innocenti, ma ai pregiudicati che nessuno si ricorda, ho subito pensato all’ultima strofa di “città vecchia” del
cantautore genovese: “se capirai, se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo”. La persona viene prima di tutto, anche se è la parte cattiva del problema.
Il fumetto di Costantini urla la disperazione di chi si trova in subordinazione e racconta, per dirla sempre in modo Deandreiano, “storie sbagliate”, nel senso che in un mondo civile non dovrebbero succedere.
Assumere attraverso la matita la loro voce è per il giornalista un tentativo di riportare i loro pensieri che altrimenti svanirebbero nell’aria. Una restituzione di presenza, una dichiarazione di esistenza.
Fedele alla linea è il testamento del graphic journalism.
Un libro che vorrei non fosse mai esistito, visto che certe storie non dovrebbero esistere.
Un libro che l’autore dedica a Giulio Regeni e in cui gli dà vita tra le pagine.
Un libro disegnato da una matita ben allenata a seguire l’occhio.

Andrea Tedone

Gianluca Costantini
Fedele alla linea, il mondo raccontato dal Graphic Journalism
BeccoGiallo, Padova, 2018.



12 gennaio 2019

Giornalismo, terrorismo e segreto di stato


Qual è il legame tra servizi segreti e giornalismo? Fino a che punto la divulgazione di informazioni riservate è legittima e non mette in pericolo la sicurezza nazionale di un Paese?
John Lloyd, nel suo Journalism in an Age of Terror, pubblicato nel 2017 ed edito da Reuters Institute for the Study of Journalism, si pone questi quesiti e ripercorre l’evoluzione dei servizi segreti e dei rapporti col mondo del giornalismo in tre Paesi in particolare: Inghilterra, Francia e Stati Uniti.
Alla base dell’analisi di Lloyd c’è una grande verità: la politica è sempre stata e sempre sarà connessa al mondo del giornalismo. Partendo da questo assunto, Lloyd evidenzia che sin dalla seconda guerra mondiale gli stati si erano dotati di un efficiente sistema di spionaggio: era fondamentale per vincere la guerra. La grande differenza con i servizi segreti odierni è che oggi non sempre la segretezza è garantita. Lo scandalo Watergate, poi la divulgazione dei documenti del Pentagono relativi alla guerra in Vietnam e il più recente scandalo di Wikileaks, a cui è seguito il caso Edward Snowden. Insomma, i governi di tutto il mondo hanno sempre tenuto nascoste certe notizie ai cittadini, e poi, da un momento all’altro, queste notizie sono state gettate in pasto all’opinione pubblica, scatenando ovviamente uno scandalo.
Ma la domanda è: è giusto che le persone sappiano come opera la CIA? È giusto informarli sull’esistenza di programmi di sorveglianza di massa come quelli della NSA (National Security Agency)? Tutto questo non compromette l’efficacia stessa dei servizi segreti? La questione è sicuramente complicata, oggi più che mai. In un’epoca in cui la minaccia del terrorismo e delle armi di distruzione di massa sembra più forte che mai, il confine tra privacy e sicurezza nazionale invece è sempre più labile. Non sono altro che due facce della stessa medaglia: impossibile pretendere una cosa senza essere disposti a rinunciare a un po’ dell’altra. Se i governi devono controllare tutti per sconfiggere la nuova minaccia dell’Isis, allora anche le nostre care conversazioni Whatsapp devono essere sotto l’occhio del grande fratello di Orwell.
John Lloyd nel suo libro cerca di districarsi all’interno di questo mondo così complesso: entrano in gioco tanti fattori e ognuno di essi è importante e merita attenzione. L’obbiettivo dell’autore è far riflettere il lettore su una realtà più che mai attuale, mostrandogli che anche lui è coinvolto in questa trama così oscura. Attraverso estratti di interviste a giornalisti premi Pulitzer come Dana Priest e a ex capi di alcune agenzie di intelligence, Lloyd riesce a trovare un filo conduttore all’interno della problematica e offre così al lettore un’analisi chiara e logica. Il linguaggio che usa è conciso e lineare, il testo è ricco di testimonianze dirette che aiutano a vedere la questione sotto diversi punti di vista. Insomma, lo scrittore ci offre la chiave di lettura di un problema tanto complesso quanto affascinante, ma lascia sempre il pubblico libero di farsi un’idea propria.
Con un ritmo sempre più incalzante Lloyd finisce per insinuare nel lettore la consapevolezza di essere come un cane che si morde la coda: non vuole essere spiato, vuole che la sua privacy sia rispettata, ma al tempo stesso pretende che il governo lo difenda da tutti i mali. E questo perché ha paura, perché nella sua testa risuonano ancora le parole dell’ex Presidente della Repubblica francese François Hollande in seguito agli attentati di Parigi: “Siamo in guerra”.
Simona Rizzo


John Lloyd
Journalism in an Age of Terror
Reuters Institute for the Study of Journalism, London, 2017, pp. 272.
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11 gennaio 2019

Fake news e post-verità


Quanto sono affidabili le notizie che leggiamo sui social network e sulle pagine online? Su quali criteri ci basiamo per stabilire se una notizia è vera o frutto di una mente pronta a sviarci pur di ottenere consenso e affondare un nemico? Quali fonti possono essere ancora ritenute autorevoli?
In un mondo tecnologico sempre più soggetto alle fake news, in un continuo oscillare tra vita online e vita offline, Giuseppe Riva tenta di analizzare il fenomeno spiegando le origini, i processi di creazione e gli strumenti di difesa da queste notizie ingannevoli ma create ad opera d'arte.
Fake news, vivere e sopravvivere in un mondo post-verità, è infatti l’ultimo libro di Riva, pubblicato nel 2018 ed edito dal Mulino, Bologna; Riva, professore di Psicologia della Comunicazione presso l’Università Cattolica di Milano, è presidente dell’Associazione Internazionale di CiberPsicologia e autore di altri libri a tema social network e news online tra cui I social network (2016) e Nativi digitali (2014).
In Fake news l’autore, come dichiarato fin dalla premessa, si pone l’obiettivo di rispondere a tre domande: se il termine “fake news” sia solo un modo per definire i processi di disinformazione che da sempre sono presenti in ambito politico; quali sono i meccanismi tecnologici e psicosociali che consentono la creazione e la diffusione delle fake news; come si ci può difendere al giorno d’oggi dalle notizie false che ci sommergono quotidianamente al punto da non saper più distinguere cosa sia vero e cosa sia falso. Nel corso della riflessione per rispondere a tali quesiti, in un viaggio lungo cinque capitoli attraverso quello che l'autore definisce un “mondo di post-verità”, Riva utilizza ed incrocia nozioni di diverse discipline quali filosofia, scienze della comunicazione, psicologia, informatica, sociologia, ciberpsicologia e la scienza delle reti.
L'autore riesce a delineare un quadro generale del fenomeno delle moderne fake news attraverso l'utilizzo di termini semplici e esempi storici che facilitano la comprensibilità; dopo l'analisi dell'influenza che queste notizie hanno sulla comunità e sulle scelte dei singoli individui, passa quindi a spiegarne i metodi di diffusione tramite la persuasiva metafora delle cybertruppe, costituite da bot e troll che contribuiscono quotidianamente a farle penetrare nelle case degli italiani in una non convenzionale guerra alla disinformazione.
Seppur alcuni riferimenti possano sembrare datati (si fa riferimento ad esempio al dipartimento D del KGB russo del 1954), Riva riesce ad attualizzare l'argomento tramite l'analisi delle smart mobs, della nuova sharing economy (con riferimento a Uber e Airbnb) e del ruolo incisivo dei social network; se non avete mai sentito nessuno di questi termini tecnici non fatevi tuttavia spaventare, il libro spiega chiaramente ogni concetto rendendo la lettura accessibile a tutti, anche a coloro che non “masticano” questi concetti.
L'autore utilizza uno stile chiaro, conciso e lineare, con periodi semplici e lessico accessibile a tutti; è chiaro l'intento di rendere la lettura facilmente fruibile e di “alleggerire” concetti tecnici che potrebbero risultare complicati e talvolta incomprensibili. Il tipo di scrittura evita perifrasi, è scorrevole e adatta ad ogni tipo di lettore: anche chi non ha alcuna conoscenza sull’argomento infatti, può facilmente comprendere tutti i concetti trattati, dal momento che l’autore esplica tutto ciò di cui parla anche attraverso esempi facili ed intuitivi.
Camilla Conti


Giuseppe Riva
Fake news, vivere e sopravvivere in un mondo post-verità
Il Mulino, Bologna, 2018.
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08 gennaio 2019

Dark Web e Hacker


Quando la realtà si avvicina alla fantasia. Tra storie che mescolano la suspense dei film di spionaggio all’atmosfera angosciante stile Matrix, il libro di Carola Frediani  (Guerre di Rete) ci fa percorrere un viaggio lungo nove capitoli tra sigle, termini tecnici e nomi di attori, privati e aziendali, che abitano il regno oscuro di Internet. “Guerre di Rete” infatti riesce, con una scrittura fluida e ben calibrata tra descrizione e tecnicismi, ad appassionare il lettore via via che si prosegue nel libro; ovviamente la lettura risulterà ancora più fluida per coloro che ne masticano gli argomenti, ma il libro è rivolto a tutti. Non è infatti solo l’interesse a crescere pagina dopo pagina, ma si sviluppa un senso di paranoia crescente verso quel mondo online nel quale pubblichiamo quotidianamente pensieri e foto di gatti.
Nonostante una parte di queste storie riguardi gli utenti comuni di internet, utilizzatori di Social Network e di servizi di messaggistica, una buona parte dell’analisi di Frediani riguarda il processo democratico che vede coinvolti governi, enti parastatali, ricercatori e dissidenti nella lotta intestina tra intercettazioni e diritto alla privacy. Il primo capitolo tratta proprio di questo, del legame che coinvolse Costin Raiu e Stuxnet, rispettivamente ricercatore di sicurezza informatica e virus che mandò in tilt le centrifughe di un impianto nucleare in Iran, sotto la guida dello Zio Sam. Oltre alle situazioni alla James Bond vissute da Raiu, il libro ci fa immergere in ciò che accade nel cosiddetto Dark Web, dove le vendite di exploit (tecniche di hacking), vulnerabilità zero-day (fragilità dei vari sistemi conosciute solo dagli attaccanti) e spyware, ransomware, virus di ogni genere sono all’ordine del giorno.
Frediani, però, non dà il tempo di abbandonarci a facili retoriche da improvvisati censori di ferro; ci mostra infatti come l’anonimato sul web dia sì riparo a gruppi criminali, ma soprattutto rappresenti l’unica ala protettrice degli attivisti nei governi autoritari. Più avanti nel libro ci farà esplorare il mondo e le persone che ruotano attorno a TOR, il browser crittografato che riesce a celare la nostra identità online. La crittografia è un altro punto centrale, nel testo e nel mondo odierno. Con l’avvento delle nuove app di messaggistica ed il loro utilizzo della crittografia end-to-end, vari governi hanno tentato di fare pressioni sulle case produttrici o di attuare leggi che ne impediscano l’utilizzo, al fine di rendere nuovamente possibili le intercettazioni. Questo non è nemmeno l’unico caso in cui il governo fa braccio di ferro sul tema della sicurezza con attori privati; Frediani ricorda infatti lo scontro tra FBI e Apple, in cui il primo tentò di guadagnarsi l’accesso ad un dispositivo di un attentatore. Cambiano le tecnologie, ma i problemi restano gli stessi: chi controlla i controllori, dotati di un magico passpartout per un accesso universale? Ben più inquietante è il caso riportato sugli Emirati Arabi, in cui il progetto di creare delle “sonde” da installare pubblicamente in ogni dove per poter spiare ogni dispositivo elettronico ricorda neanche troppo da lontano il Grande Fratello di orwelliana memoria.
Tuttavia, precisa l’autrice, se tutto questo parlare di spie, Dark Web e hacker sembra essere qualcosa di lontano dall’utilizzatore comune, ciò non è così. Oltre al caso citato della pubblicazione di nomi e cognomi di migliaia di utenti iscritti ad un portale di incontri extraconiugali, e di come questo abbia portato al suicidio di un padre di famiglia, quotidianamente chiunque è soggetto alla profilazione. Pertanto, non si può ignorare la domanda se ciò influisca sul processo decisionale individuale, e di conseguenza sulla democrazia stessa. In senso lato, ciò che accade online ha necessariamente delle conseguenze offline.
Il libro di Carola Frediani è l’evidente risultato di un approfondito lavoro di ricerca, grazie al suo lavoro di giornalista specializzata in questo settore. Le esaurienti note e le attente descrizioni dei concetti più difficili riveleranno all’utente medio di internet la propria essenza: un’inconsapevole Cappuccetto Rosso in un bosco digitale abitato da lupi.
Matteo Miccichè

Carola Frediani 
Guerre di Rete
Laterza, Bari-Roma, 2018 (II edizione).
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07 gennaio 2019

Il mondo dei "mi piace"

Valentina Croce (1994) è dottore di ricerca in sociologia e ricerca sociale e assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’uomo. Lo stile del suo libro+ è principalmente descrittivo e il testo potrebbe essere definito come un saggio, ove l’autrice tratta in maniera particolarmente accademica il tema dell’identità digitale della nostra epoca.
Il saggio si articola sulla base di un sondaggio: numerosi utenti di Facebook sono stati interrogati sulla tipologia di rapporto che hanno instaurato con i social, i loro comportamenti verso il social in sé e verso gli altri utenti e come tutto ciò si riversi poi nella loro vita quotidiana. Attraverso la percentuale di risposte ottenute, Valentina Croce ha cercato di spiegare a fondo come il fenomeno Facebook abbia rivoluzionato completamente la percezione di Sé di ciascun individuo e i rapporti interpersonali tra individui all’interno di una comunità. L’autrice ha appunto definito in primis il concetto di individuo e di comunità, spiegando come essi si sono andati a formare nel tempo lungo le diverse epoche che si sono avvicendate. In seguito ha accompagnato il lettore attraverso un percorso ragionato che si è concluso affermando che l’individuo, alla continua ricerca del consenso, con l’avvento di Facebook ha dato vita ad un processo di vetrinizzazione virtuale della propria vita: tale processo, secondo la Croce, non dà segni di arresto e presto invaderà tutti gli spazi dell’esistenza umana.
Il messaggio che l’autrice vuole che i lettori percepiscano è il seguente: ciascun individuo nella sua vita cerca di risaltare in qualche modo, di essere originale e non banale. Facebook ha dato, in un certo senso, la possibilità (o meglio la percezione) di farsi conoscere anche a coloro che diversamente sarebbero rimasti nell’ombra.
Lo stile del saggio non è del tutto scorrevole, poiché, come già detto in precedenza, l’autrice si sofferma di frequente sulle descrizioni dei partecipanti al sondaggio, specificando le esatte percentuali che hanno diviso questi ultimi in differenti tipologie di utenti. Si tratta di un percorso introspettivo che spinge il lettore a riflettere a sua volta su quale sia l’atteggiamento da egli adottato nei confronti di questa nuova realtà virtuale.
Uno dei punti di forza di questo testo è proprio quello di accompagnare il lettore attraverso il ragionamento: in particolare la volontà di fargli capire quanto sia diventata importante nella vita di tutti i giorni la possibilità di appoggiarsi a Facebook, che si presta a diversi ruoli: passatempo, luogo dove organizzare consensi o creare discordie, palcoscenico su cui vestire i panni di un personaggio diverso da quello della vita quotidiana.
Ciò che mi ha colpito del testo è stato con quanta precisione Valentina Croce sia riuscita ad analizzare il processo di digitalizzazione della nostra epoca. È interessante capire come le persone abbiano interagito con l’avvento di internet, una novità che è diventata parte delle nostre vite in maniera così semplice e ormai così fondamentale. Lo consiglio ai lettori che siano incuriositi da tematiche di attualità e a lettori molto giovani, i quali, essendo nati nel pieno delle innovazioni tecnologiche, non possono sapere come fosse la vita sociale prima di Facebook.
 Valeria Venturini


Valentina Croce, 
Mi piace! La ricerca del consenso ai tempi di Facebook
Meltemi, Milano,  2018.


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04 gennaio 2019

Corso di scrittura

Corso di scrittura all'Università Ben Gurion di Tel Aviv:
"Non posso insegnarvi a scrivere.
Però vi posso insegnare a cancellare". 
Amos Oz


*Corriere della sera, 4.1.2019.
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